lunedì 24 ottobre 2016

tribunali di guerra e tribunali della storia

Da uno stereotipo all’altro?
Massimo Castoldi (a cura di), 1943-1945 I bravi e i cattivi, Milano, Donzelli, 2016

La raccolta di saggi su fascismo e nazismo curata da Massimo Castoldi, se da un lato presenta un interessante confronto fra esperienze diverse di promozione della memoria storica in Italia e in Germania, dall’altro lascia al lettore una sensazione abbastanza sconfortante: sembra infatti che si sia passati da una visione edulcorata e autoassolutoria del “buon italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” a una rappresentazione delle nostre forze armate squilibrata in senso opposto, ossia come rapaci strumenti offensivi ai danni popolazioni inermi e pacifiche. Certamente la Germania degli ultimi decenni, specie nel periodo post unificazione, rappresenta un modello europeo a cui fare riferimento per proporre gli snodi del proprio ingombrante passato, come si legge nelle riflessioni di Thomas Altmeyer; detto questo, a parer nostro, occorrerebbe iniziare a spostare il dibattito italiano oltre le posizioni rappresentate da Filippo Focardi, perché il paragone fra due organizzazioni militari totalmente diverse, come la Wehrmacht e l’esercito regio, non regge. Esistono a parer nostro punti di unione, ma anche radicali differenze, forse invece non abbastanza sottolineate da coloro che insistono nel parlare di congiura del silenzio sui crimini fascisti. A settanta anni dalla fine della guerra, inoltre, pare incredibile come non esistano studi comparati fra il comportamento dei nostri soldati e gli altri che combatterono sotto le bandiere dell’Asse, come ungheresi e romeni, entrambe potenze occupanti sia nei Balcani che in Urss. Raoul Pupo, fortunatamente, raddrizza la rotta del volume, confermando la necessità di un approccio che prenda atto di articolazioni non lineari, specie quando esistono memorie conflittuali stratificate addirittura da secoli, come nel caso del litorale adriatico; la complessità, peraltro, è la chiave di lettura del contributo redatto da Luigi Ganapini, dedicato al ricordo dell’armistizio nella diaristica italiana, da cui emerge lo sbando di tutti coloro che si trovarono ad affrontare il collasso della nazione: dipingere oggi con i toni del bianco e nero una stagione che fu poco comprensibile per gli attori che la affrontarono in prima persona, a parere nostro, è un esercizio abbastanza sterile di “senno del poi”. Paolo Jedlowski torna infine sul refrain del volume, insistendo nuovamente sulle nostre difficoltà di auto rappresentazione, questa volta in ambito cinematografico, riesumando vicende notissime come quella del progetto per il film “l’armata s’agapò” censurato dai vertici delle nostre forze armate negli anni ’50. Siamo invece nell’anno di grazia 2016, stagione in cui in Estonia sono prodotte e dirette pellicole in cui le Waffen SS baltiche sono “i buoni” e i russi sono “i cattivi”; non è necessario arrivare a questi eccessi, ma forse una analisi un po’ meno annebbiata ideologicamente sarebbe più utile. Fermo restando che le foibe non erano “cosiddette” come sostiene Focardi.

Un libro un perchè
Alberto Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano, Bari, Laterza, 2016

Difficile capire le ragioni di questo volume, che, nel tono e nella forma pare un manuale sull’argomento dei crimini di guerra italiani, ma che lascia perplessi per la superficialità con cui l’autore affronta un argomento così complesso, sul quale si sono soffermati, con ben altri risultati, diversi studiosi scientifici in tempi recenti. L’analisi parte dalla fine del XIX secolo, che viene affrontato solo di passata con scarsi accenni, per arrivare al primo conflitto mondiale e alle nostre guerre coloniali, sulle quali Alberto Stramaccioni spende qualche parola in più, peraltro sempre facendo riferimento a testi noti, e non tutti appartenenti alla storiografia scientifica più recente. La parte principale del lavoro è incentrata, infine, sul secondo conflitto mondiale e sulla successiva vicenda dell’“armadio della vergogna” eventi per i quali – finalmente – troviamo un approfondimento un po’ più dettagliato. Detto questo, e nonostante una bibliografia sostanziosa, i giudizi espressi dall’autore sono discutibili: pare che la guerra fredda, durante la quale si svolsero tutte le vicende narrate, dalla cosiddetta “mancata Norimberga italiana” fino all’archiviazione provvisoria dei fascicoli sui crimini di guerra tedeschi, sia stata combattuta solo dagli USA contro l’Unione sovietica, quando invece fu uno spietato conflitto ideologico durante il quale furono commesse ingiustizie e soprusi da ambo le parti in causa. Con una sostanziale differenza: sia pure con episodi non commendevoli, come il tacito accordo fra Germania e Italia per “dimenticare” i reati commessi nel corso dell’occupazione nazista, i paesi dell’Europa occidentale furono democrazie in cui lo stato di diritto era pienamente riconosciuto. Lo stesso non si poteva di dire della Jugoslavia di Tito, che se da un lato chiedeva la consegna dei nostri criminali di guerra, dall’altro non era in grado di garantire un processo equo e una difesa efficace agli imputati; L’autore dimentica di annotare che fra il 1946 e il 1950 furono celebrati i processi relativi ad una dozzina alti ufficiali dell’esercito ungherese e tedesco (per non parlare di quelli ai vertici del collaborazionismo croato e sloveno), i quali si conclusero in modo spiccio e tutti con condanne alla pena capitale, eseguite immediatamente. Insomma, a parer nostro non era possibile che le cose potessero andare diversamente da come sono andate, visto che – per fortuna – ci trovavamo dal lato giusto della cortina di ferro. In conclusione ci troviamo di fronte a un lavoro deludente, che propone in modo tutt’altro che originale tesi conosciute da oltre un decennio e che lascia al lettore un fondo di amarezza nel constatare come agli “altri” crimini di guerra, ossia quelli commessi nel nostro paese dalle potenze vincitrici, siano liquidati in una riga e nell’ultima pagina del volume.

Giudici nella RSI
Samuele Tieghi, Le corti marziali di Salò, Sestri, Oltre edizioni, 2016


Il volume di Tieghi è davvero un lavoro ben fatto e documentato, che illumina in modo chiaro ed esaustivo, la vicenda della giustizia nella repubblica di Salò, confermando come le linee di continuità fra forze armate regie e repubblichine fossero tutt’altro che marginali o ininfluenti. I giudici in divisa studiati nel lavoro, infatti, passarono in modo naturale dalle corti del re, a quelle del duce, e, in qualche caso, a quelle della attuale democrazia, operando su codici rimasti praticamente immutati per più di un secolo. Tieghi, in una introduzione ampia e interessante, approfondisce il ruolo della giustizia militare, argomento sul quale esistono studi buoni, ma ormai datati, e di come nel corso del secondo conflitto mondiale si fosse ampliato in modo abnorme il ricorso ai magistrati in grigioverde, specie per i reati commessi dai civili militarizzati, ossia i lavoratori delle industrie considerate strategiche ai fini dello sforzo bellico del regime fascista. Dopo la caduta di Mussolini, invece che diminuire, le sentenze dei tribunali militari subirono una ulteriore impennata, tanto da lasciare incredibilmente centinaia di fascicoli aperti, specie nelle grandi città del nord Italia, successivamente arrivati sulle scrivanie degli ufficiali che avevano messo il gladio al posto delle stellette sulle mostrine. Le biografie di questi, quasi tutti elementi che avevano esperienze di lungo corso nei ruoli della giustizia militare, sono di notevole interesse soprattutto perché indistinguibili dai colleghi che decisero di proseguire la guerra sotto le bandiere del re e di Pietro Badoglio. Pochi si mostrarono entusiasti della svolta estremista di Rodolfo Graziani, caratterizzata dalla parificazione fra “renitenza” e “diserzione davanti al nemico”, decisione che portò decine di giovani davanti ai plotoni di esecuzione; allo stesso tempo praticamente nessuno si dimise dalle proprie funzioni, preferendo alla resistenza attiva una forma di opposizione passiva, fatta di lungaggini burocratiche tramite le quali solo in casi rari si giunse ad infliggere la pena capitale. Va detto che nel volume si affronta soprattutto la vicenda del tribunale militare regionale con sede a Milano, per il quale Tieghi ha studiato la maggior parte della documentazione disponibile. A quanto risulta furono purtroppo diversi i comportamenti degli ufficiali in altre regioni del nord, e quello dei giudici dei tribunali delle quattro divisioni addestrate in Germania, o dei reparti speciali che si occupavano della guerriglia antipartigiana, i quali emanarono sentenze di morte a fronte di procedimenti farseschi. Il dopoguerra, segnato da amnistie particolarmente generose per i vertici della RSI, non ha poi permesso di distinguere i meriti e le colpe dei giudici con il gladio sul bavero. In conclusione Samuele Tieghi ci lascia un lavoro indispensabile sul tema dei tribunali di Mussolini, e uno dei migliori degli ultimi anni sulla giustizia militare.