martedì 29 ottobre 2013

settembre 1943 - settembre 2013

La babele delle voci
Paolo Sorcinelli, Otto settembre, Milano, Bruno Mondadori, 2013

Il rischio delle ricerche basate sulle memorie di coloro che attraversarono i momenti cruciali della nostra storia, è quello di sortire una specie di effetto “piazza del mercato”: un insieme indistinto di voci che si rincorrono, e sulle quali ogni tanto si levano gli strilli dei venditori. Sorcinelli, sia pure con l’abilità del mestiere, cerca di trarre una morale da questa confusione, purtroppo con scarso esito, almeno secondo noi. Dimostrare che la maggioranza del paese avesse un comune sentire antinazista o fosse fermamente intenzionata a difendere in armi l’integrità della nazione, è secondo noi del tutto aleatorio se ci si basa soltanto sui frammenti della memoria di ufficiali e soldati, piuttosto che impiegati o operai; la lettura del volume risulta così talvolta piacevole e altrove invece piuttosto lenta e frammentaria, a seconda di chi viene scelto per mettere in evidenza le tesi dell’autore. Il limite della scrittura è quello poc’anzi riportato: una specie di “juke box” in cui Sorcinelli va a pescare, di volta in volta, le tesi che paiono maggioritarie, o minoritare. E per dipingere lo sfondo, in una sorta di piuttosto monotono basso continuo, troviamo due riferimenti che dall’inizio alla fine dello studio sono di continuo citati e interpellati: le memorie dell’imprenditore piemontese Carlo Chevallard e della benestante proprietaria terriera anglosenese Iris Origo, le quali, per ben scritte e articolate, sono solo una parte del grande puzzle nazionale, e, secondo noi, nemmeno quella più interessante. Il resto è un affastellarsi di esperienze che davvero poco aggiungono a quanto già si conosce sul quel tragico passaggio obbligato della nostra storia nazionale; tralasciamo qui di aggiungere che in diverse parti del testo si trovano testimonianze romanzate e non sempre attendibili, su tutte quella del futuro federale della tetra Milano repubblichina, Vincenzo Costa, che pure è riportata nell’ultima di copertina. Il lavoro di Sorcinelli risulta quindi buono nelle intenzioni e nei propositi, ma non sempre all’altezza di quelli che erano gli obiettivi dell’autore.

Immagini del disastro
Marco Gasparini, 8 settembre 1943, Torino, Capricorno, 2013

La storia per immagini del 1943 non è un soggetto inedito; in passato autori accurati come Silvio Bertoldi, Adolfo Mignemi o Giovanni de Luna si sono soffermati su questo soggetto. Il lavoro di Gasparini ha però alcuni dettagli che ci sono comunque sembrati interessanti, o addirittura inediti. I civili italiani hanno ovunque un immagine deperita e cenciosa: il corteo festante per le vie di Milano dopo l’annuncio della caduta del regime è significativo; sono tutti ragazzi giovani o giovanissimi (le classi più adulte erano ovviamente di leva), con un operaio, forse un muratore, in una tuta da lavoro e con ai piedi delle approssimative “espadrillas”, che fanno emergere tutto fuorché una sensazione di sicurezza, specie se, come pare, si tratta di un carpentiere addetto a qualche ponteggio. La vista in primo piano della nuca del generale Castellano intento a firmare a Cassibile la nostra resa senza condizioni, rivela un inquietante “riporto”, impietosamente messo in luce dall’abbondante uso di brillantina, degna cornice di un mondo destinato a concludersi vergognosamente nel giro di una settimana; l’ufficiale americano al fianco potrebbe invece essere uno qualsiasi dei militari a stelle e strisce impegnato oggi in Afghanistan o altrove, tanto appare moderno nell’espressione e nell’abbigliamento, così come “guerrieri” ci appaiono i parà tedeschi che combattono contro il regio esercito a Roma, con i terribili scarponcini di cartone e le fasce mollettiere. E infine un documento che non avevamo mai visto prima, ossia la pagina su cui Mussolini, in Germania, mise per iscritto la nascita della repubblica sociale, stilando cinque ordini del giorno “del regime” (sic); la scrittura nervosa del duce, che pone le basi alla guerra civile su un foglio quadrettato ha qualcosa di inquietante e assieme rivelatore: al punto n. 2 il segretario provvisorio del rinato partito fascista è inserito con una postilla a “v”, perché evidentemente non presente nella frettolosa redazione. Il nome di Alessandro Pavolini è posticcio: forse davvero il duce non aveva trovato di meglio…

Settembre silenzioso
Gianni Oliva, L’Italia del silenzio, Milano, Mondadori, 2013

La riflessione di Gianni Oliva sull’armistizio, finisce giustamente per allargarsi a una riflessione più generale sull’eredità di storia e memoria della resistenza italiana, e sull’influsso che questa pagina di storia ha avuto per costruire una sorta di grande “autoassoluzione generale”, per impedire a ciascuno di noi di riflettere su vent’anni di dittatura prima subita e poi in qualche modo partecipate; l’autore, in questo volume riflette in termini tutt’altro che banali sui giudizi storici che l’armistizio ha finito per esprimere: la fine del regno d’Italia, che ebbe qualche spasmo di vitalità nei mesi successivi, ma la cui fine fu decretata dall’abbandono di Roma da parte di Vittorio Emanuele e di Pietro Badoglio; la difficile risalita della “nuova Italia” che nacque dalla rivolta contro gli occupanti tedeschi, in un paese dilaniato dalla guerra civile, scontro fratricida animato da minoranze tanto decise e convinte nel proprio agire, quanto circondate da una società che in ogni modo era animata da un unico obiettivo, ossia sopravvivere alla bufera del conflitto; in ultimo resta il giudizio tranciante che quelle vicende suscitarono nei nostri interlocutori esteri, i quali bollarono il nostro paese con giudizi tutt’oggi difficili da superare, come la nostra generale inaffidabilità o la tendenza tutta nostrana di schierarsi dalla parte del più forte. Per il “combinato disposto” di tutti questi motivi, e nonostante lo sforzo (specie degli storici “embedded” del marxismo nostrale) di trasformare il 25 aprile in una giornata di memoria nazionale, la parentesi della guerra in casa, della guerra civile e della lotta di classe di quei mesi è diventato, col passare del tempo, uno dei tanti appuntamenti istituzionali, non diverso dal 2 giugno o dall’ancor meno sentito 4 novembre. La scarsa o nulla eco nel dibattito pubblico delle ricorrenze relative al 70° dell’armistizio parla a volumi di questa noncuranza nazionale, che solo i ciechi (ideologici) non vedono. La realtà, a parer nostro ben individuata da Oliva, è che dopo settant’anni l’unico esito concreto di quel pezzo di storia patria, è stato, oggi più che mai, l’incapacità di fare i conti con noi stessi.