venerdì 27 dicembre 2013

guerre in casa

La morte dall’aria
Nicola Malizia, Italy primari target, Roma, IBN, 2013

La guerra aerea in Italia è argomento che solo in tempi recenti è uscito dall’ambito delle ricerche specialistiche, per passare a una diffusione divulgativa; Malizia, che non è storico di professione e che spesso pecca nell’offrire una dimensione equilibrata a un fenomeno che fu europeo ed ebbe come precursori i teorici della guerra totale come Giulio Douhet, ha comunque la capacità di lasciarci una descrizione puntigliosa di come si svolse il conflitto negli spazi aerei del nostro paese durante gli ultimi due anni di guerra, ossia dal gennaio 1943 al maggio 1945. Si ha così la possibilità di confrontare le descrizioni di identici episodi, letti attraverso i documenti alleati, soprattutto statunitensi, e quelli italiani, prima della regia aeronautica e poi dell’aviazione di Salò. Ciò che emerge è la straordinaria pesantezza e intensità dell’offesa aerea anglo-americana, elemento che sovente è risultato marginalizzato rispetto alla “guerra in casa”, il fronte che risalì la penisola dalla Calabria all’Alto Adige, portando ovunque lutti e distruzione. I civili caduti furono migliaia (ricordiamo su tutte le carneficine di Foggia e Grosseto, che purtroppo lasciano tracce solo nella memorialistica locale), in un tragico rosario che non conobbe armistizi o tregue, proseguendo senza interruzioni sino alla fine del conflitto. Per quanto concerne gli scontri avvenuti nel cielo, l’analisi è impietosa e non lascia spazio a equivoci; anche facendo la tara ai rapporti talvolta approssimativi della RAF o dell’USAAF, la superiorità alleata è schiacciante non solo nei mezzi e nei materiali, ma anche nell’addestramento dei piloti e degli equipaggi. Il confronto appare mortificante specie osservando il numero rilevante di perdite dovute a incidenti di volo o a errori del personale regio e repubblichino (composto nella quasi totalità da elementi già appartenenti all’aeronautica con le stellette: anche su questa adesione massiccia a Salò serviranno prima o poi studi accurati e scientifici); non si contano poi vere e proprie carneficine nei cieli della penisola, a fronte di risultati amplificati in modo imbarazzante dalla propaganda fascista, che nella realtà appaiono magri ai limiti dell’insignificanza; peraltro le scarse attività dell’aviazione cobelligerante, la quale prestò uomini e mezzi ai limiti dell’usura, o scartati “in toto” dagli alleati, restano a testimonianza di scarsa fiducia nelle capacità di coloro che rimasero al servizio del re di Brindisi. Pur con i limiti di alcune parentesi di chiara polemica dal sapore nostalgico, i dati offerti dal Malizia sono strumento utile e interessante per chiunque voglia avvalersi di una cronologia di cosa fu la strage dall’aria, complemento fondamentale per ben comprendere cosa fu la guerra nel nostro paese.

Il monopolio della memoria?
Le stragi del 1943-45, (a cura dell’ANPI), Roma, Carocci, 2013

Nel momento in cui è ormai prossima la redazione de “l’atlante delle stragi”, opera che a settanta anni di distanza dalla guerra ai civili condotta dai nazifascisti dovrebbe offrire un quadro finalmente completo e scientifico sulla stagione del sangue innocente in Italia, il volume raccoglie quelli che sono i “desiderata” dell’ANPI, associazione che ha fortemente incoraggiato la ricerca storica su questi temi. I testi raccolti sono quelli dei diretti interessati al futuro lavoro: gli studiosi, i magistrati che hanno condotto – con il ritardo dovuto al tardivo e incredibile ritrovamento degli archivi di palazzo Cesi a Roma – le indagini su assassini ormai nella loro impunita vecchiaia, e i dirigenti della maggiore organizzazione di ex partigiani del nostro paese. L’intera operazione è meritoria, non fosse altro perché la memoria nazionale, esaurita la generazione di coloro che furono protagonisti e comprimari di quei giorni, appare sempre più sbiadita e lontana; i motivi a parere nostro non sono dolosi, come spesso sottolinea in modo fortemente ideologizzato l’ANPI, ma hanno altre ragioni, lontane e recenti: il sentimento diffuso dell’oblio, al fine di dimenticare il male inflitto e subito, la pluridecennale scarsa propensione al ricordo collettivo, e, al giorno d’oggi, i nuovi fattori di discontinuità nell’entità stessa del paese, a partire dal fenomeno dell’immigrazione, la quale ha condotto nella penisola popolazioni lontane e vicine, con un vissuto del XX secolo totalmente diverso dal nostro, per non dire animato da contrasti stridenti e irrisolti; basti pensare al diffuso e generalizzato sentimento di repulsione degli immigrati slavi verso il marxismo in generale e il socialismo di stato in particolare. Detto questo a nostro avviso si evidenziano limiti e tare che se non corretti, potrebbero pregiudicare i propositi dell’opera; questi cluster sono già evidenziati nelle “anticipazioni” del volume in oggetto: la memoria “monca”, amputata di tutte le contraddizioni che hanno impedito la nascita non solo di una storia condivisa, ma anche e solo semplicemente di una storia accettata da tutti gli italiani; il rifiuto del concetto di guerra civile, con l’ostentata omissione di giudizi discordanti; l’inelegante liquidazione della posizione degli studiosi tedeschi, definita superficiale o poco attenta alle nostre ragioni: in realtà, a parer nostro, è bene non pigiare troppo su questo tasto, visto il nostro atteggiamento da occupanti violenti e straccioni in Slovenia o in Dalmazia, solo per ricordare due delle nazioni più vicine alla nostra; che riparazioni pubbliche abbiamo fatto in queste nazioni? In ultimo, è davvero sconcertante il fatto che giudici unici e ultimi del bene e nel male siano i vertici dell’ANPI,  i quali – davvero con scarso senso delle proporzioni – lasciano in lettura una “relazione di maggioranza” (senza nomi dei firmatari) e “di minoranza” (altrettanto anonima) quasi come se l’associazione fosse una sorta di istituzione rappresentativa di tutte le storie e memorie dell’antifascismo. In realtà così non è, e, aggiungiamo, questa pervicace tendenza all’egemonia non rende giustizia degli sforzi volti a redigere una ricerca di carattere definitivo sull’argomento. Forse, un po’ più di umiltà e meno certezze granitiche avrebbe giovato sia ai redattori che ai promotori del lavoro.

Guerra, guerre, macro, micro …
Alessandro Roveri, La guerra di Hitler da Monaco 1938 a Ferrara 1943, Ferrara, Este edition, 2013


Difficile riuscire a immaginare un titolo tanto infelice per uno studio meritevole invece di attenzioni non provinciali. Roveri è ricercatore che ha lasciato materiali e riflessioni non banali, e anche se nella sua produzione ultima ha illuminato protagonisti discutibili e sbilenchi (rammentiamo una biografia di Antonio di Pietro descritto come uomo provvidenziale per l’Italia del XXI secolo) non va dimenticato quanto di buono ha lasciato in eredità alla storiografia scientifica specie per quanto riguarda la nascita e lo sviluppo del fascismo emiliano e romagnolo. Quest’ultimo lavoro, che copre i sette anni dal 1938 al 1943, interrompendosi senza spiegazioni apparenti alla fine di quest’ultimo anno, offre una interessante carrellata sui principali attori della crisi europea e del conflitto mondiale, e delle principali scuole storiografiche sull’argomento. Roveri si sofferma lungamente sull’ultima stagione defeliciana, inquadrandone i pregi e i difetti nell’indagine dell’Italia fascista dall’apogeo del regime sino alla sua dissoluzione, così come riprende in modo analitico i nodi emersi negli studi accademici sui totalitarismi svolti nel corso del ‘900 dai ricercatori inglesi e tedeschi. Si può discutere sulla postuma rivalutazione del ruolo di Stalin e dell’URSS nel corso della guerra, ma le tesi dello storico romagnolo sono comunque ben argomentate e documentate – anche se troppo indulgenti nei confronti di un regime oppressivo e sanguinario – pur non portando particolari novità nel dibattito scientifico. Il testo prosegue poi in modo piuttosto frammentario, passando dall’ambito “macro” a quello “micro” delle vicende più strettamente ferraresi, affrontate alla luce delle scoperte più recenti sulla nascita e lo sviluppo del fascismo salotino nella provincia estense; probabilmente ha ragione Roveri quando, senza entrare nel dettaglio dell’annosa diatriba, osserva i risultati primi e definitivi dell’uccisione del federale di Ferrara, Igino Ghisellini, ossia l’inarrestabile ed esponenziale sviluppo della generalizzata violenza fascista e dell’altrettanto dura reazione partigiana. Indubbiamente quella morte (assieme a quella del leader del fascismo milanese Aldo Resega, di cui non si fa menzione nello studio) fu uno spartiacque tra le indecisioni post armistiziali e la stagione della guerra civile conclamata in ogni luogo e ad ogni livello. Non si può infine non concordare con l’autore per una sua riflessione critica, ossia la sciatteria provinciale del ricordo pubblico di quei fatti: una nota e assai imprecisa lapide sul muretto del fossato che circonda il Castello estense, una lapide poco lontano, e un cippo sulle mura cittadine, sul quale le righe consunte dal tempo, riportano nomi e cognomi degli uccisi, con un vago accenno alle cause della prematura dipartita. Spiace la successiva, brusca conclusione dello scritto, che coincide anche con la fine del volume, forse meritevole, come dicevamo di un editing migliore, o di una stesura diversa, magari come raccolta di saggi.

martedì 29 ottobre 2013

settembre 1943 - settembre 2013

La babele delle voci
Paolo Sorcinelli, Otto settembre, Milano, Bruno Mondadori, 2013

Il rischio delle ricerche basate sulle memorie di coloro che attraversarono i momenti cruciali della nostra storia, è quello di sortire una specie di effetto “piazza del mercato”: un insieme indistinto di voci che si rincorrono, e sulle quali ogni tanto si levano gli strilli dei venditori. Sorcinelli, sia pure con l’abilità del mestiere, cerca di trarre una morale da questa confusione, purtroppo con scarso esito, almeno secondo noi. Dimostrare che la maggioranza del paese avesse un comune sentire antinazista o fosse fermamente intenzionata a difendere in armi l’integrità della nazione, è secondo noi del tutto aleatorio se ci si basa soltanto sui frammenti della memoria di ufficiali e soldati, piuttosto che impiegati o operai; la lettura del volume risulta così talvolta piacevole e altrove invece piuttosto lenta e frammentaria, a seconda di chi viene scelto per mettere in evidenza le tesi dell’autore. Il limite della scrittura è quello poc’anzi riportato: una specie di “juke box” in cui Sorcinelli va a pescare, di volta in volta, le tesi che paiono maggioritarie, o minoritare. E per dipingere lo sfondo, in una sorta di piuttosto monotono basso continuo, troviamo due riferimenti che dall’inizio alla fine dello studio sono di continuo citati e interpellati: le memorie dell’imprenditore piemontese Carlo Chevallard e della benestante proprietaria terriera anglosenese Iris Origo, le quali, per ben scritte e articolate, sono solo una parte del grande puzzle nazionale, e, secondo noi, nemmeno quella più interessante. Il resto è un affastellarsi di esperienze che davvero poco aggiungono a quanto già si conosce sul quel tragico passaggio obbligato della nostra storia nazionale; tralasciamo qui di aggiungere che in diverse parti del testo si trovano testimonianze romanzate e non sempre attendibili, su tutte quella del futuro federale della tetra Milano repubblichina, Vincenzo Costa, che pure è riportata nell’ultima di copertina. Il lavoro di Sorcinelli risulta quindi buono nelle intenzioni e nei propositi, ma non sempre all’altezza di quelli che erano gli obiettivi dell’autore.

Immagini del disastro
Marco Gasparini, 8 settembre 1943, Torino, Capricorno, 2013

La storia per immagini del 1943 non è un soggetto inedito; in passato autori accurati come Silvio Bertoldi, Adolfo Mignemi o Giovanni de Luna si sono soffermati su questo soggetto. Il lavoro di Gasparini ha però alcuni dettagli che ci sono comunque sembrati interessanti, o addirittura inediti. I civili italiani hanno ovunque un immagine deperita e cenciosa: il corteo festante per le vie di Milano dopo l’annuncio della caduta del regime è significativo; sono tutti ragazzi giovani o giovanissimi (le classi più adulte erano ovviamente di leva), con un operaio, forse un muratore, in una tuta da lavoro e con ai piedi delle approssimative “espadrillas”, che fanno emergere tutto fuorché una sensazione di sicurezza, specie se, come pare, si tratta di un carpentiere addetto a qualche ponteggio. La vista in primo piano della nuca del generale Castellano intento a firmare a Cassibile la nostra resa senza condizioni, rivela un inquietante “riporto”, impietosamente messo in luce dall’abbondante uso di brillantina, degna cornice di un mondo destinato a concludersi vergognosamente nel giro di una settimana; l’ufficiale americano al fianco potrebbe invece essere uno qualsiasi dei militari a stelle e strisce impegnato oggi in Afghanistan o altrove, tanto appare moderno nell’espressione e nell’abbigliamento, così come “guerrieri” ci appaiono i parà tedeschi che combattono contro il regio esercito a Roma, con i terribili scarponcini di cartone e le fasce mollettiere. E infine un documento che non avevamo mai visto prima, ossia la pagina su cui Mussolini, in Germania, mise per iscritto la nascita della repubblica sociale, stilando cinque ordini del giorno “del regime” (sic); la scrittura nervosa del duce, che pone le basi alla guerra civile su un foglio quadrettato ha qualcosa di inquietante e assieme rivelatore: al punto n. 2 il segretario provvisorio del rinato partito fascista è inserito con una postilla a “v”, perché evidentemente non presente nella frettolosa redazione. Il nome di Alessandro Pavolini è posticcio: forse davvero il duce non aveva trovato di meglio…

Settembre silenzioso
Gianni Oliva, L’Italia del silenzio, Milano, Mondadori, 2013

La riflessione di Gianni Oliva sull’armistizio, finisce giustamente per allargarsi a una riflessione più generale sull’eredità di storia e memoria della resistenza italiana, e sull’influsso che questa pagina di storia ha avuto per costruire una sorta di grande “autoassoluzione generale”, per impedire a ciascuno di noi di riflettere su vent’anni di dittatura prima subita e poi in qualche modo partecipate; l’autore, in questo volume riflette in termini tutt’altro che banali sui giudizi storici che l’armistizio ha finito per esprimere: la fine del regno d’Italia, che ebbe qualche spasmo di vitalità nei mesi successivi, ma la cui fine fu decretata dall’abbandono di Roma da parte di Vittorio Emanuele e di Pietro Badoglio; la difficile risalita della “nuova Italia” che nacque dalla rivolta contro gli occupanti tedeschi, in un paese dilaniato dalla guerra civile, scontro fratricida animato da minoranze tanto decise e convinte nel proprio agire, quanto circondate da una società che in ogni modo era animata da un unico obiettivo, ossia sopravvivere alla bufera del conflitto; in ultimo resta il giudizio tranciante che quelle vicende suscitarono nei nostri interlocutori esteri, i quali bollarono il nostro paese con giudizi tutt’oggi difficili da superare, come la nostra generale inaffidabilità o la tendenza tutta nostrana di schierarsi dalla parte del più forte. Per il “combinato disposto” di tutti questi motivi, e nonostante lo sforzo (specie degli storici “embedded” del marxismo nostrale) di trasformare il 25 aprile in una giornata di memoria nazionale, la parentesi della guerra in casa, della guerra civile e della lotta di classe di quei mesi è diventato, col passare del tempo, uno dei tanti appuntamenti istituzionali, non diverso dal 2 giugno o dall’ancor meno sentito 4 novembre. La scarsa o nulla eco nel dibattito pubblico delle ricorrenze relative al 70° dell’armistizio parla a volumi di questa noncuranza nazionale, che solo i ciechi (ideologici) non vedono. La realtà, a parer nostro ben individuata da Oliva, è che dopo settant’anni l’unico esito concreto di quel pezzo di storia patria, è stato, oggi più che mai, l’incapacità di fare i conti con noi stessi.



venerdì 30 agosto 2013

Ricerche, romanzi, memorie della guerra in Italia.

Revisione della revisione?
Sergio Luzzatto, Partigia, Milano, Mondadori, 2013

Nelle prime pagine del volume, quasi come una “excusatio non petita”, o come monito nei confronti del lettore, Luzzatto ci rende edotti che sua madre, in età fanciullesca, invece delle consuete favole o filastrocche, gli leggeva a letto ampi stralci delle Lettere dei condannati a morte della resistenza dettaglio che a chi scrive pare agghiacciante: della nostre nottate di bambini insonni ricordiamo fumetti o libricini di divulgazione enciclopedica; onestamente non abbiamo sentito la mancanza di una istruzione civica precoce, e ci pare poco comprensibile e solo giustificato come espediente letterario questo rimando alle virtù familiari, quasi a voler sottolineare (inutilmente) una superiorità che dovrebbe essere premessa a quanto di seguito raccontato.
E il seguito è, effettivamente, rivoluzionario, quantomeno dal punto di vista dell’autore, che dieci anni dopo la pubblicazione del da lui ampiamente deprecato Il sangue dei vinti, scopre che Giampaolo Pansa è autore “fazioso ma documentato” e che la guerra di liberazione per come narrata nella divulgazione resistenziale, è densa di cascami retorici, ricostruzioni di comodo se non omissioni furbesche. In realtà quindi nulla di nuovo, anche se Luzzatto, dopo lustri di battaglie in nome dei princìpi democratici e costituzionali, si trova in modo piuttosto stupefacente a riportare in nota le deduzioni e i giudizi che il giornalista monferrino aveva formulato parecchi anni fa. La breve storia partigiana di Primo Levi, che si concluse con la cattura e la successiva deportazione ad Auschwitz è in fin dei conti marginale, anche se occupa grande spazio nel lavoro di ricerca e, a quanto pare, nelle intenzioni dell’autore; il dettagliato racconto delle brevi settimane da patriota dell’autore di Se questo è un uomo, finisce per diventare marginale rispetto a tutto ciò che sta intorno, ossia la presenza dei “partigia”, i ribelli dal grilletto facile e dalla condotta tutt'altro che immacolata. Il risultato finale è un generale senso di indeterminazione, in cui le vergognose vicende giudiziarie dei collaboratori e delle spie, dei carnefici e dei complici, sono affiancate (non sappiamo quanto volutamente) dalle lapidi e dalle targhe in cui i caduti della Resistenza sono definiti tali anche senza esserlo. Per poi concludere nuovamente con l’esercizio stilistico che abbiamo trovato al principio: un bimbo che viene addormentato con la lettura degli ultimi scritti di uomini seviziati destinati al plotone di esecuzione.
Ci perdonerà Luzzato, ma la nostra infanzia è stata diversa; forse per questo fatichiamo a comprendere il fine ultimo dello studio.

Il cielo d’Irlanda
Mauro Maggiorani, La ballata del tempo sottile, Roma, Gremese, 2013

Conosciamo e apprezziamo da tempo il Mauro Maggiorani storico e questo racconto ci pare davvero una piacevole sorpresa dal punto di vista letterario: la “ballata” del titolo è una appassionante storia familiare che coinvolge e fa riflettere il lettore sulle contraddizioni del novecento e su quelle del nostro presente, stagioni diverse, ma unite da una complessità che l’autore coglie appieno, rispettando le storie dolorose dei protagonisti.
Cosa può riservare a uno studioso di storia l’incontro con la memoria dolente di un uomo che rammenta un passato lontanissimo di bombardamenti e fughe nei rifugi, anche se, teoricamente, non era ancora nato? Chi scrive si è incontrato spesso in interrogativi simili a quello di Niccolò, il protagonista del romanzo; il parente che non ha detto nulla del proprio passato oscuro, e i congiunti che chiedono aiuto in modo accorato, sperando forse di aver incontrato una specie di Virgilio capace di condurre negli inferi del passato (e della coscienza) chi ha bisogno di sapere “di più”, sono una costante del mestiere dello studioso. E quindi non si fatica a mettersi nei panni di un disincantato storico del novecento, il quale, più nolente che volente, finisce per mettersi sulle tracce di una storia apparentemente assurda, che lo porta in Irlanda, paese con un piede nel presente e uno imprigionato in un passato difficile da rimuovere, che  – in fin dei conti – assomiglia parecchio alla nostra poco felice nazione.
Qui, poco alla volta, si sveleranno tutti i segreti che portano un anziano bolognese a comprendere che la propria famiglia era diversa da quella immaginata e che i buoni erano forse meno buoni di come gli era stato detto, così come i presunti cattivi erano assai meno peggiori di come erano stati semplicisticamente raccontati. Niccolò è immerso a questo confuso “past-present”, che finisce per coincidere con la propria nebulosa situazione affettiva, anch’essa esito di un passato che non smette di assillare il presente, e un presente che lo lascia in fin dei conti insoddisfatto e inquieto, come il cielo dell’Eire sotto il quale si svolge l’intera storia. La morale che ci pare si possa trarre dalle dolorose storie del libro di Maggiorani è che nella complessità risiede il principio del vero, e tante volte possiamo solo constatare, come diceva Gilbert Chesterton che “a potare troppo l’albero alla fine resta un ramo”. Siamo grati al nostro amico e collega studioso per aver condiviso con tutti i lettori questa semplice e antica verità.

Memoria nera
Elia Porta, Una storia vera, Roma, Settimo Sigillo, 2012

Quando si ha a che fare con le memorie dei reduci di Salò, come tante volte abbiamo sottolineato, si ha la sensazione di uomini e donne rimasti per tutta la vita fedeli alla propria stagione giovanile, quasi che l’età matura sia stata una superflua appendice ad una esperienza eroica e, a suo modo irripetibile. Anche nella descrizione che Elia Porta fa della sua vita, si riscontrano queste caratteristiche, in questo caso succedute da una militanza senza oscillazioni all’interno del MSI, vissuta come necessaria e indispensabile conferma ai propri ideali, evidentemente punti cardinali al di fuori dei quali non era possibile trovare una dimensione di impegno sociale e politico.
Nella narrazione, fatta la consueta tara alle ricostruzioni di comodo, tanto dense di ingenua partecipazione, quanto del tutto insostenibili anche solo dal punto di vista della ricostruzione storica, ci sono comunque punti di interesse per il ricercatore; l’autrice, infatti, visse fin dal principio la tormentata vicenda dell’aviazione fascista repubblicana, di cui fu non solo spettatrice, ma attrice diretta, invischiata nelle lotte di (modesto) potere fra i vari responsabili nominati e destituiti dal grigio duce di Gargnano, ossia Ernesto Botto, Arrigo Tessari e Ruggero Bonomi: uomini perennemente impegnati, più che a combattere gli angloamericani, a farsi la guerra con denunce, dossier e spiate, di cui anche Elia Porta fu volontariamente partecipe, sostenendo a viva forza le posizioni estremiste e filonaziste di Tessari, il cui scopo ultimo era quello di creare una legione italiana all’interno della Luftwaffe. L’autrice, probabilmente convinta di offrire al lettore un esperienza a suo modo coraggiosa e coerente, squaderna così un miserevole affresco di ripicche e delazioni; una zattera della medusa in cui pochi o nessuno si salva dal generale squallore del declino e della fine imminente. Il dopo è rappresentato dall’incessante ricerca dell’atmosfera del “prima”: il fascismo clandestino nella Roma dell’immediato dopoguerra, con tanto di cruenti (e grotteschi) giuramenti fra pugnali e bombe a mano e le esperienze lavorative all’estero, sempre all’ombra della dittatura, come nella Repubblica Dominicana di Rafael Trujillo, da cui Elia Porta fugge poco prima del rovesciamento di uno dei più barbari regimi centro americani.
Il resto, oggettivamente, è noia; la prosa senza slanci, stanca e pesante, si trascina per qualche pagina, concludendosi con una ulteriore rivendicazione delle scelte di giovane fascista. Resta da osservare la smunta appendice iconografica: alcuni scatti ell’epoca di Salò, una foto con dedica autografa di Peron, che l’autrice aveva incontrato nella sua trasferta oltre oceano, e un'altra che la ritrae, ormai novantenne, in pellegrinaggio alla tomba di Rodolfo Graziani. Certe volte il passato non passa mai perché semplicemente si vuole rimetterlo sempre davanti a sé.


sabato 29 giugno 2013

scelte sbagliate, vite violente

Volontari di Francia
Andrea Vezzà, I ragazzi di Quai de Bacalan, Milano, Ritter, 2012

L’archivio di Carlo Alfredo Panzarasa è da decenni una imprescindibile fonte di informazioni per chiunque si voglia avvicinare alla complessa vicenda della X Mas nella RSI; soprattutto l’imponente raccolta iconografica (centinaia di fotografie scattate dall’autore nel corso della sua giovanissima militanza nella RSI) è stata utilizzata da autori di ogni ispirazione e tendenza ideologica per offrire uno spaccato visivo del biennio 1943-45. Vezzà raccoglie in questo volume il frutto di una lunga intervista con Panzarasa, la cui singolare vicenda umana, viene per la prima volta narrata in modo dettagliato.
Figlio di ricchi emigrati in Francia, Panzarasa nasce e cresce a Parigi, dove per convinzioni familiari e personali, conosce una precoce militanza politica nell’estrema destra del Francisme di Marcel Bucard, assieme ad altri giovanissimi italofrancesi; al momento dell’armistizio il diciassettenne Panzarasa è nella sparuta pattuglia che riapre la sede del fascio nella capitale transalpina, venendo successivamente inquadrato, in modo provvisorio, fra chi intende proseguire in armi la guerra assieme ai nazisti (è presente la copia del porto d’armi rilasciato dal comando SD parigino). Nell’inverno 1943-44, diverse decine di giovanissimi italiani di Francia confluiranno, grazie ai canali del reclutamento tedesco, prima a Parigi, e poi, dopo una travagliata serie di ordini contrastanti, alla base della marina italiana di Bordeaux (Betasom) passata in modo praticamente totalitario alla Kriegsmarine di Karl Doenitz grazie ai buoni uffici di Enzo Grossi, uno dei primissimi aderenti alla repubblica mussoliniana, e discutibile sommergibilista. Qui i giovani emigrati di fede fascista sono riuniti e addestrati come fanti di marina; le motivazioni del volontarismo sotto il fascio littorio sono le più disparate: autentica passione per Mussolini, ma soprattutto indispettita reazione nei confronti dei coetanei transalpini dopo anni di angherie e discriminazioni nello studio e sul lavoro. Sommariamente istruiti ed equipaggiati, sono poi rimandati in Italia e inseriti nella X Mas di Valerio Borghese, dove vengono impegnati sui sanguinosi fronti della guerra civile: Veneto, Piemonte (dove Panzarasa documenta l’impiccagione a Ivrea del partigiano Ferruccio Nazionale, in una sequenza destinata a passare tragicamente alla storia, qui riprodotta da sinistre angolazioni), e il Friuli, dove i giovanissimi italofrancesi sono decimati nella battaglia di Tarnova, presso Gorizia, contro i partigiani sloveni, fino alla resa nel Vicentino.
Il volume, facendo la tara al taglio agiografico, si rivela comunque un utile strumento per comprendere una vicenda minoritaria e a tutt’oggi poco conosciuta, ossia quella dell’adesione alla RSI da parte degli italiani residenti in Francia. Panzarasa si rivela un narratore preciso e non incline all’autoindulgenza, anche negli episodi più scabrosi della guerra contro il movimento di liberazione. Indicativa comunque una dichiarazione del reduce di Salò: i suoi ex commilitoni gli procurarono “diverse grane” per la vicenda delle foto scattate a Ivrea. Evidentemente alcuni ritenevano (o ritengono tuttora) che il lato buio di quel periodo non andasse in alcun modo illuminato…

Donne in camicia nera
Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico, Milano, Mimesis, 2013

La militanza femminile a Salò è argomento che nell’ultimo decennio ha conosciuto nuovi e interessanti impulsi storiografici, anche se – in questo come in altri versanti delle vicende dell’ultimo fascismo – la ricerca scientifica è giunta dopo anni di ritardi e omissioni, lasciando spesso il campo della discussione pubblica in mano all’agiografia e soprattutto alla letteratura reducistica. La ricerca di Roberta Cairoli si basa in gran parte su materiale inedito, principalmente riconducibile a due fonti: le carte delle corti d’assise straordinarie, attraverso le quali si snodarono le vicende giudiziarie di molte donne fasciste, e la documentazione del controspionaggio alleato, che intercettò la quasi totalità delle giovani spie inviate oltre la linea del fronte; il risultato ci è parso talvolta disomogeneo, forse proprio a causa di questa tipologia di carte, che pure illuminano in modo crudo e realistico una stagione di volontarismo idealista e ingenuo, e assieme irresponsabile e fanatico. Nella lunga sequenza di sentenze postbelliche, come spesso accade, si trova davvero di tutto e di tutto un po’. Come altre volte in passato, a nostro modesto avviso, ci pare che il filone “giudiziario” finisca spesso per diventare una lunga carrellata di nequizie spesso scollegate fra loro, in cui rinvenire un filo conduttore è impresa complessa; anche pensare di raccogliere i vari casi in una classificazione di massima (volontarie, ausiliarie, delatrici, ecc…) si rivela non sempre utile quando si entra nei singoli casi, che spesso, invece di suscitare la riprovazione del lettore, muovono alla constatazione delle miserie umane presenti in ogni epoca: amanti tradite, spie per bisogno, mercenarie senza scrupoli, donne con psicologie “borderline”, e – certamente – anche cieche ammiratrici del duce, disposte a uccidere e essere uccise nel nome di Mussolini.
Diversa e più interessante la parte che ricostruisce la rete spionistica delle reclutatrici e delle informatrici al servizio dei nazisti, che sotto le sigle più assurde (dalle “volpi argentate” alla “compagnia del fascio crociato”) decisero di mettere il proprio non sempre elevato ingegno per la causa delle forze armate dell’asse. Il quadro che la Cairoli mette a nudo è esemplare: da un lato una organizzazione, quella dello spionaggio tedesco, senza alcuno scrupolo e dotata di ingenti mezzi finanziari e di una ramificata e complessa rete di collaboratori; dall’altro una accolita di ingenue fanatiche, sfruttate senza pietà da professionisti dell’intelligence, le quali quasi sempre non si accorsero ne’ allora ne’ oggi di essere state incoscienti pedine di un gioco immensamente più grande di loro. Ed è proprio su questa incapacità di affrontare il “dopo” che troviamo le riflessioni più interessanti, in quanto inquadrano un tratto tipico della letteratura dei reduci di Salò, ossia il “present continuous” della propria militanza giovanile, quasi che i sette decenni successivi alle proprie scelte di diciottenni o diciassettenni siano stati un inutile appendice a una avventura vissuta in modo estremo nell’arco di poco più di un anno, fra l’armistizio e la Liberazione dell’aprile.

Il sangue della “Tagliamento”
Sonia Residori, Una Legione in armi, Vicenza, Cierre, 2013

Esistono studi che tracciano un “prima” e un “dopo” rispetto allo stato generale della ricerca storica. Non crediamo di esagerare nel dire che la certosina ricerca di Sonia Residori, segna (finalmente, diciamo noi) una linea di confine dopo decenni di approssimative ricostruzioni agiografiche e – purtroppo – altrettanto superficiali narrazioni di ambito resistenziale. A settanta anni dalla costituzione del reparto, finalmente troviamo un racconto organico della sanguinosa vicenda della legione camicie nere M “Tagliamento”, forse l’unica formazione organica che dall’autunno 1943 fino alla primavera 1945 ebbe come unico compito esclusivo la lotta spietata contro il movimento di liberazione. La ricostruzione non è stata agevole, sia per la carenza documentaria (quasi tutte le carte riferite al reparto vennero distrutte al momento del suo scioglimento a Revò, nei pressi del passo della Mendola, ai primi di maggio del 1945) sia per gli spostamenti dell’unità, nata dall’ammutinamento, avvenuto a Bagni di Tivoli, di alcune compagnie della divisione corazzata “M” dopo l’armistizio, e successivamente dislocata nel Bresciano, a Vercelli, nei pressi di Pesaro, nel Vicentino, per finire in Valcamonica. Unico filo conduttore di questo tragico peregrinare, l’azione del comandante del reparto e principale responsabile di tutti gli eccessi che costellano la storia della “Tagliamento”, ossia Merico Zuccari, già giovanissimo squadrista marchigiano e successivamente volontario in tutte le guerre mussoliniane, nonostante le mutilazioni riportate in battaglia. L’autrice individua in modo approfondito gli elementi fondanti del legame di sangue uomini di generazioni diverse (dai maturi militi già volontari in Russia agli impuberi quattordicenni reclutati ovunque nel centro e nel nord Italia): la fedeltà cieca ai valori espressi dal fascismo, il sanguinoso mito del sangue e dell’onore, la fratellanza d’armi e l’odio forsennato verso i nemici, armati o disarmati, bene espresso da uno sfogo velenoso di Zuccari, il quale, come intimo desiderio avrebbe voluto “… schiacciare tutti quanti sotto le ruote della sua automobile …”, proposito che cercò di rendere reale tramite decine di fucilazioni sommarie avvenute per venti mesi consecutivi, senza risparmi di forze e senza quartiere per nessuno. I comandanti di battaglione e di compagnia condividevano legge, con sparute eccezioni, questa Weltanschaung omicida e fecero quanto in loro potere per realizzare il sogno del loro capo, bruciando paesi, impiccando, stuprando e saccheggiando a man bassa senza tregua e senza misericordia. E’ difficile trovare nelle schiere già poco rassicuranti delle milizie volontarie salotine una formazione addestrata a simili livelli di brutalità, comunque tollerata, se non incoraggiata dai vertici stessi dell’agonizzante repubblica fascista, tanto è vero che lo stesso Mussolini, nel corso della visita al reparto, autografò una sua foto dedicata al comandante con il commento “La Tagliamento è la legione del mio cuore”. Non diverso il compiaciuto elogio che poco dopo giunse al reparto dal comandante delle SS e della polizia tedesca in Italia, Karl Wolff, che ribadì come le camicie nere con la “M” rossa fossero il migliore reparto antipartigiano a sua disposizione.
Unica precisazione che ci sentiamo di poter aggiungere ad un lavoro che senz’altro resta testimonianza di una tenace e ammirevole volontà di “sapere e capire”, riguarda l’interpretazione di questa storia feroce e senza misericordia: più che i rimandi allo squadrismo degli anni ’20 o all’esempio della altrettanto bestiale condotta nazista, a parer nostro per spiegare gli atti di Zuccari e dei suoi seguaci è sufficiente osservare il comportamento delle camicie nere nel corso dell’occupazione balcanica, fra il 1941 e il 1943; in Slovenia, come in Dalmazia o in Montenegro i reparti della MVSN si comportarono esattamente come in Italia dopo l’armistizio, a dimostrazione che essi consideravano tutta la RSI come territorio di occupazione, dove era possibile esercitare il diritto della forza e del sopruso, contro tutto e contro tutti. Resta, in conclusione, un mistero irrisolto, ossia il potere fascinatorio che questo malfamato reparto ebbe su giovani che poi hanno conosciuto successo nel mondo della letteratura e del teatro, come Giorgio Albertazzi, Carlo Mazzantini e Giose Rimanelli. Un angolo buio che, temiamo, è destinato a restare tale …

lunedì 22 aprile 2013

Interpretazioni, negazioni, revisioni

Resistenza ai fatti…
Massimo Recchioni, Francesco Moranino, Roma, Derive Approdi, 2013

Riuscire a rivalutare la figura di un personaggio come Francesco Moranino, uno dei pochi comandanti partigiani a non essere riuscito ad avvalersi delle varie amnistie succedutesi dal 1946 in avanti è impresa a parer nostro improba, oltre che controproducente: non si capisce infatti la ragione per cui dovrebbe essere necessario uno studio, peraltro di fattura tutt’altro che eccelsa, per offrire luce (sinistra) a un uomo la cui attività nel corso della guerra partigiana aveva suscitato giudizi tutt’altro che lusinghieri all’interno del movimento di Liberazione.
Recchioni, comunque, si dedica anima e corpo per inquadrare Gemisto in un ottica agiografica, polemizzando con la “storiografia revisionista” ma finendo per fare, a sua volta errori marchiani all’interno dello studio: il generale Enrico Adami Rossi diventa “Adamo Rossi”, il 75° corpo d’armata di Hans Schlemmer diventa “750”, più altre incertezze nelle descrizioni della guerra partigiana in Valsesia (non c’è il nome di un singolo reparto della RSI, ma ovunque si parla di “nazifascisti”, ignorando gli ultimi vent’anni di storiografia sull’argomento).
Desta sconcerto soprattutto la descrizione dell’episodio controverso di cui Moranino fu protagonista, ossia il massacro della missione americana guidata dall’agente OSS Emanuele Strassera, che comportò l’uccisione del comandante, di quattro partigiani e di due donne, con l’accusa di essere “spie fasciste”. Ebbene di quei fatti, praticamente non c’è traccia; l’autore descrive i prodromi, i fatti successivi, si addentra – in modo tutt’altro che sicuro – nella vicenda processuale, ma non dice nulla con precisione su cosa avvenne il 26 novembre 1944 e il 6 gennaio 1945. Non dice che Strassera e i suoi furono spogliati e depredati dei loro averi; non dice che le donne uccise ad inizio 1945 con un colpo alla nuca stavano semplicemente raccogliendo notizie inerenti quel fatto di sangue; non dice che, prima della difesa processuale incentrata sulla ossessione dei partigiani per le spie fasciste, la versione riguardante questi ultimi omicidi era che essi erano da addebitare a militi di Salò. Peraltro, solo di passata, aggiungiamo che alcuni terribili fatti di sangue avvenuti a Vercelli a maggio 1945 non furono addebitati a Gemisto e ai suoi uomini solo perché compresi fra quelli estinti dalla sanatoria che considerò “atti di guerra” pure gli eccidi perpetrati a ostilità abbondantemente concluse.
Presentarsi come raddrizzatori di torti e poi farsi “le ragioni” omettendo fatti o raccontando mezze verità, non ci pare opera deontologicamente corretta. Anche perché pure in seguito Recchioni non migliora il tono; “l’esilio” di Moranino in Cecoslovacchia, in italiano si chiama “latitanza” visto che nel processo a suo carico, il comandante Gemisto fu condannato all’ergastolo, dopo che il parlamento aveva dato l’autorizzazione a procedere contro di lui (sarà l’unico caso fino al 1976…). Che l’autore trovi il modo di infarcire una polemica di dubbio tenore sulla legittimità della corte giudicante, sostenendo che alcuni magistrati avevano trascorsi poco commendevoli nel periodo fascista, serve a poco, in quanto la quasi totalità della magistratura aveva quel tipo di background, ma soltanto a carico di Moranino e pochissimi altri furono emesse sentenze di quella gravità. Così come l’attività oltrecortina, che per molti studiosi tutt’altro che “revisionisti” era quantomeno sospetta, viene dipinta come una specie di soggiorno obbligato, dovuto alle ingiustizie sofferte in patria.
Secondo il nostro modesto avviso, se si vuole rendere un buon servizio alla Resistenza e all’antifascismo, sarebbe bene selezionare con maggiore avvedutezza l’oggetto delle indagini storiche. Talvolta i risultati possono essere contrari a quelli sperati.

Storie bugiarde
Claudio Vercelli, Il negazionismo, Bari, Laterza, 2013

In uno studio attento e approfondito, l’autore riesce a ricostruire dettagliatamente la genesi, l’evoluzione e lo “stato dell’arte” di una bugia, ossia la negazione della Shoah. La definizione migliore del lavoro la dà infatti lo stesso Vercelli, quando parla, nel titolo, di “Storia di una menzogna”, i cui padri sono una congerie eterodossa frutto dell’unione di risentimenti di diverso colore politico e di tradizioni culturali opposte: reduci del collaborazionismo in salsa francese, schegge di un marxismo radicale e intollerante, docenti universitari in cerca di una ribalta per le proprie ossessioni, giornalisti in malafede e in tempi recenti gli oltranzisti islamici e i loro incoscienti “fan” occidentali, burattini nelle mani di corporazioni dedite al terrore su scala mondiale.
Il negazionismo, da culto lugubre per una cerchia ristretta di iniziati, come era negli anni ’50 e ’60, soprattutto oltralpe, è divenuto nei vent’anni successivi oggetto dell’attenzione dei media, fino a divenire, in tempi recenti, anche motivo di interesse per gli studiosi scientifici: con colpevole ritardo, a parer nostro. La storiografia accademica, infatti, ha ignorato per troppo tempo la pervicacia con cui gli “studiosi” dell’inesistenza delle camere a gas, col passare degli anni, si erano comunque creati uno spazio nella cultura contemporanea. Bene fa Vercelli a indagare sulle modalità tutt’altro che banali con cui i “ricercatori non allineati” hanno svolto i propri studi, in quanto si scopre che molti di essi usano forme sofisticate di approccio all’argomento, come l’estrapolazione di alcuni documenti a scapito di altri, l’omissione delle prove certe e la martellante insistenza sulle contraddizioni nelle carte e nelle testimonianze. Dalla Francia, agli Stati Uniti, all’Italia, la mappa delle bugie rivela peculiarità e caratteristiche diverse, ma un unico filo conduttore: l’autorappresentazione di una minoranza di invasati che descrive se stessa come l’unico faro all’interno del buio creato ad hoc dal “giudaismo internazionale”. L’ultima palingenesi, quella a parer nostro più subdola, in quanto gode di diffusione mondiale, è quella del negazionismo a sfondo islamista, che trova – purtroppo – anche oggi credibilità fra i tanti sostenitori del “i sionisti si comportano come i nazisti”: frasi sentite e risentite, purtroppo anche in tempi recenti, anche nel nostro paese.
Un unico appunto possiamo muovere all’autore di questo lavoro documentato e ben strutturato, ossia il voler accomunare il cosiddetto “revisionismo storico” al negazionismo, come esempi di banalizzazione della storia, ossia dal voler creare una narrazione priva di giudizi di merito, nella quale i racconti sono sostanzialmente delle cronologie di eventi. In realtà, a parer nostro, le cose stanno diversamente. Renzo de Felice ha sempre sostenuto altra cosa, ossia, citando la sua Intervista sul fascismo: “I fatti andrebbero prima ricostruiti e poi interpretati, non il contrario, come talvolta fa qualche ricercatore”. Non ci pare che questo invito sia banalizzante, ma, anzi, dovrebbe essere il fondamento per qualsiasi ricerca seria sul nostro passato.

Rivalutare l’antiresistenza?
Vincenzo Podda, , La marcia contro la Vandea, Milano, Lo Scarabeo, 2013

Il volume comprende una giustapposizione di argomentazioni che – purtroppo – non sempre collimano come argomenti o scopi ultimi dello studio. Divisa sommariamente in tre sezioni (la storiografia sul periodo 1943-45, la controguerriglia tedesca, la controguerriglia dell’esercito della RSI) la ricerca presenta approfondimenti e digressioni scarsamente coerenti e di diseguale valore scientifico.
La prima parte è, in buona sostanza, una intemerata indirizzata agli storici antifascisti, a cui l’autore rinfaccia la partigianeria e la pluridecennale superficialità con cui lo studio della RSI è stato affrontato. In realtà, se effettivamente le ricostruzioni delle vicende relative a Salò e la guerra civile sono state oggetto di una attenzione tardiva da parte della storiografia scientifica, è anche vero che negli ultimi vent’anni sono stati pubblicati volumi che hanno colmato gran parte di questo “gap”; negarlo “in toto” ci appare ingiusto, come non ci sembra molto corretto dal punto di vista deontologico, estrapolare tabelle, cifre, quantificazioni numeriche da studi diversi e non contemporanei fra loro: in particolare ci è risultata particolarmente sgradevole una polemica diretta a Giorgio Rochat, le cui analisi numeriche sulla forza schierata da esercito, marina e aviazione nel secondo conflitto mondiale restano un “unicum” da cui è impossibile prescindere.
Più consistente ci è parsa la sezione dedicata alle rappresaglie tedesche nel nostro paese, di cui Podda contesta la cifra “razziale” o “genocida”, come anche la loro funzionalità di monito nei confronti della popolazione civile; in realtà anche in questo caso è difficile trarre una considerazione univoca sui fatti di sangue che costellarono la ritirata tedesca in Italia, anche se, in molti casi, è ben visibile una connotazione compiutamente razziale, a partire dall’applicazione sul territorio nazionale di quelle che erano le norme applicate dalla Wehrmacht nella lotta alle bande sul fronte russo. Descrivere la guerra ai civili come una delle tante appendici alla guerra combattuta, banalizzarne gli esiti, come quando l’autore rileva che i bombardamenti alleati fecero il doppio di vittime civili (e perché non mettere nel conto pure le vittime di malattie epidemiche?) non ci sembra molto utile dal punto di vista euristico. Così come estrapolare singoli provvedimenti di clemenza, come quello di considerare nella primavera 1945 “prigionieri di guerra” i partigiani caduti in mano alle forze armate naziste, significa davvero stiracchiare la storia al fine di giustificare i propri assunti. Tra l’altro non viene considerato come questo preciso argomento fosse tra quelli alla base delle contemporanee trattative fra angloamericani e tedeschi per portare alla resa separata sul fronte italiano.
In conclusione troviamo la parte forse più interessante, ossia quella dedicata alle formazioni antipartigiane dell’esercito di Graziani, ossia RAP, RAU e Cacciatori degli Appennini; in una ben dettagliata narrazione (nella quale purtroppo non mancano alcuni svarioni, come quello di chiamare a più riprese Amilcare il generale Archimede Mischi) si dimostra in modo esaustivo come non soltanto le forze in camicia nera della GNR o del PFR fossero state protagoniste della guerra al movimento di liberazione, ma anche il cosiddetto “esercito apolitico” del maresciallo d’Italia, e ciò per precisa scelta di Benito Mussolini, primo assertore della “marcia contro la Vandea” che dà il titolo al volume.
Difficile dare un giudizio univoco sul volume, anche perché, pure per quest’ultima parte, sono disponibili nuovi e significativi apporti, come quello, in fase di pubblicazione, di Federico Ciavattone, dedicato in modo esclusivo al COGU, l’organismo destinato a coordinare l’intera attività antiribellistica dei reparti in grigioverde con il gladio sulle mostrine. Resta quindi la sensazione di un lavoro strutturato ma non sempre coerente, attraversato da una vis polemica che mina molta parte delle deduzioni presenti nell’opera.

mercoledì 27 febbraio 2013

Tedeschi, Italiani, buoni, cattivi

Il libro dei sogni

Marco Ansaldo, Il falsario italiano di Schindler, Milano, Rizzoli, 2012

Chi scrive queste note farebbe carte false per fare un libro come quello di Marco Ansaldo. Un vero e proprio “libro dei sogni”, fin dal suo incipit: proporre un progetto di ricerca – senza eccessivi dettagli – sui temi del genocidio ebraico a una casa editrice di fra le più note, vederselo approvato, comprese trasferte all’estero, vitto e alloggio incluso, rendersi conto che l’archivio consultato è in modo quasi esclusivo dedicato ai deportati nei lager nazisti (e non alla Shoah) e quindi, per allungare il brodo, aggiungere come riempitivo le vicende di altre persecuzioni naziste, alle quali, sempre allo scopo di raggiungere una dimensione che giustifichi la copertina cartonata, vengono giustapposte alcune storie di internati militari italiani; poi ritornare dalla Germania dopo qualche mese, consegnare un manoscritto e non preoccuparsi di fornire alcun apparato di note e vederselo pubblicare illico et immediate peraltro con discreto successo editoriale, tanto da consentire una seconda edizione nel giro di qualche settimana. Si potrebbe dire che questo giudizio può essere eccessivamente tranchant, trattandosi di opera di taglio giornalistico e non storico, ma leggendo il volume di Marco Ansaldo, in realtà, ci sembra di essere stati largamente indulgenti. La gita agli archivi tedeschi di Bad Arolsen, dove l’autore – bontà sua – sostiene di essere giunto praticamente per primo (alla faccia di chi, come Brunello Mantelli aveva frequentato questa parte dell’Assia da qualche lustro) si rivela una deludente rassegna di vicende note, talvolta incongruenti, spesso incomplete o comunque non documentate con le acquisizioni storiografiche più recenti, oppure riempite con studi editi da decenni, con l’unico filo conduttore delle “persecuzioni naziste”. Nulla di nuovo nemmeno per quanto riguarda le vicende narrate, se si esclude qualche spigolatura, come la radiografia dei denti di Boris Pahor, forse la cosa più incisiva che si rinviene in un testo sciapo e sostanzialmente superfluo.

La rivoluzione di Salò
Primo Siena, La perestroika dell’ultimo Mussolini, Chieti, Solfanelli, 2012

Il volume è una curiosa e in qualche modo interessante interpretazione del crepuscolo lacustre di Mussolini, ossia una stagione in cui le istanze più radicali (e balzane), represse o emarginate nel corso del ventennio, tornarono alla luce nel bailamme repubblichino. Mussolini, secondo l’autore (singolare figura di balilla di Salò e assieme intellettuale dalle non banali riflessioni storiografiche) lasciò che si avvicinassero ai gangli del potere dell’ultimo fascismo, le tendenze più disparate: ex sindacalisti rivoluzionari alla Pulvio Zocchi, i giovani contestatori del “movimento giovanile repubblicano”, i sacerdoti di oltranzista fede littoria riuniti attorno a Tullio Calcagno e i letterati come Edmondo Cione o Cipriano Efisio Oppo. Ciascuna di queste storie, non sempre approfondite a dovere in passato, viene ripercorsa con dettagli talvolta inediti; il volume si conclude con la storia della mai completata costituzione della RSI, argomento su cui si confrontarono i rancori di anziani liberali come Vittorio Rolandi Ricci, le evanescenti conoscenze giuridiche del giornalista Bruno Spampanato e il corporativismo integrale di Carlo Alberto Biggini. Furono redatte bozze, appunti, saggi, approfondimenti, che però giunsero sulla scrivania gardesana del duce senza produrre alcun effetto reale, anzi, forse convincendolo che l’unico fascismo di cui poteva in qualche modo fidarsi era quello oltranzista e sanguinario delle squadre d’azione e dei battaglioni della milizia rimastigli fedeli prima della sua caduta come dopo l’armistizio: il limite – insuperabile – di questi tentativi di perestroika gardesana, fu l’insormontabile velleitarietà di intenti rispetto alla realtà contingente. La RSI sopravviveva non per forza propria, ma per l’impegno diretto, militare e poliziesco, del Reich hitleriano e lo stesso Mussolini, come rivelato in tempi recenti dall’analisi del corposo carteggio con Clara Petacci, credeva poco o nulla alle acrobazie ideologiche dei propri gregari, mostrandosi spesso non solo scettico, ma annoiato e infastidito da queste manifestazioni di fede in limine mortis del regime. Come fosse compatibile il cruento epilogo della dittatura con i progetti di un parlamento elettivo, è difficile da comprendere, e in questo, purtroppo, servono a poco le riflessioni, comunque inedite, di Primo Siena.

Servilismo e altri racconti
Roberto Festorazzi, Caro duce ti scrivo, Milano, Ares, 2012

Ragionato su una realtà storica di un certo interesse e spesso oscurata, ossia le lacrimose missive che i riverniciati antifascisti post 1945 scrissero direttamente alla segreteria di Mussolini nel corso del ventennio, il volume di Festorazzi ha il difetto di perdersi strada facendo. E’ un peccato, perché le prime pagine del volume, riguardanti l’ondivago atteggiamento di Arturo Labriola, Filippo Turati e Guido Miglioli, risultano di un certo interesse, specie per coloro che su queste figure hanno svolto negli scorsi decenni ricerche tanto intensive quanto attente a sbianchettare tutto ciò che non avesse pertinenza con la più adamantina opposizione al regime. Emergono così una sequela di poco dignitose suppliche al fine di ottenere sussidi e raccomandazioni, lettere mandate da mogli all’insaputa (?) dei mariti e rivendicazioni indispettite della propria fedeltà alla camicia nera a fronte di accuse di tiepidezza verso la dittatura: nulla di nuovo, si dirà. A chi scrive fa comunque un certo effetto non tanto il tono servile di molti scritti, quanto la solerzia degli allievi di questi maestri dai dubbi trascorsi, nel cercare di oscurare le prove della compromissione con l’uomo del fatidico balcone, quasi che si sentisse la necessità nel dopoguerra di fornire una verità ad hoc, "senza se e senza ma", a prova di qualsiasi polemica politica. Purtroppo il volume si perde nelle ultime pagine, che sono una sorta di appendice a un precedente studio di Festorazzi, dedicato al complesso rapporto fra Alberto Moravia e i fratelli Carlo e Nello Rosselli, cugini dello scrittore: un legame dalle molte sfaccettature fuorché quella dell’affetto, come si deduce non solo dal comportamento di Moravia prima e subito dopo l’assassinio di questi protagonisti dell’antifascismo italiano, ma anche da alcune collaborazioni alquanto sorprendenti con i peggiori periodici della destra francese come il “Je suis partout” di Robert Brasillach, che pubblicò a più riprese diverse opere e racconti dell’autore de Gli indifferenti. Per questa e altre spigolature, Festorazzi non offre però una adeguata documentazione, lasciando quindi il lettore a districarsi fra supposizioni e illazioni. Ci dispiace, perché le riflessioni critiche, se supportate in modo solido e concreto, sono sempre uno stimolo per ulteriori approfondimenti della ricerca scientifica. O almeno dovrebbero esserlo.

La svastica come capro espiatorio
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Bari, Laterza, 2012

Il meccanismo che portò all'auto-assoluzione collettiva della nostra nazione per i crimini commessi nel corso della seconda guerra mondiale fu lungo, complesso e non sempre lineare; Filippo Focardi, con bravura, riesce a narrare la stratificazione di questo processo, partendo dalla propaganda angloamericana che iniziò fin dal 1940 a imbastire il "mito" del popolo buono tradito e portato in guerra da Mussolini e Hitler. Questa tematica fu poi affiancata del tema del "riscatto nazionale" nel corso della guerra di liberazione, durante la quale peraltro era già possibile vedere tutte le future contraddizioni che attraversavano non soltanto il movimento partigiano, ma le nostre forze armate, le quali non di rado avevano ai propri vertici nella guerra contro i tedeschi gli stessi comandanti che avevano condotto la guerra di aggressione nei Balcani e la successiva repressione antipartigiana. I nodi vennero al pettine subito dopo, con la richiesta di estradizione dei presunti criminali di guerra italiani da parte della Jugoslavia e delle altre nazioni che avevano subito la violenza del nostro esercito, non ultime le ex colonie africane. Fu quindi giocoforza di tutte o quasi le formazioni politiche e dell'establishment militare, affiancato dai media, dai libri e dal cinema, dipingerci come vittima di un equivoco: eravamo sì stati occupanti, ma "alla buona", non crudeli come gli alleati nazisti, tanto cattivi in Italia quanto all'estero, e di cui la letteratura forniva disumanizzate rappresentazioni. Ciò che lascia stupefatti, nell'attenta analisi che l'autore pone alla cronologia di questi eventi, è la persistenza di questo modello, che nei primi anni '60 aveva le peculiarità che - bene o male - si possono riscontrare ancora oggi: esemplari in questo le somiglianze fra i soldati di Italiani brava gente di Giuseppe de Santis (1965) e quelli di Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1989). Le "stecche" in questo coro sono state pochissime, tanto è vero che i pionieristici studi di Enzo Collotti sull'occupazione italiana in Jugoslavia sono rimasti "rara avis" per decenni. Solo recentemente, grazie anche a una nuova generazione di studiosi (e agli stimoli provenienti dalle ricerche di autori stranieri) questo mito si è sgretolato, offrendoci una realtà frastagliata, spesso sgradevole, con la quale però è necessario fare i conti senza ulteriori dilazioni. Siamo grati a Focardi di aver steso le proprie riflessioni in modo chiaro e documentato, lasciando agli studiosi un utile strumento per ulteriori indagini.