mercoledì 29 aprile 2015

STORIE DI OCCUPAZIONE, STORIE DI LIBERAZIONE

Il carteggio immaginario

Mimmo Franzinelli, L’arma segreta del duce, Milano, Rizzoli, 2015

Sulla corrispondenza segreta fra Churchill e Mussolini sono state costruite negli ultimi settanta anni una serie incredibile di leggende alimentate ad arte dalla stampa di estrema destra; in realtà, la storia delle “storie del carteggio”, come dimostra Mimmo Franzinelli, è di per sé soggetto meritevole di studio, in quanto paradigma del postfascismo e della necessità di rappresentare il maggiore errore politico di Mussolini (l’entrata nel secondo conflitto mondiale) non come effettivamente fu, ossia una scelta miope e sciagurata, ma un possibile scambio di favori con un leader avversario, ma non nemico, ossia Winston Churchill. Dividiamo quindi le due questioni, ossia l’effettivo scambio di lettere fra il duce e il premier inglese, e la fabbricazione ex post di documenti da parte di un gruppo di nostalgici a metà fra il mondo dei falsari professionisti e “la banda degli onesti” di Totò e Peppino. Il dato storico certo è che dopo la lettera di Churchill a Mussolini del maggio 1940, in cui il politico britannico scongiurava il duce a non avventurarsi su una strada senza ritorno, e la replica stizzita dell’inquilino di palazzo Venezia, non avvennero più contatti fra le parti nel corso della guerra. Negli archivi italiani e inglesi altro non c’è, e le chiacchiere sull’argomento, anche se insistenti e alimentate da testimoni dell’epoca, sopravvissuti alla burrasca post 25 aprile, sono infondate. Il beneficio del dubbio ovviamente lascia aperta ogni porta, specie considerando come la catalogazione delle carte che Mussolini aveva con sé al momento della cattura fu frettolosa e sommaria; nulla però fu ritrovato ne’ allora ne’ poi per confermare questa versione. Molto invece venne inventato di sana pianta da Enrico de Toma, ex (sedicente) ufficiale della GNR, Tommaso David, capo di una rete spionistica fascista formata da esuberanti lolite in camicia nera, e Ubaldo Camnasio, falsario professionista. Dotati di fervida fantasia, spregiudicatezza e senso degli affari, il terzetto, riuscì a produrre false lettere e documenti apocrifi, incassando consistenti anticipi da editori “di grido” degli anni ’50, e tentò pure la via ricattatoria nei confronti delle istituzioni democratiche, minacciando rivelazioni esplosive ai danni dei principali leader politici italiani. Il gioco fu ben condotto fino ad alcuni passi falsi di de Toma, che portarono in fasi successive al processo e alla condanna dei protagonisti. La vicenda giudiziaria  si esaurì all’inizio degli anni ’60, ma l’onda lunga della “leggenda del carteggio” è invece proseguita fino ai giorni nostri, in modo carsico e produzioni letterarie di diseguale valore, tutte però unite dall’inconsistenza documentale e dalla vacuità delle testimonianze; fa specie comunque che si sia dato credito per così lungo tempo ad una fumisteria pseudo storica, senza che nessuno, prima di Franzinelli, fosse andato a fare l’unica cosa sensata, ossia controllare le cronache giudiziarie del dopoguerra, dove si potevano rinvenire senza fatica tutti i protagonisti di questa vera e propria truffa. Ulteriore dimostrazione di come il nostro paese, in fondo, ami davvero poco conoscere la propria storia.

Crudeli concittadini

Simon Levis Sullam, I carnefici italiani, Milano, Feltrinelli, 2015

Alla fine, insomma, non eravamo così buoni come ci eravamo dipinti; anche se, a onor del vero, da Simon Wiesnthal a Raul Hilberg in tanti, anche fuori dal nostro paese, avevano detto che nell’attuazione del genocidio fummo marginali, e comunque eravamo meno peggio delle SS e dei loro volenterosi boia di mezza Europa. Levis Sullam ricorda invece in questo agile saggio come dal momento in cui venne insediato dai nazisti il governo fascista repubblicano, il coinvolgimento delle forze dell’ordine nel piano di deportazione e genocidio fu generalizzato e ramificato in tutti i gangli della pubblica amministrazione. In sostanza, a cercare (e trovare) nelle proprie abitazioni, in rifugi improvvisati, o nelle zone di confine con la Svizzera e a consegnarli alla macchina infernale dello sterminio, furono senz’altro le camicie nere, ma anche carabinieri, finanzieri, poliziotti e guardie municipali, spesso ben aiutati da zelanti segnalatori all’interno della burocrazia statale o semplici cittadini comuni, dai portieri di condominio ai vicini di casa desiderosi di impossessarsi di ricchezze vere o presunte. Tutto questo, per chi si occupa di storia in modo scientifico, è assai poco stupefacente: pur mancando un opera complessiva sulla collaborazione delle forze di polizia nel periodo 1943-45 (carenza oggettivamente grave a oltre 70 anni dai fatti in questione) erano da tempo reperibili in numerosi lavori accademici le tracce del comportamento poco commendevole di chi continuò a servire lo stato, indipendentemente se sul tricolore c’era lo scudo sabaudo o l’aquila littoria, e se una azione repressiva poteva riguardare indifferentemente dei borsaneristi o dei cittadini italiani colpevoli di professare la propria religione. L’analisi di questo tipo di meccanismo omicida, lo stesso che in Francia portò la polizia di Parigi ad anticipare gli ordini dei nazisti e a effettuare la retata del velodromo d’inverno, ha conosciuto scarsa fortuna negli studi nel nostro paese, se non per qualche ricerca di storia locale o di compendi di maggiore respiro, ma non analitici. Secondo l’autore, questa carenza è la rappresentazione di un paese che si è autoassolto dalle proprie responsabilità nella Shoah; secondo chi scrive, invece è una ulteriore prova della scarsa attitudine degli studiosi italiani a trattare le vicende delle di polizia in chiave storico-militare, preferendo indagini di taglio politico o sociale. Insomma, a nostro parere è difficile distinguere fra “il dolo” e “la colpa” in questa carenza di bibliografia (spazio poi riempito da agiografie scarsamente attendibili), ma resta il risultato finale: delle questure repubblichine e del loro personale, salvo eccezioni pregevoli, si sa davvero poco. Sull’aver creato poi delle oleografie di alcuni funzionari i quali – almeno nelle intenzioni – provarono a mettersi di traverso rispetto alla “banalità  del male”, siamo infine meno tranchant di Levis Sullam. Forse non saranno stati dei santi  (e nemmeno dei santini) ma quantomeno non attentarono alle vite e agli averi dei loro concittadini marchiati con la stella di Davide.

Morire per sfortuna

Luca Fazzo, L’ultimo fucilato, Milano, Mursia, 2015


Di Giovanni Folchi, ufficiale dell’aviazione di Salò, si può dire di tutto, tranne che fosse un uomo fortunato: fu fucilato quando ormai la maggior parte dei militari della RSI passati attraverso le corti d’assise straordinarie (CAS) alla volta del 1946, poteva dirsi scampata alla pena capitale, indipendentemente dalla gravità dei propri addebiti. Come è dimostrato da numerosi studi scientifici, finita la bufera successiva alla liberazione e terminati i solerti procedimenti dei tribunali insurrezionali, la giustizia amministrata in nome del luogotenente Umberto II, sia pure nelle forme spicce delle CAS, aveva ripreso modi e procedure tutto sommato accettabili per una nazione che veniva da una guerra civile sanguinosa e da vent’anni di dittatura fascista: coloro che furono passati per le armi prima dell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti e della successiva abolizione della pena di morte, avvenuta nel 1948, furono infatti meno di cento. Folchi fu l’ultimo fucilato a Milano e dopo di lui finirono davanti al plotone d’esecuzione alcuni fascisti spezzini nel 1947; gli altri la fecero franca, e quasi tutti a meno di dieci anni dalla fine della guerra erano in libertà. La vicenda giudiziaria di Folchi è comunque paradigmatica di come, per una serie di coincidenze non favorevoli, si potesse terminare la propria esistenza in modo cruento e in tempo di pace con colpe senz’altro inferiori a quelle di alcuni caporioni con atrocità di ogni genere sulla propria coscienza. Il meccanismo può apparire perverso con l’occhio di oggi, ma in realtà fu assai meno peregrino di quanto si possa intuire con l’occhio di oggi: la cattura (a dire il vero Folchi si consegnò spontaneamente al CLN), accuse fumose poi confermate da alcuni testimoni con memoria buona e diversi conti da regolare, la presenza in episodi cruenti che avevano particolarmente colpito l’opinione pubblica milanese, e – ahimè – un avvocato incapace o svogliato, o entrambe le cose. Resta il fatto che il protagonista del volume di Luca Fazzo, di certo non uno stinco di santo, poteva serenamente sfangarla, come tanti altri. Inoltre, nel ripercorrere la storia di Giovanni Folchi, l’autore fa luce su uno dei meno conosciuti reparti della RSI, ossia il cosiddetto battaglione “Azzurro” (da non confondersi con un omonimo reparto del reggimento “Folgore”), in realtà “ IX battaglione AP” (antiparacadutisti) formato da personale in esubero dei reparti di volo e di terra della evanescente aviazione di Salò. Nella macchina repressiva organizzata dai tedeschi a Milano, la formazione ebbe il suo ruolo, forse meno appariscente di altre unità, come la legione autonoma “Ettore Muti” o la brigata nera “Aldo Resega”, ma comunque utile al mantenimento dell’ordine pubblico nella metropoli meneghina. L’ufficiale ebbe le sue colpe, insomma, ma non più e non meno di tanti altri che nel giro di qualche mese si trovavano già in libertà, magari rientrati alle proprie occupazioni abituali. Lo studio di Fazzo è una ulteriore prova di come la giustizia postbellica fu incomprensibile e farraginosa, e anche per questo motivo – in conclusione – spesso ingiusta. Tare, purtroppo, destinate a riprodursi sostanzialmente uguali nei decenni a venire.