giovedì 29 aprile 2010

Venticinque aprile e dintorni

Dal sangue dei vinti all’ira dei vincitori
Angelo del Boca (a cura di), La storia negata, Vicenza, Neri Pozza, 2009

Il lavoro collettaneo coordinato da Angelo del Boca è un volume degno di nota e denso di spunti di riflessione; autori con competenze vaste e riconosciute si sono cimentati, ognuno nei propri ambiti di studio, a commentare i lavori che hanno analizzato criticamente (o hanno “revisionato” come vedremo fra poco) alcune tra le principali pagine della storia contemporanea del nostro paese: il Risorgimento, le imprese coloniali, il ventennio mussoliniano, la guerra mondiale, la Resistenza, le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei, i rapporti tra Chiesa (ça va sans dire…) e Stato, il patto costituente e il ruolo del PCI nel secondo dopoguerra. Abbiamo ritenuto che a uno studio di questo genere dovesse essere lasciato uno spazio maggiore della consueta recensione, e quindi ORIENTAMENTI STORICI si occuperà integralmente dei saggi in esso contenuti.

La prima considerazione, a monte rispetto a tutte le altre, riguarda l’atteggiamento di chi scrive queste note rispetto alla storiografia contemporanea. Per quanto ci riguarda – e non sappiamo onestamente se altri studiosi sono arrivati alle stesse nostre modeste considerazioni – esistono due tipi di fatti e due tipi di storia; i fatti si dividono fra quelli che sono avvenuti e quelli che non sono avvenuti, mentre le due tipologie di storia sono queste: quella cattiva e quella buona, indipendentemente da ideologie, filosofie, scuole di pensiero o politiche. Una buona ricostruzione storica è quella che in modo documentato affronta un argomento, indipendentemente dalle conclusioni a cui arrivi. Una cattiva ricostruzione storica è quella che presentando lavori scarsamente documentati, monchi o reticenti, pretende di raccontare le cose in modo diverso da come sono avvenute, o peggio, di negare che alcune cose sono accadute, o ancora, di sostenere che sono accadute cose in realtà mai avvenute.
Se dovessimo rifarci ad un concetto espresso da altri, ci è sempre piaciuto quanto sosteneva Renzo de Felice a metà degli anni ’70, con una frase che oggi ci pare uscita dalle massime di monsieur de La Palisse, ma che alla luce delle fumose ideologie che hanno condizionato una parte della storiografia del nostro paese, non appare tanto scontata, ossia: “prima di interpretare un fatto, sarebbe bene ricostruirlo, e non il contrario”.
Arriviamo quindi all’oggi e al tema del revisionismo, che è centrale nel volume che analizziamo, e su cui Angelo del Boca riversa la sua dolorosa intemerata, sostenendo che esso è un fenomeno “… che ha raggiunto i suoi vertici e speriamo la sua fase finale nel primo decennio del nuovo millennio…” (p. 9). Se cercassimo una spiegazione razionale da parte del Curatore di cosa ci sia di deleterio nel “revisionismo” potremmo restare delusi, almeno per quel che ci riguarda, in quanto il egli parla di “subdola offensiva tesa alla cancellazione della memoria storica”, il che purtroppo vuol dire tutto e nulla. I riferimenti a fatti concreti sono discontinui e non sempre coerenti: Del Boca se la rifà - con qualche ragione - alle memorie dei generali italiani che condussero il secondo conflitto mondiale (Roatta, Badoglio ed altri) ai volumi di storia coloniale pubblicati sotto egida governativa negli anni ’50 (anch’essi non commendevoli) e alle opere di Renzo de Felice, di cui pare invidi la veste grafica e critichi il periodare. Fin qui ci sarebbe da chiedersi, visto che siamo lontani diversi lustri dall’attualità, dove sia l’urgenza civile del volume. Di seguito rinveniamo un “j’accuse” nei confronti della politica culturale di centro destra in generale e di alcuni exploit di singoli esponenti dell’attuale maggioranza, che onestamente non ci paiono in grado di dare turbativa o condizionamento alla ricerca storica del nostro paese. Ma questa è solo la nostra opinione.
Dopo una ventina di pagine di rampogne si giunge al presente, e crediamo, allo snodo centrale del libro, ossia le opere recenti che Giampaolo Pansa ha dedicato agli episodi di sangue avvenuti alla fine della guerra nel nord Italia; su Pansa ci limitiamo a far presente che ci è parsa sgradevole l’attenzione di Del Boca ai rapporti personali tra i due e crediamo che una amicizia guastata non giustifichi la stesura di un libro.
Purtroppo, anche in questa parte, manca un riferimento ad un episodio, ad un fatto, ad una ricostruzione storica inventata o fallace. Unica (giusta) considerazione critica su una questione precisa, è quella sul computo dei caduti fascisti a guerra finita, che, sino a prova contraria, sono i circa 10.000 dell’indagine che curò negli anni ’50 la direzione centrale della Pubblica Sicurezza. Poi Del Boca ritorna a tuonare sino a p. 40, ossia al termine della sua introduzione, contro il rovescismo, ossia “il sistematico rovesciamento di giudizio sul 1943-45” operato da Giampaolo Pansa ed altri studiosi.
A questo punto ci chiediamo, davvero in modo non provocatorio: e se anche fosse? Cioè: se il giornalista piemontese oggetto degli strali di Del Boca avesse ribaltato l’interpretazione corrente (il “senso comune della storia”, criptica espressione che si rinviene anche nei saggi di Mimmo Franzinelli e Aldo Agosti), come dovrebbe reagire la comunità degli storici? Torniamo all’inizio: i fatti di cui parla Pansa, sono accaduti o no? Se non fossero accaduti, bene si farebbe a dare di righello sulle dita dell’ex editorialista de L’Espresso, ma così non è. Ed infatti, paradossalmente, non uno degli studiosi sbugiarda l’autore de “Il sangue dei vinti”. Non un solo episodio fra quelli narrati da Pansa viene presentato come fasullo, inventato, falsificato, inesistente o anche soltanto esagerato. Si sostiene che ci si trova di fronte ad opere senza citazione delle fonti (e così non è: su questo rimandiamo all’attenta analisi di Paolo Martinucci in Cultura e Identità n. 1-2009), come se non ci fossero testi resistenziali pubblicati a decine, a centinaia senza uno straccio di nota in calce e nonostante ciò ritenuti per decenni non modificabili, ignorando errori marchiani nelle ricostruzioni storiche che si sono riprodotti per lustri. Sono questi i “testi sacri” di cui occorre tutelare la memoria? E’ questo il “senso comune della storia”? Queste domande non ci appaiono esercizio retorico e pensiamo invece che debbano essere al centro del dibattito sugli spinosi aspetti della guerra di Liberazione.
Tornando al volume, in realtà ci si trova di fronte a saggi di diseguale contenuto e valore, alcuni dei quali contrastano in modo piuttosto stridente con gli obiettivi elencati dal curatore.

Mario Isnenghi svolge una puntuta e interessante analisi di studi e romanzi che nel corso del ‘900 hanno “revisionato” i valori fondanti della nazione, anzi “i miti fondativi della Nazione” come lo storico veneziano tiene a distinguere, aggiungendo che da sempre opere divulgative o di modesto valore storico, quando prendono le parti degli sconfitti (esemplare il caso de “L’alfiere” di Carlo Alianello) suscitano l’empatia del lettore, anche se questi magari non è un amante del cardinal Ruffo o di Franceschiello. In questo Isnenghi centra il bersaglio non solo per l’800 ma anche per la stagione del fascismo e della Resistenza.
Nicola Labanca nell’affrontare le alterne vicende della storiografia coloniale non può non constatare come esistano studi di valore assai diseguale, e che appare duro a morire il mito degli “italiani brava gente. Di seguito però anch’egli ammette che le voci critiche a questo mito non sono mai mancate (gli stessi volumi di Angelo del Boca hanno avuto ampissima diffusione) e che alcuni ricercatori anti-colonialisti in realtà, hanno svolto indagini di livello men che mediocre esattamente come gli esaltatori postumi dell’Africa italiana, a dimostrazione ulteriore che la discriminante è fra buona e cattiva storiografia, e non “revisione si o no”.
Di Nicola Tranfaglia ricordiamo pagine migliori; la sua analisi della presa del potere del fascismo è un onesto saggio di storiografia marxista, nel quale scoprire (a p. 119) che don Luigi Sturzo “fu inviato in esilio dal Vaticano” (fu espulso da piazza San Pietro, ossia dai confini territoriali di quello stato?) lascia qualche perplessità.
Giorgio Rochat con la franchezza che lo contraddistingue, evita di entrare nella diatriba sui pregi e le nequizie del revisionismo, e bastona in modo equanime (con nostro sommo gaudio) tutti quegli studiosi che hanno marginalizzato la storia militare del ventennio e delle sue guerre, che furono invece la cartina di tornasole del fallimento politico del fascismo; in questo non si salva nessuno, ne’ a destra ne’ a sinistra. E non possiamo dargli torto.
A occuparsi delle pagine anticlericali, che evidentemente sono un dazio dovuto in ogni opera di studio contemporaneo, è Lucia Ceci. Le affermazioni di questa ricercatrice, in verità, non sono particolarmente critiche; anzi, nell’analizzare alcune delle più recenti opere che intendono confutare “la leggenda nera” della Chiesa in Italia, la Ceci ammette le superficialità di una certa storiografia anticattolica. Anche qui emerge – anche se a fatica – la vera distinzione, che resta quella tra studi storici attendibili e quelli non verificabili. Possiamo dissentire, per ovvi motivi, dal suo giudizio su San Josemaria Escrivà, ma quantomeno sul fondatore dell’Opus Dei si evitano i terribili sfondoni alla Dan Brown.
Mimmo Franzinelli si mostra scandalizzato per il culto postumo del duce, facendone risalire le origini alle opere giornalistiche e divulgative di Paolo Monelli, Indro Montanelli ed altri, trovando un improbabile nesso causale fra questi volumi e i pellegrinaggi predappiani che da oltre cinquant’anni fanno parte del folklore romagnolo. In ogni caso Angelo Maria Tam, citato da Franzinelli come celebrante dei vari riti commemorativi in camicia nera, non è un sacerdote cattolico, ma un appartenente al movimento scismatico dei lefevriani. Anzi, a quanto ci risulta le sue apparizioni sono precedute e seguite da ammonizioni chiare dei sacerdoti diocesani sui rapporti (inesistenti) fra questo personaggio e la Chiesa cattolica. Comunque perdoniamo a Franzinelli la poca dimestichezza su questi aspetti forse troppo “curiale”.
Il saggio di Enzo Collotti ci ha invece suscitato grande tristezza, in quanto questo autore ha scritto in passato pagine davvero fondamentali sull’occupazione tedesca nel nostro paese. Occupandosi della storiografia sulla Shoah, Collotti si mette in un ottica inutilmente polemica, con un paio di svarioni sconcertanti. Davvero non si capisce l’utilità di polemizzare con Raul Hilberg ed altri studiosi internazionali di alto e altissimo livello che, al contrario di Collotti, hanno sostenuto come l’esercito regio, per iniziativa di singoli e di capi, cercò di evitare lo sterminio degli ebrei jugoslavi o di quelli profughi nella nostra zona di occupazione in Francia. Lo storico maneggia poi malamente la vicenda di Giovanni Palatucci, la quale può essere forse ridimensionata, ma non ridotta a caricatura, con una incredibile imprecisione: “Laurus Robuffo” che secondo Collotti è lo pseudonimo dell’autore della biografia su Palatucci curata dalla Polizia di Stato (p. 249) è invece il nome della casa editrice (!). Basarsi anche su questo per dimostrare la scarsa qualità del volume è imbarazzante.
Le pagine redatte da Aldo Agosti hanno il profumo delle Botteghe Oscure del tempo che fu, con una visione e una descrizione del PCI togliattiano che pare uscire dalla penna di Luigi Longo; in esse si ignorano le acquisizioni storiografiche degli ultimi vent’anni, anzi: esse vengono, anche in questo caso, ridotte a caricatura, a inutile fastidio, se non addirittura come – seguendo l’antica logica complottistica – un disegno ordito ai danni del "grande partito dei lavoratori italiani". In quest’ottica c’è da chiedersi quale dovrebbe essere una visione non deviazionista della storia del PCI secondo Agosti. Probabilmente, a leggere alcuni brani di sue corrispondenze, neppure Antonio Gramsci avrebbe avuto il giusto “pedigree” per parlare di comunismo.
Giovanni de Luna, nel trattare il centrale argomento del revisionismo e della Resistenza, dice in modo documentato cose che non condividiamo; in questo è in piena libertà di farlo, anche se pare non concedere la stessa dignità alle correnti storiografiche diverse dalla sua. L’analisi dell’evoluzione del pensiero defeliciano è sostanzialmente corretta, ma davvero non comprendiamo l’irritazione per il fatto che lo studioso reatino sostenesse che quella dell’antifascismo e della Resistenza era una storia di una minoranza in lotta con un’altra minoranza, quella dei fascisti di Salò, mentre la maggioranza della borghesia (la “ggente” che evidentemente de Luna non sopporta) sperava solo che tutto finisse quanto prima. Ma anche se fosse davvero andata così, non si capisce il problema. Perché chi scrive queste note non dovrebbe avere diritto a dire che “la dura pedagogia azionista” di cui parla de Luna a parer nostro è una solenne baggianata? Perché le parole di un personaggio che poco amiamo come Guglielmo Giannini citato dall’autore del saggio in quanto sosteneva: “noi vogliamo vivere tranquilli, vogliamo un abito nuovo, poter andare in villeggiatura” (p. 324), deve essere aborrito come esempio di “medietas”? E perché dovremmo essere tutti amanti delle minoranze eroiche? Anche queste domande non ci paiono oziose specie fra chi si occupa di storia in modo scientifico.
Infine il “flamboyant” Angelo d’Orsi, che ci sta troppo simpatico per dedicargli una stroncatura. Le sue “colonne di fuoco” sulla fase estrema del revisionismo, ossia il “rovescismo pansiano” da un lato sono piacevolissime da leggere, e dall’altro mancano di un requisito non irrilevante: la citazione di un singolo caso in cui il deprecato giornalista monferrino abbia riportato fatti non avvenuti.
Ma ad Angelo perdoniamo questo ed altro: siamo plurali, democratici, e pure ecumenici. Anche se non si direbbe.