Da uno stereotipo all’altro?
Massimo Castoldi (a cura di), 1943-1945 I bravi e i cattivi, Milano,
Donzelli, 2016
La raccolta di saggi su fascismo
e nazismo curata da Massimo Castoldi, se da un lato presenta un interessante
confronto fra esperienze diverse di promozione della memoria storica in Italia
e in Germania, dall’altro lascia al lettore una sensazione abbastanza
sconfortante: sembra infatti che si sia passati da una visione edulcorata e
autoassolutoria del “buon italiano” contrapposto al “cattivo tedesco” a una rappresentazione
delle nostre forze armate squilibrata in senso opposto, ossia come rapaci
strumenti offensivi ai danni popolazioni inermi e pacifiche. Certamente la
Germania degli ultimi decenni, specie nel periodo post unificazione, rappresenta
un modello europeo a cui fare riferimento per proporre gli snodi del proprio
ingombrante passato, come si legge nelle riflessioni di Thomas Altmeyer; detto
questo, a parer nostro, occorrerebbe iniziare a spostare il dibattito italiano
oltre le posizioni rappresentate da Filippo Focardi, perché il paragone fra due
organizzazioni militari totalmente diverse, come la Wehrmacht e l’esercito
regio, non regge. Esistono a parer nostro punti di unione, ma anche radicali
differenze, forse invece non abbastanza sottolineate da coloro che insistono
nel parlare di congiura del silenzio sui crimini fascisti. A settanta anni
dalla fine della guerra, inoltre, pare incredibile come non esistano studi
comparati fra il comportamento dei nostri soldati e gli altri che combatterono
sotto le bandiere dell’Asse, come ungheresi e romeni, entrambe potenze
occupanti sia nei Balcani che in Urss. Raoul Pupo, fortunatamente, raddrizza la
rotta del volume, confermando la necessità di un approccio che prenda atto di
articolazioni non lineari, specie quando esistono memorie conflittuali
stratificate addirittura da secoli, come nel caso del litorale adriatico; la
complessità, peraltro, è la chiave di lettura del contributo redatto da Luigi
Ganapini, dedicato al ricordo dell’armistizio nella diaristica italiana, da cui
emerge lo sbando di tutti coloro che si trovarono ad affrontare il collasso
della nazione: dipingere oggi con i toni del bianco e nero una stagione che fu
poco comprensibile per gli attori che la affrontarono in prima persona, a
parere nostro, è un esercizio abbastanza sterile di “senno del poi”. Paolo
Jedlowski torna infine sul refrain del volume, insistendo nuovamente sulle
nostre difficoltà di auto rappresentazione, questa volta in ambito
cinematografico, riesumando vicende notissime come quella del progetto per il
film “l’armata s’agapò” censurato dai vertici delle nostre forze armate negli
anni ’50. Siamo invece nell’anno di grazia 2016, stagione in cui in Estonia sono
prodotte e dirette pellicole in cui le Waffen SS baltiche sono “i buoni” e i
russi sono “i cattivi”; non è necessario arrivare a questi eccessi, ma forse
una analisi un po’ meno annebbiata ideologicamente sarebbe più utile. Fermo
restando che le foibe non erano “cosiddette” come sostiene Focardi.
Un libro un perchè
Alberto Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso
italiano, Bari, Laterza, 2016
Difficile capire le ragioni di
questo volume, che, nel tono e nella forma pare un manuale sull’argomento dei
crimini di guerra italiani, ma che lascia perplessi per la superficialità con
cui l’autore affronta un argomento così complesso, sul quale si sono soffermati,
con ben altri risultati, diversi studiosi scientifici in tempi recenti. L’analisi
parte dalla fine del XIX secolo, che viene affrontato solo di passata con
scarsi accenni, per arrivare al primo conflitto mondiale e alle nostre guerre
coloniali, sulle quali Alberto Stramaccioni spende qualche parola in più,
peraltro sempre facendo riferimento a testi noti, e non tutti appartenenti alla
storiografia scientifica più recente. La parte principale del lavoro è
incentrata, infine, sul secondo conflitto mondiale e sulla successiva vicenda dell’“armadio
della vergogna” eventi per i quali – finalmente – troviamo un approfondimento
un po’ più dettagliato. Detto questo, e nonostante una bibliografia
sostanziosa, i giudizi espressi dall’autore sono discutibili: pare che la
guerra fredda, durante la quale si svolsero tutte le vicende narrate, dalla
cosiddetta “mancata Norimberga italiana” fino all’archiviazione provvisoria dei
fascicoli sui crimini di guerra tedeschi, sia stata combattuta solo dagli USA
contro l’Unione sovietica, quando invece fu uno spietato conflitto ideologico durante
il quale furono commesse ingiustizie e soprusi da ambo le parti in causa. Con
una sostanziale differenza: sia pure con episodi non commendevoli, come il
tacito accordo fra Germania e Italia per “dimenticare” i reati commessi nel
corso dell’occupazione nazista, i paesi dell’Europa occidentale furono
democrazie in cui lo stato di diritto era pienamente riconosciuto. Lo stesso
non si poteva di dire della Jugoslavia di Tito, che se da un lato chiedeva la
consegna dei nostri criminali di guerra, dall’altro non era in grado di
garantire un processo equo e una difesa efficace agli imputati; L’autore dimentica
di annotare che fra il 1946 e il 1950 furono celebrati i processi relativi ad
una dozzina alti ufficiali dell’esercito ungherese e tedesco (per non parlare
di quelli ai vertici del collaborazionismo croato e sloveno), i quali si
conclusero in modo spiccio e tutti con condanne alla pena capitale, eseguite
immediatamente. Insomma, a parer nostro non era possibile che le cose potessero
andare diversamente da come sono andate, visto che – per fortuna – ci trovavamo
dal lato giusto della cortina di ferro. In conclusione ci troviamo di fronte a
un lavoro deludente, che propone in modo tutt’altro che originale tesi
conosciute da oltre un decennio e che lascia al lettore un fondo di amarezza
nel constatare come agli “altri” crimini di guerra, ossia quelli commessi nel
nostro paese dalle potenze vincitrici, siano liquidati in una riga e
nell’ultima pagina del volume.
Giudici nella RSI
Samuele Tieghi, Le corti marziali di Salò, Sestri, Oltre
edizioni, 2016
Il volume di Tieghi è davvero un
lavoro ben fatto e documentato, che illumina in modo chiaro ed esaustivo, la
vicenda della giustizia nella repubblica di Salò, confermando come le linee di
continuità fra forze armate regie e repubblichine fossero tutt’altro che
marginali o ininfluenti. I giudici in divisa studiati nel lavoro, infatti,
passarono in modo naturale dalle corti del re, a quelle del duce, e, in qualche
caso, a quelle della attuale democrazia, operando su codici rimasti
praticamente immutati per più di un secolo. Tieghi, in una introduzione ampia e
interessante, approfondisce il ruolo della giustizia militare, argomento sul
quale esistono studi buoni, ma ormai datati, e di come nel corso del secondo
conflitto mondiale si fosse ampliato in modo abnorme il ricorso ai magistrati in
grigioverde, specie per i reati commessi dai civili militarizzati, ossia i
lavoratori delle industrie considerate strategiche ai fini dello sforzo bellico
del regime fascista. Dopo la caduta di Mussolini, invece che diminuire, le
sentenze dei tribunali militari subirono una ulteriore impennata, tanto da
lasciare incredibilmente centinaia di fascicoli aperti, specie nelle grandi
città del nord Italia, successivamente arrivati sulle scrivanie degli ufficiali
che avevano messo il gladio al posto delle stellette sulle mostrine. Le
biografie di questi, quasi tutti elementi che avevano esperienze di lungo corso
nei ruoli della giustizia militare, sono di notevole interesse soprattutto
perché indistinguibili dai colleghi che decisero di proseguire la guerra sotto
le bandiere del re e di Pietro Badoglio. Pochi si mostrarono entusiasti della
svolta estremista di Rodolfo Graziani, caratterizzata dalla parificazione fra
“renitenza” e “diserzione davanti al nemico”, decisione che portò decine di
giovani davanti ai plotoni di esecuzione; allo stesso tempo praticamente
nessuno si dimise dalle proprie funzioni, preferendo alla resistenza attiva una
forma di opposizione passiva, fatta di lungaggini burocratiche tramite le quali
solo in casi rari si giunse ad infliggere la pena capitale. Va detto che nel
volume si affronta soprattutto la vicenda del tribunale militare regionale con
sede a Milano, per il quale Tieghi ha studiato la maggior parte della
documentazione disponibile. A quanto risulta furono purtroppo diversi i comportamenti
degli ufficiali in altre regioni del nord, e quello dei giudici dei tribunali
delle quattro divisioni addestrate in Germania, o dei reparti speciali che si
occupavano della guerriglia antipartigiana, i quali emanarono sentenze di morte
a fronte di procedimenti farseschi. Il dopoguerra, segnato da amnistie
particolarmente generose per i vertici della RSI, non ha poi permesso di
distinguere i meriti e le colpe dei giudici con il gladio sul bavero. In
conclusione Samuele Tieghi ci lascia un lavoro indispensabile sul tema dei
tribunali di Mussolini, e uno dei migliori degli ultimi anni sulla giustizia
militare.