sabato 23 aprile 2016

Abbandono, militanza, violenza


Camerati vi saluto
Mimmo Frnazinelli , Disertori, Milano, Mondadori, 2016

Fossimo stati reduci del secondo conflitto mondiale, probabilmente la lettura delle vicende di chi lasciò nelle peste i propri commilitoni per imboscarsi con la fidanzata ucraina oppure per passare dalla parte dei nemici (perché quelli erano), come i partigiani albanesi o sloveni, ci avrebbero lasciato motivi di profonda irritazione, anche vista l’indulgenza che Mimmo Franzinelli ha nei confronti di chi fece questo tipo di scelta. A margine di questa personale riflessione, riteniamo che il limite dello studio sia la continua alternanza fra l’aneddotica e l’analisi di vicende di spessore maggiore, per cui senza soluzione di continuità si passa da episodi che ebbero scarso o nullo seguito, come gli abbandoni dai reparti impiegati nell’infernale scenario della steppa sovietica (semmai talmente scarse da fare risaltare il senso del dovere di decine di migliaia di italiani) a questioni di rilievo ben diverso, come l’incapacità del regio esercito post armistiziale di riuscire a far rimanere nei ranghi coloro che rientravano nelle classi di leva, o erano rimasti in grigioverde dopo l’8 settembre, in singolare parallelismo con quanto accadeva a Rodolfo Graziani nel settentrione d’Italia. Anche il voler mettere assieme periodi storici oggettivamente differenti per trovare un filo conduttore unico, ossia la fuga dalle forze armate, non giova alla lettura, che spesso si inceppa, o risulta difficoltosa: unire le scelte di coerenza ideologica di chi, prima della caduta di Mussolini, decise in territori occupati dal nostro esercito di passare alle formazioni partigiane assieme alle storie dei pochi (davvero una pattuglia sparuta) che si prestarono allo spionaggio per potenze nemiche, non aiuta a comprendere il fenomeno analizzato. Il fatto poi che le misure draconiane adottate nella RSI per stroncare il fenomeno della renitenza alla leva fossero state paventate anche da diversi alti ufficiali dell’esercito fedele a Badoglio, più che mostrare come l’ideologia fascista avesse plasmato le forze armate nel corso del ventennio, ci fa osservare quanto la crudeltà e il terrore fossero il pedigree del nostro esercito fin dalle decimazioni di cadorniana memoria. In conclusione nell’opera di Franzinelli non mancano spunti di riflessione o narrazioni di episodi sino ad oggi scarsamente conosciuti; questi però risultano immersi in un mare di storie individuali che non permettono al lettore, studioso o semplice appassionato, di trarre una conclusione unica se non quella che la guerra è brutta e non andrebbe mai fatta. Un po’ poco a dire il vero.

L’altra Tagliamento
Stefano Fabei ,la legione Tagliamento in Russia, Edibus, Vicenza, 2015

Difficile capire la terribile Tagliamento di Salò senza studiare la vicenda di questo reparto (uno dei pochi a passare armi e bagagli ai tedeschi dopo l’armistizio) nel periodo 1941-43, ossia nel corso della campagna di Russia, affrontata prima nel CSIR e successivamente nell’ARMIR. Alcuni ricercatori, su tutti Sonia Residori (unica ad aver redatto una monografia sul reparto nel corso dei seicento giorni della RSI), hanno sostenuto che i legami fra le due Tagliamento sono assai esili, se non praticamente nulli. In realtà leggendo il documentato e corposo lavoro di Stefano Fabei, non mancano motivi di riflessione su questo tema. La sanguinosa epopea delle camicie nere in terra sovietica, infatti, fu uno dei miti su cui si basarono le scelte avvenute al momento dell’armistizio. La legione comandata da Niccolò Nicchiarelli (elemento che ebbe un ruolo determinante nella ricostituzione della milizia, poi GNR, sotto le insegne dell’aquila e del fascio) ebbe infatti tragiche perdite in uomini e mezzi nel corso dei due anni trascorsi sul fronte del Don, in alcuni casi paragonabili o addirittura superiori a quelle degli altri reparti del regio esercito. Il fatto in sé, oltre che testimoniare l’indubbio valore del reparto, era la prova palese della assoluta inadeguatezza in termini di addestramento ed equipaggiamento di quella che avrebbe dovuto essere la punta di diamante delle forze armate mussoliniane. Assieme al mito del sangue, si univa poi quello della “patria irriconoscente”, altro tema che avrà un forte peso nelle dinamiche di crudele straniamento della Tagliamento dal tessuto civile del nord Italia, e che aveva premesse corpose e ben alimentate dal comportamento dei vertici della formazione, i quali per mesi lamentarono disattenzione e scarsa considerazione da parte della macchina propagandistica del regime e dei vertici delle forze armate. Il combustibile per una scelta vendicativa e oltranzista, insomma, era pronto per incendiarsi ben prima dell’armistizio; senza considerare le scelte dissennate successive al 25 luglio, quando non venne presa l’unica decisione sensata nei confronti della milizia, ossia il suo immediato disarmo, preferendo l’incorporazione nell’esercito regio, forza militare che aveva considerato le camicie nere un corpo estraneo fin dalla fondazione della MVSN. A parer nostro le vicende conclusive della formazione, ossia la prosecuzione della guerra ideologica iniziata nel giugno del 1940, appaiono diretta conseguenza dei sentimenti di questi fascisti “senza se e senza ma” illustrato nello studio di Fabei, davvero uno dei migliori sull’argomento.

Il sangue sulle montagne
Sonia Residori, L’ultima valle, Istrevi, Vicenza, 2015

La strage di Pedescala, comune montano al confine con il Trentino, fu una delle ultime commesse dalla Wehrmacht nel nostro paese, quando ormai la resa senza condizioni era stata firmata a Caserta dagli emissari di Karl Wolff e Heinrich von Vietinghoff; a cavallo della fine dell’aprile 1945, morirono in questa località e nei suoi dintorni oltre sessanta civili inermi, per cause che l’autrice cerca (finalmente) di studiare in modo scientifico, dopo decenni di ricostruzioni sommarie, distorte, se non semplicemente sbagliate. Prima di addentrarsi nella cronistoria del massacro, Sonia Residori analizza la complessa trama della resistenza in questa parte della provincia di Vicenza, così come la presenza nazista e fascista, altrettanto ramificata ed estesa; due storie solo in apparenza senza sovrapposizioni, in realtà caratterizzate da una serie di “vasi comunicanti” fatti di figure equivoche e doppiogiochisti, traditori dell’uno e dell’altro campo. Un canovaccio complicato che si andò ulteriormente ad aggrovigliare nell’ultima settimana di guerra, quando uno dei rivoli della ritirata generale verso il Brennero risalì la Val d’Astico, trovando le formazioni partigiane del luogo decise a fermare le truppe tedesche ai piedi dell’altopiano di Asiago; la studiosa vicentina evita di soffermarsi sull’elemento scatenante del macello, ossia l’inutile ricerca di chi sparò per primo e chi rispose al fuoco: la questione effettivamente ci pare oziosa visto il contesto generale. E’ invece utile l’indagine certosina sui reparti nazisti presenti a Pedescala e nei suoi immediati dintorni, effettuata anche con l’aiuto di materiale fotografico inedito, dal quale si evince una sicura presenza di elementi paracadutisti e dell’antiaerea germanica fra chi mise letteralmente a ferro e fuoco il paese. Sonia Residori prosegue poi il suo racconto doloroso con il dopo, spesso oscurato in altre narrazioni, ossia le esecuzioni sommarie avvenute ai primi di maggio del 1945 di fascisti e tedeschi che erano stati fatti prigionieri nei giorni precedenti, e che quasi certamente nulla avevano a che spartire con l’eccidio; anche questo pezzo di storia non viene taciuto, così come l’ignavia nazionale delle archiviazioni provvisorie di palazzo Cesi, che non permisero l’individuazione dei colpevoli. Ci troviamo quindi di fronte ad un lavoro complesso e articolato, e assieme preciso e puntiglioso, indispensabile per chiunque voglia approfondire la storia della fine della guerra in Italia, di cui Pedescala rappresenta un sanguinoso e fino a oggi semisconosciuto frammento.