Il
carteggio immaginario
Mimmo
Franzinelli, L’arma segreta del duce, Milano,
Rizzoli, 2015
Sulla
corrispondenza segreta fra Churchill e Mussolini sono state costruite negli
ultimi settanta anni una serie incredibile di leggende alimentate ad arte dalla
stampa di estrema destra; in realtà, la storia delle “storie del carteggio”,
come dimostra Mimmo Franzinelli, è di per sé soggetto meritevole di studio, in
quanto paradigma del postfascismo e della necessità di rappresentare il maggiore
errore politico di Mussolini (l’entrata nel secondo conflitto mondiale) non
come effettivamente fu, ossia una scelta miope e sciagurata, ma un possibile
scambio di favori con un leader avversario, ma non nemico, ossia Winston
Churchill. Dividiamo quindi le due questioni, ossia l’effettivo scambio di
lettere fra il duce e il premier inglese, e la fabbricazione ex post di
documenti da parte di un gruppo di nostalgici a metà fra il mondo dei falsari
professionisti e “la banda degli onesti” di Totò e Peppino. Il dato storico
certo è che dopo la lettera di Churchill a Mussolini del maggio 1940, in cui il
politico britannico scongiurava il duce a non avventurarsi su una strada senza
ritorno, e la replica stizzita dell’inquilino di palazzo Venezia, non avvennero
più contatti fra le parti nel corso della guerra. Negli archivi italiani e inglesi
altro non c’è, e le chiacchiere sull’argomento, anche se insistenti e alimentate
da testimoni dell’epoca, sopravvissuti alla burrasca post 25 aprile, sono
infondate. Il beneficio del dubbio ovviamente lascia aperta ogni porta, specie
considerando come la catalogazione delle carte che Mussolini aveva con sé al
momento della cattura fu frettolosa e sommaria; nulla però fu ritrovato ne’
allora ne’ poi per confermare questa versione. Molto invece venne inventato di
sana pianta da Enrico de Toma, ex (sedicente) ufficiale della GNR, Tommaso
David, capo di una rete spionistica fascista formata da esuberanti lolite in
camicia nera, e Ubaldo Camnasio, falsario professionista. Dotati di fervida
fantasia, spregiudicatezza e senso degli affari, il terzetto, riuscì a produrre
false lettere e documenti apocrifi, incassando consistenti anticipi da editori
“di grido” degli anni ’50, e tentò pure la via ricattatoria nei confronti delle
istituzioni democratiche, minacciando rivelazioni esplosive ai danni dei
principali leader politici italiani. Il gioco fu ben condotto fino ad alcuni
passi falsi di de Toma, che portarono in fasi successive al processo e alla
condanna dei protagonisti. La vicenda giudiziaria si esaurì all’inizio degli anni ’60, ma l’onda
lunga della “leggenda del carteggio” è invece proseguita fino ai giorni nostri,
in modo carsico e produzioni letterarie di diseguale valore, tutte però unite
dall’inconsistenza documentale e dalla vacuità delle testimonianze; fa specie
comunque che si sia dato credito per così lungo tempo ad una fumisteria pseudo
storica, senza che nessuno, prima di Franzinelli, fosse andato a fare l’unica
cosa sensata, ossia controllare le cronache giudiziarie del dopoguerra, dove si
potevano rinvenire senza fatica tutti i protagonisti di questa vera e propria
truffa. Ulteriore dimostrazione di come il nostro paese, in fondo, ami davvero
poco conoscere la propria storia.
Crudeli
concittadini
Simon
Levis Sullam, I carnefici italiani, Milano,
Feltrinelli, 2015
Alla
fine, insomma, non eravamo così buoni come ci eravamo dipinti; anche se, a onor
del vero, da Simon Wiesnthal a Raul Hilberg in tanti, anche fuori dal nostro
paese, avevano detto che nell’attuazione del genocidio fummo marginali, e
comunque eravamo meno peggio delle SS e dei loro volenterosi boia di mezza
Europa. Levis Sullam ricorda invece in questo agile saggio come dal momento in
cui venne insediato dai nazisti il governo fascista repubblicano, il
coinvolgimento delle forze dell’ordine nel piano di deportazione e genocidio fu
generalizzato e ramificato in tutti i gangli della pubblica amministrazione. In
sostanza, a cercare (e trovare) nelle proprie abitazioni, in rifugi
improvvisati, o nelle zone di confine con la Svizzera e a consegnarli alla
macchina infernale dello sterminio, furono senz’altro le camicie nere, ma anche
carabinieri, finanzieri, poliziotti e guardie municipali, spesso ben aiutati da
zelanti segnalatori all’interno della burocrazia statale o semplici cittadini
comuni, dai portieri di condominio ai vicini di casa desiderosi di
impossessarsi di ricchezze vere o presunte. Tutto questo, per chi si occupa di
storia in modo scientifico, è assai poco stupefacente: pur mancando un opera
complessiva sulla collaborazione delle forze di polizia nel periodo 1943-45
(carenza oggettivamente grave a oltre 70 anni dai fatti in questione) erano da
tempo reperibili in numerosi lavori accademici le tracce del comportamento poco
commendevole di chi continuò a servire lo stato, indipendentemente se sul
tricolore c’era lo scudo sabaudo o l’aquila littoria, e se una azione
repressiva poteva riguardare indifferentemente dei borsaneristi o dei cittadini
italiani colpevoli di professare la propria religione. L’analisi di questo tipo
di meccanismo omicida, lo stesso che in Francia portò la polizia di Parigi ad
anticipare gli ordini dei nazisti e a effettuare la retata del velodromo
d’inverno, ha conosciuto scarsa fortuna negli studi nel nostro paese, se non
per qualche ricerca di storia locale o di compendi di maggiore respiro, ma non
analitici. Secondo l’autore, questa carenza è la rappresentazione di un paese
che si è autoassolto dalle proprie responsabilità nella Shoah; secondo chi
scrive, invece è una ulteriore prova della scarsa attitudine degli studiosi
italiani a trattare le vicende delle di polizia in chiave storico-militare,
preferendo indagini di taglio politico o sociale. Insomma, a nostro parere è
difficile distinguere fra “il dolo” e “la colpa” in questa carenza di
bibliografia (spazio poi riempito da agiografie scarsamente attendibili), ma
resta il risultato finale: delle questure repubblichine e del loro personale, salvo
eccezioni pregevoli, si sa davvero poco. Sull’aver creato poi delle oleografie
di alcuni funzionari i quali – almeno nelle intenzioni – provarono a mettersi
di traverso rispetto alla “banalità del
male”, siamo infine meno tranchant di Levis Sullam. Forse non saranno stati dei
santi (e nemmeno dei santini) ma
quantomeno non attentarono alle vite e agli averi dei loro concittadini
marchiati con la stella di Davide.
Morire
per sfortuna
Luca
Fazzo, L’ultimo fucilato, Milano, Mursia,
2015
Di
Giovanni Folchi, ufficiale dell’aviazione di Salò, si può dire di tutto, tranne
che fosse un uomo fortunato: fu fucilato quando ormai la maggior parte dei
militari della RSI passati attraverso le corti d’assise straordinarie (CAS)
alla volta del 1946, poteva dirsi scampata alla pena capitale,
indipendentemente dalla gravità dei propri addebiti. Come è dimostrato da
numerosi studi scientifici, finita la bufera successiva alla liberazione e
terminati i solerti procedimenti dei tribunali insurrezionali, la giustizia
amministrata in nome del luogotenente Umberto II, sia pure nelle forme spicce
delle CAS, aveva ripreso modi e procedure tutto sommato accettabili per una
nazione che veniva da una guerra civile sanguinosa e da vent’anni di dittatura
fascista: coloro che furono passati per le armi prima dell’amnistia firmata da
Palmiro Togliatti e della successiva abolizione della pena di morte, avvenuta
nel 1948, furono infatti meno di cento. Folchi fu l’ultimo fucilato a Milano e dopo
di lui finirono davanti al plotone d’esecuzione alcuni fascisti spezzini nel
1947; gli altri la fecero franca, e quasi tutti a meno di dieci anni dalla fine
della guerra erano in libertà. La vicenda giudiziaria di Folchi è comunque
paradigmatica di come, per una serie di coincidenze non favorevoli, si potesse
terminare la propria esistenza in modo cruento e in tempo di pace con colpe
senz’altro inferiori a quelle di alcuni caporioni con atrocità di ogni genere
sulla propria coscienza. Il meccanismo può apparire perverso con l’occhio di
oggi, ma in realtà fu assai meno peregrino di quanto si possa intuire con l’occhio
di oggi: la cattura (a dire il vero Folchi si consegnò spontaneamente al CLN),
accuse fumose poi confermate da alcuni testimoni con memoria buona e diversi
conti da regolare, la presenza in episodi cruenti che avevano particolarmente
colpito l’opinione pubblica milanese, e – ahimè – un avvocato incapace o
svogliato, o entrambe le cose. Resta il fatto che il protagonista del volume di
Luca Fazzo, di certo non uno stinco di santo, poteva serenamente sfangarla,
come tanti altri. Inoltre, nel ripercorrere la storia di Giovanni Folchi,
l’autore fa luce su uno dei meno conosciuti reparti della RSI, ossia il
cosiddetto battaglione “Azzurro” (da non confondersi con un omonimo reparto del
reggimento “Folgore”), in realtà “ IX battaglione AP” (antiparacadutisti)
formato da personale in esubero dei reparti di volo e di terra della
evanescente aviazione di Salò. Nella macchina repressiva organizzata dai
tedeschi a Milano, la formazione ebbe il suo ruolo, forse meno appariscente di
altre unità, come la legione autonoma “Ettore Muti” o la brigata nera “Aldo
Resega”, ma comunque utile al mantenimento dell’ordine pubblico nella metropoli
meneghina. L’ufficiale ebbe le sue colpe, insomma, ma non più e non meno di
tanti altri che nel giro di qualche mese si trovavano già in libertà, magari
rientrati alle proprie occupazioni abituali. Lo studio di Fazzo è una ulteriore
prova di come la giustizia postbellica fu incomprensibile e farraginosa, e
anche per questo motivo – in conclusione – spesso ingiusta. Tare, purtroppo,
destinate a riprodursi sostanzialmente uguali nei decenni a venire.