sabato 8 dicembre 2007

fascisti, antifascisti e morti ammazzati

Tonache insanguinate
R. Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Casale Monferrato, Piemme, 2007 (3° edizione).

Il tema dei sacerdoti uccisi nel nostro paese – e soprattutto in Emilia Romagna – nel biennio 1945-1947, non è mai stato oggetto di analisi serene e documentate. Lo specchio delle indagini è andato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, dalla polemica giornalistica di ambito neofascista (il fazioso classico dei fratelli Pisanò, Il triangolo della morte, Milano, Mursia, 1993) alla drastica sottovalutazione di colore politico opposto (su tutti il documentato Mirco Dondi, La lunga liberazione, Roma, Editori riuniti, 1999).
Nel mezzo si trova il “pensiero debole” (e l’ancor più debole storiografia scientifica) di ispirazione cattolica, che ha lasciato spesso spazio a volumi che potremo definire volenterosi ma nulla più; nella generale mediocrità, spicca, a distanza di tempo, l’analisi di uno studioso serio come don Lorenzo Bedeschi che nel suo L’Emilia ammazza i preti (Bologna, ABES, 1951) aveva tentato una prima messa a punto dell’argomento, con l’unico difetto di essere ancora troppo vicina ai fatti in questione e quindi priva di quei supporti (carte e testimonianze attendibili) che ne potevano fare un sicuro punto di riferimento per studi scientifici successivi, comunque mai arrivati.
Il lavoro di Roberto Beretta, di taglio giornalistico, ma con buone basi in termini di documenti, bibliografia e testimonianze, traccia sine ira et studio le vicende di 130 sacerdoti che ebbero in comune la sorte di essere uccisi da partigiani nel periodo 1944-47. Ora, anche escludendo le vicende relative alla Venezia Giulia, dove solo in Istria furono uccisi una cinquantina di preti (tutti figli di un Dio minore, e sui quali, prima o poi, confidiamo che qualcuno possa scrivere cose diverse dalla bolsa agiografia destrorsa o dal giustificazionismo a oltranza di una certa storiografia “di confine”), restano ottanta morti ammazzati in abito talare, sui quali solo l’appassionata indagine del giornalista di "Avvenire" inizia a gettare un po’ di luce. Ci ha fatto specie constatare come in molti casi Beretta abbia incontrato il fastidio degli interlocutori, e registriamo con doloroso stupore l’atteggiamento di alcuni sacerdoti (pp. 198-199) i quali di un loro confratello morto ammazzato sessant’anni prima non hanno saputo dire niente più che un requiescat, riattaccando il telefono in faccia al giornalista.
Sappiamo bene che sui preti uccisi dai partigiani nel 1944-45, oltre al disinteresse, molta storiografia ha messo sottotraccia una risposta buona per tutte le stagioni, ossia “che in fondo se lo meritavano”: chi scrive rammenta ad esempio gli impietosi commenti di Carlo Francovich nel suo La Resistenza a Firenze (Firenze, La nuova Italia, 1962) di fronte all’uccisione del pievano di Cercina don Adolfo Nannini avvenuto nel maggio del 1944; questi, dalle indagini di Beretta, pare non fosse esattamente una spia al servizio dei nazisti. Sui sacerdoti uccisi dopo il 25 aprile, e talvolta fino alle soglie del 1948, confidiamo che qualcuno esca dalle proprie gabbie politiche per spiegare le ragioni di un accanimento anticlericale che portò in modo cruento nella tomba tre sacerdoti in Piemonte, tre fra Lombardia e Veneto e ben venti nella sola Emilia Romagna.

Un vademecum per la storia militare di Salò
P. Battistelli, A. Molinari, Le forze armate della RSI, Milano, Hobby&Work, 2007

Il volume di Battistelli e Molinari è un agile e preciso vademecum per chiunque si voglia avvicinare al complesso tema delle forze armate di Salò. Di questo lavoro non possiamo che dire, da studiosi di storia militare, ogni bene possibile. La narrazione è sintetica e rigorosa, avulsa da qualsiasi colorazione ideologica; la genesi, l’evoluzione e la fine dell’esercito, della (quasi inesistente) marina e della (scarsa) aviazione dell’ultimo Mussolini ci è apparsa davvero priva di difetti evidenti. Lo studio dei due ricercatori consente, in molti casi, di mettere in soffitta alcune indigeste pizze di taglio neofascista, tanto datate e imprecise quanto improvvisamente citate anche in studi di serie pretese. E’ ovvio che il dettaglio dell’analisi non scende fino al livello di compagnia o di plotone, ma per una ricerca che non ha pretesa di essere un’“opera omnia”, i contenuti esposti bastano e avanzano.
In conclusione una avvertenza: mancano le note. Ciò appare un peccato men che veniale, visto che il lavoro archivistico e bibliografico traspare in ogni singola pagina, in tutte le tabelle e nelle statistiche presenti nel volume. Chi scrive, a beneficio del lettore, aggiunge che molta parte del lavoro deriva con tutta evidenza dalle decennali indagini di Pierpaolo Battistelli, che a suprema vergogna dell’editoria italiana, sono rimaste sino ad oggi purtroppo in gran parte inedite.
Ad averne libri di storia militare come questo.

Il duce di Cremona
G. Pardini, Roberto Farinacci, Firenze, Le Lettere, 2007

Giuseppe Pardini ci presenta quella che, sotto tutti i punti di vista, appare la biografia definitiva di Roberto Farinacci, ras di spicco dell’ala radicale del fascismo. Ci sarebbe da aggiungere “finalmente”, in quanto nell’ultimo lustro la figura del leader dello squadrismo cremonese, è stata lumeggiata in modo non sempre appropriato in opere di taglio giornalistico o tutt’al più divulgativo.
Il lavoro di Pardini è invece assai documentato, sia dal punto archivistico che bibliografico, e si concentra soprattutto sul decisivo decennio che va dal 1920 al 1930, periodo nel quale la carriera politica di Farinacci sostanzialmente si esaurisce in modo completo: creatore dello squadrismo rurale nella bassa Lombardia (con modalità organizzative che evidenziano notevoli somiglianze con il modello ferrarese di Italo Balbo), protagonista della marcia su Roma, segretario del partito nei mesi cruciali del delitto Matteotti (davvero ricche di interesse le pagine relative a questo periodo), accantonato da Mussolini il quale, passata la buriana, gli preferisce l’allineato Augusto Turati, e infine scomodo e neghittoso antiduce che dalle colonne del suo “Regime Fascista” bacchetta e polemizza con la Chiesa, gli industriali, i fascisti tiepidi e riformatori, spesso ignorato e frequentemente censurato: il giornale viene diverse volte sequestrato e Mussolini ordina al prefetto di Cremona di controllarne quotidianamente le bozze prima di permetterne l’uscita.
Gli anni ’30 ci consegnano un Farinacci isolato e “sotto schiaffo” da parte della magistratura e degli informatori dell’OVRA, riuscendo peraltro sempre ad uscire indenne in ogni sede di giudizio. Nella seconda metà del decennio avviene l’avvicinamento al nazismo, che diventa vera e propria alleanza alla vigilia della guerra mondiale, tanto che il megafono italiano delle posizioni antisemite di Adolf Hitler diviene stabilmente il “Regime Fascista”. Peccato che Pardini non abbia fatto luce su questo passaggio con la stessa profondità dei capitoli iniziali del volume, probabilmente a causa di motivi editoriali (il volume effettivamente è assai corposo). Ancor meno spazio è dedicato alla fine del percorso umano di Roberto Farinacci, segnato dal poco avveduto comportamento nella fatale notte del 25 luglio 1943, dalla fuga in Germania e dall’adesione alla RSI, esperienza che si conclude tragicamente per il ras di Cremona, con la fucilazione nella piazza di Vimercate.
E’ forse questo l’unico appunto che ci possiamo permettere di avanzare all’autore, ossia l’aver redatto una biografia dettagliata e approfondita, ma forse “sbilanciata” sul periodo in cui Farinacci fu davvero l’ago della bilancia del fascismo. Peraltro concordiamo con Pardini quando sottolinea come, esaurito il compito di cane da guardia della rivoluzione delle camicie nere, il radicale segretario del PNF aveva cessato di offrire motivi di interesse per Mussolini, il quale lo confinò, per i vent’anni successivi nel suo feudo lombardo, da dove ringhiò molto, senza mai mordere.

Giovani carnefici in camicia nera
S. Residori, Il massacro del Grappa, Verona, Cierre, 2007

La storia militare, come qualche volta abbiamo sottolineato, è un mestiere ingrato, fatto di cifre, statistiche, battaglioni e reggimenti. Però, come sostiene Giorgio Rochat, è l’unico supporto possibile per capire vicende altrimenti destinate a fumose indagini sociologiche che in alcun modo sono d’aiuto per la ricostruzione e l’interpretazione dei fatti.
Questa specializzazione della ricerca storica è animata da una testarda e ristretta “coalizione di volenterosi”, di cui chi scrive si onora di far parte, composta da uomini consci di fare studi tanto indispensabili quanto sottovalutati da larga parte del mondo accademico. Accogliamo quindi volentieri fra noi Sonia Residori che ci ha regalato – a oltre sessant’anni dai fatti in questione – la prima indagine sistematica dei reparti italiani e tedeschi che parteciparono alla sanguinosa caccia all’uomo svoltasi sul monte Grappa alla fine di settembre del 1944. Il fatto di aver unito alla sensibilità femminile la sicura padronanza di documenti (molti dei quali inediti), dovrebbe a parer nostro indurre tutti gli studiosi scientifici a essere grati alla studiosa vicentina, la quale, letteralmente, fa nomi e cognomi di chi fra Bassano e Feltre massacrò senza pietà centinaia di giovani e giovanissimi disarmati e inermi.
Già, perché il primo mito che viene dissolto è quello della so called battaglia del “Grappa”, nato ai tempi in cui Roberto Battaglia e le decine dei suoi (assai meno dotati) discepoli locali gonfiavano di retorica le vittorie partigiane, mascherando le sconfitte, gli errori e le vigliaccherie dei capi e dei gregari dietro a poderose cortine fumogene di artifici dialettici e di mezze verità. Non ci fu alcuna battaglia nei colli sopra Bassano, come certa storiografia ha scritto per mezzo secolo unendo in modo incongruo nomi e luoghi che videro fatti d’arme nella prima guerra e nella seconda guerra mondiale. Lo scontro (se così possiamo chiamarlo) riguardò poche decine di animosi che cercarono in modo coraggioso e suicida di opporsi alla “operazione Grappa”, che coinvolgeva circa quattromila fra fascisti e nazisti, appoggiati da armi pesanti, e coordinati dal comando superiore delle SS e della polizia tedesca. Gli altri, le centinaia di giovani che sulla montagna avevano cercato rifugio e protezione per non essere costretti alla leva della RSI o ai lavori forzati per la Wehrmacht, furono catturati senza fatica alcuna e condotti come agnelli al macello, già spettacolarmente preparato a valle: forche, roghi e muri per le fucilazioni.
Bene fa la Residori a soffermarsi sulla leggerezza dei comandi partigiani e sull’insipienza degli ufficiali di collegamento delle missioni alleate che furono la causa prima del massacro. Così come altrettanto bene la studiosa vicentina illumina i protagonisti della strage; molti li conoscevamo, come i ragazzi in camicia nera del 63° M Tagliamento, già tragicamente assuefatti alla violenza più estrema e i fascisti del posto inquadrati nella brigata nera Faggion, che aggiungono un ferale tocco fratricida all’azione. Altri rappresentano una scoperta davvero degna di nota: gli avieri della Flak Italien i quali provenivano dai battaglioni giovanili della GNR, gli impuberi fucilatori delle fiamme bianche, tragici balilla sui quali davvero ci sarebbe necessità di indagini più accurate e i disgraziati poliziotti del Corpo di sicurezza trentino, i quali in divisa tedesca e agli ordini di ufficiali nazisti composero – con evidente spregio antitaliano – alcuni dei plotoni di esecuzione di Bassano. Fra i tedeschi constatiamo la presenza degli specialisti della SD (l’intelligence delle SS) e il braccio secolare composto da russi rinnegati e da un reparto davvero ubiquo della lotta antipartigiana e meritevole anch’esso di ulteriori approfondimenti, ossia il Sicherungsregiment della Luftwaffe, appena reduce da lungo ciclo operativo in Piemonte.
Non manca nulla nelle pagine che descrivono il succedersi della strage, con il quotidiano stillicidio di impiccati e fucilati senza misericordia e spesso di fronte al pubblico dei camerati venuti a godersi le esecuzioni: forse solo una donna poteva descrivere con la pietas necessaria questa pagina di violenza assoluta e devastante; i fatti del Grappa segnarono poi in modo indelebile la pacifica comunità locale, la quale, come altrove, nel dopoguerra ebbe da un lato la giustizia sommaria (che in genere non punisce i colpevoli) e dall’altro l’indecente iter giudiziario offerto da uno stato assente e arcigno, che rimise in libertà in pochi anni e senza troppo danno gli autori materiali della strage.
Sonia Residori trascrive infine con puntualità, a imperitura memoria dei posteri, le dichiarazioni processuali grottesche e risibili concordate fra gli imputati al fine di sminuire le ingombranti responsabilità delle esecuzioni bassanesi; nel leggerle si avverte un contrasto stridente con la memoria dei reduci di Salò, in genere densa di “pugnal fra i denti e bombe a mano”. Il rastrellamento più feroce avvenuto nel Veneto fra il 1943 e il 1945 diventa incredibilmente “la gita sul Grappa” di fronte ai giudici alle Corti d’assise, una sorta di allegra camminata fra i boschi, incidentalmente costellata di morti, uccisi non si sa da chi. L’unico paragone che, absit iniuria verbis, ci sovviene alla mente leggendo questi puerili balbettamenti è quello con le “merende” che andavano a fare gli imputati del processo per gli omicidi avvenuti a Firenze e dintorni a cavallo degli anni settanta e ottanta. E ciò, secondo noi, la dice lunga sul lato oscuro della guerra civile.