domenica 24 aprile 2011

Storie grandi, storie piccole

Archeologia della guerra mondiale
Anthony Majanlathi - Amedeo Osti Guerrazzi, Roma occupata 1943-44, Milano, Il Saggiatore, 2010




Chi si occupa di storia della seconda guerra mondiale, in genere, ha una strana deformazione professionale, ossia quella di non riuscire a fare il “turista per caso”, alla ricerca di quello che dice la guida del TCI, ma di cercare le tracce del conflitto che più ha segnato il nostro continente nel corso del ‘900, specie per quanto riguarda gli assetti urbani. E’ una esperienza spesso frustrante o inconcludente, in quanto le ricostruzioni post-belliche hanno finito per lasciare elementi residuali del “prima” e del “durante” la guerra, a causa dei bombardamenti aerei, della battaglia combattuta strada per strada, o semplicemente delle spesso dissennate ricostruzioni degli anni ’50.
Il bel volume di Majanlathi e Osti Guerrazzi, conduce per mano il lettore per le vie della Capitale, alla ricerca di quel passato perduto, di vestigia che restano indelebili nella memoria di chi subì l’occupazione nazista, ma che purtroppo oggi lasciano elementi che solo un osservatore attento è in grado di decifrare.
Così, da villa Torlonia a villa Ada, da villa Wolkonski a via Veneto, dalla piramide Cestia a piazza Colonna, con descrizioni e itinerari, gli Autori cercano di farci capire i luoghi dove si svolsero gli eventi del 1943, dalla caduta del fascismo, all’occupazione tedesca, alla nascita della repubblica sociale, alla guerriglia dei GAP. Alcuni luoghi sono facili da raggiungere per qualsiasi storico-turista, altri, come il quartiere del Quadraro dove ebbe luogo un massiccio rastrellamento nazista di civili che furono inviati nel Reich, o il ponte di Ferro (oggi ponte dell’Industria) dove avvenne una strage di donne (uccise solo perché chiedevano pane) devono fisicamente essere ricercati, in quanto ben al di fuori da qualsiasi itinerario culturale della Roma classica o rinascimentale.
Unico appunto, ad un volume che risulta di facile e interessante lettura, è sulla declinazione forse un po’ parziale di alcuni eventi; esistono vicende oggettivamente complesse non dovrebbero essere raccontate “a colpi d’accetta”. Un esempio su tutti: il sinistro forte Bravetta, dove vennero fucilati decine di partigiani fra il 1943 e il 1944, era anche il sito dove fra il 1940 e il 1943 furono eseguite sentenze capitali nei confronti di patrioti sloveni e croati e spie italiane che fornivano informazioni a inglesi e americani. Allo stesso modo, fra il 1944 e il 1945, ivi vennero passati per le armi alcuni noti esponenti fascisti come Pietro Caruso e Pietro Koch, e figure di secondo piano, come Armando Testorio e Franco Sabelli, informatori delle SS catturati nell’estate del 1944.
La memoria totalmente divisa di quel luogo, in cui ognuno può riconoscere vittime e carnefici di ogni fede e colore (le spie italiane al servizio dei britannici nel 1941 erano buone o cattive? I partigiani sloveni erano nostri nemici o no? Fino al 1943 sì e dopo no?) in realtà dimostra come all’interno di un quadro generale, spesso i dettagli finiscono per perdersi.
Si tratta comunque di osservazioni che non inficiano la validità di questa guida, che è strumento prezioso per cercare di interpretare una Roma che in gran parte non esiste più.



Persecuzioni a Ferrara e in Emilia
AA. VV.: Storie di esilio, di fuga e di deportazione (a cura di Delfina Tromboni), Ferrara, Tresogni, 2010

Il volume raccoglie gli atti del convengo svoltosi a Ferrara il 29 gennaio 2010 nel corso delle celebrazioni del Giorno della Memoria, e raccoglie relazioni di studiosi che hanno come canovaccio comune l’angoscia della fuga e il dolore delle perdite dei beni e degli affetti causati dalla persecuzione fascista e nazista nei confronti degli ebrei e degli oppositori al regime.
Segnaliamo per motivi di spazio solo alcune delle relazioni, peraltro tutte degne di interesse.
Antonella Guarnieri ripercorre in modo puntuale, tramite le biografie di alcune donne appartenenti alla comunità ebraica ferrarese, il tratto comune di tante vite che passarono nella tempesta razzista: una esistenza borghese e “integrata”, la discriminazione, la persecuzione, la morte scampata, e un dopoguerra spesso difficile e segnato da un passato incancellabile.
Delfina Tromboni ripercorre la vita sfortunata di Elodia e Lino Manservigi, fratelli perseguitati dal regime fascista in Italia in quanto militanti comunisti, fuggiti in Russia alla fine degli anni ’20, e finiti stritolati nel feroce meccanismo delle purghe staliniane, che costerà la vita a Lino e al figlio Elodia, Sergio.
Bizzarro il profilo che Sara Galli fa di Angelica Balabanoff, animatrice del socialismo italiano negli anni precedenti alla grande guerra, e successivamente fra le protagoniste della rivoluzione russa; scopriamo infatti che “…il consolidamento del regime di Mussolini le impedì di tornare in Italia …” (p. 78), ma del duce non c’è altra traccia nella relazione. Ciò appare curioso, in quanto la una lunga “liaison” con la Balabanoff all’epoca in cui entrambi erano ai vertici del partito socialista è cosa notissima non solo in ambito storiografico. Una forma di autocensura?
Roberta Mira e Claudio Silingardi, in due distinte comunicazioni, offrono un quadro articolato e dettagliato del campo di concentramento di Fossoli, e di come esso rivestì una determinante importanza sia per la raccolta e la deportazione degli oppositori al nazifascismo e degli ebrei catturati sul territorio della RSI, sia come punto dove provvedere (letteralmente) allo “stoccaggio” su vagoni piombati di migliaia di rastrellati, perlopiù civili incolpevoli, da destinare al lavoro coatto per la macchina bellica tedesca.
In conclusione vanno segnalate le riflessioni di uno dei discussant, l’esperto di ebraismo italiano Piero Stefani, sull’importanza della trasmissione della memoria e dei ricordi familiari. Tracce altrimenti destinate a disperdersi nel fracasso di un presente sempre più difficile da interpretare.

Verità scomode
Lodovico Galli, Dalla parte della Verità, Arco, Tipolitografia Grafica 5, 2011

Torniamo volentieri ad occuparci di un lavoro di Lodovico Galli, in quanto l’autore, anche se non storico di professione, ha la singolare capacità di investigare su alcune “zone grigie” lasciate talvolta scoperte dalla storiografia scientifica. Lo studioso bresciano prende questa volta in considerazione la vicenda dell’albergo Gnutti di Lumezzane, località che spesso compare in alcune ricostruzioni delle vicende di Salò, dove è descritta come il “confino dorato” per alcuni prigionieri dal cognome importante.
In questa amena cittadina bresciana furono ristretti fra gli altri (imprigionati, oggettivamente, ci pare termine eccessivo visti i riguardi degli ospiti: si vedano i dettagli relativi al “menù” offerto dall’Hotel…) i generali Trionfi e Gariboldi, Achille Starace e il figlio di Giacomo Matteotti, Giancarlo, arrestato dalla brigata nera di Milano e internato a Lumezzane su precisa indicazione di Mussolini. Da qui Matteotti fuggì nel marzo 1945, quasi certamente con la compiacenza – se non direttamente con la partecipazione, come sembrerebbe dalla documentazione resa disponibile da Galli – dell’ex capo di stato maggiore della MVSN Enzo Galbiati.
Altrettanto interessante è la seconda parte del volume, che, dopo aver descritto alcuni oscuri episodi di sangue avvenuti fra guerra e dopoguerra nei dintorni di Brescia, ci offre la narrazione (recuperata da fonti edite coeve) delle vicende relative alla partecipazione alla campagna di Russia della 15° legione camicie nere, che aveva sede nella città lombarda. E’ una inedita testimonianza di una partecipazione forse marginale, ma non per questo meno importante, alla guerra in territorio sovietico, e il racconto è animato dalle corrispondenze e dai commenti del più conosciuto esponente del reparto, ossia Filippo Tommaso Marinetti, all’epoca già ultrasessantenne.
Con il suo caratteristico stile, il fondatore del futurismo raccontava la “crociata antibolscevica”, fatta in nome di Mussolini (poco o mai il fascismo appare nelle sue narrazioni dal fronte), che finì per incrinare definitivamente la sua già malferma salute. Marinetti morirà infatti alla fine del 1944, dopo aver aderito alla RSI.
Siamo grati a Lodovico Galli per questa ennesima raccolta di interessanti “spigolature” nella grande storia; fatti forse piccoli, ma che risultano utili a comprendere il grande affresco degli ultimi venti mesi di guerra nel nostro paese.

Una lotta per la libertà
Massimo Longo Adorno, La guerra d’inverno, Milano, Franco Angeli, 2010

Giorgio Rochat sostiene che una delle prove più evidenti del fallimento dei regimi autoritari, è rappresentata dal fatto che nella seconda guerra mondiale, le dittature nazifasciste, che sul militarismo avevano fondato gran parte della propria propaganda e avevano speso cifre astronomiche per le proprie forze armate, erano uscite sonoramente sconfitte dal conflitto. In realtà una ulteriore prova della superiorità (anche) militare del sistema democratico viene dall’esperienza narrata con mano davvero felice da Longo Adorno.
La storia è nota, anche se, purtroppo, in tempi recenti oggetto poco frequente di studi accurati; la guerra russo-finnica del 1939-40 fu l’impari scontro nel quale una piccola repubblica democratica senza le risorse delle altre nazioni scandinave, difese la propria indipendenza contro l’Armata Rossa, un esercito che, per quanto farraginoso, burocratico, elefantiaco e decapitato dei suoi migliori comandanti a causa delle purghe staliniane, rappresentava comunque un complesso capace di schierare centinaia di migliaia di uomini con mezzi e risorse ingenti e riserve altrettanto corpose.
L’autore, nel tratteggiare i prodromi e lo scatenamento delle ostilità, mette correttamente in rilievo l’importanza che ebbe un altro fattore spesso oscurato nella storiografia, ossia il patto Molotov-Ribbentrop, che consentì all’Unione Sovietica, alleata alla Germania hitleriana, di avere sostanzialmente mano libera nel fare propria anche la Finlandia, dopo aver inglobato, in modo solo apparentemente incruento, le altre repubbliche baltiche.
La “guerra d’inverno” fu durissima, causò decine di migliaia di caduti da ambo le parti e si concluse con un sostanziale pareggio e un trattato di pace siglato nel 1940; in realtà, visto il dispiegamento delle forze agli ordini di Stalin, fu a tutti gli effetti una sconfitta per l’URSS, le cui cause (mezzi scadenti, soldati poco addestrati e male equipaggiati) anticipavano sinistramente le motivazioni dei rovesci militari russi successivi all’inizio fulmineo dell’operazione Barbarossa nell’estate 1941.
In conclusione, crediamo sia utile ricordare che nel primo inverno di guerra in Europa, la Finlandia, non diversamente dalla Gran Bretagna o la Francia, aveva lottato per tenere viva la fiamma della democrazia contro il totalitarismo brutale di un invasore senza riguardi, anche se le tracce storiografica di questa lotta sono assai poco evidenti, quantomeno in Italia. Siamo quindi felici che uno storico accurato e senza pregiudizi ideologici si sia avvicinato a questo tema.



Zero al titolo…
Franco Servello – Luciano Garibaldi, Perché uccisero Mussolini e Claretta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010

Già in altre occasioni ci siamo soffermati sul fatto che per attrarre i potenziali lettori in un settore non propriamente “facile” come quello storico, le case editrici (e talvolta gli stessi autori) si sottopongono a quello che noi riteniamo sia un rito umiliante, ossia una titolazione a effetto che non riflette praticamente nulla dei contenuti.
Questo volume scritto a quattro mani da Franco Servello, una delle colonne del MSI di Giorgio Almirante, e Luciano Garibaldi, studioso delle vicende del fascismo, è in realtà di qualche interesse storico, purché si ignori completamente il fuorviante titolo e la non felice copertina, che ritrae un Mussolini “anni ‘20” che nulla c’entra con l’argomento. La vicenda narrata concerne infatti la poco conosciuta (e travagliata) storia di un periodico milanese di orientamento post-fascista “il meridiano d’Italia”, diretto da un ex aderente alla RSI, il giornalista Franco de Agazio. Nel volume si ripercorrono gli editoriali e i principali articoli del direttore, il quale acquistò notorietà per una inchiesta, invero assai accurata, sui fatti di Dongo, pubblicata a cavallo della fine del 1945 e l’inizio del 1946.
Avvalendosi di fonti fasciste che, comprensibilmente, non avevano aperto bocca fino a quel momento (su tutte quella di un altro giornalista reduce di Salò, Gian Gino Pellegrini) de Agazio riuscì a fornire una versione dei fatti decisamente lontana da quella presentata in altri giornali “ciellenisti”, e in particolare da “L’Unità” che fino a quel momento aveva monopolizzato il tema. Successivamente vari studiosi scientifici e diversi testimoni confermarono alcune delle ricostruzioni presenti su “il meridiano d’Italia”, ma purtroppo poco di più si può dire di quell’intelligente lavoro giornalistico, in quanto Franco de Agazio fu assassinato davanti a casa sua a Milano, nel marzo 1947. Franco Servello, che di Agazio era nipote, prese le redini del giornale, il quale da quel momento perse la “verve” e il successo raggiunto dal suo primo direttore.
Il resto del volume è purtroppo una raccolta di cose piuttosto note (compreso un inutile rassegna di fotografie che occupa le pagine centrali dell’opera) e assai meno interessanti della prima parte. Nel complesso, se si fa ammenda del titolo, di alcuni scivoloni storici e di un terzo abbondante dello studio che riprende pedissequamente quanto da altri pubblicato (ad esempio la lunghissima citazione dal volume di Urbano Lazzaro Dongo mezzo secolo di menzogne), ci sono elementi interessanti che varrebbe la pena approfondire, su tutti la biografia di Franco de Agazio, giornalista scomodo, uno dei primi nell’Italia democratica a pagare con la vita per aver espresso nero su bianco le proprie – scomode – opinioni.