domenica 24 luglio 2016

militare a Salò

Il fascio, la svastica, il sangue
Massimo Storchi, Anche contro donne e bambini, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016

La provincia di Reggio Emilia conobbe nel corso dell’occupazione tedesca una sequenza terribile di episodi sanguinosi causati da nazisti e fascisti, con modalità, ragioni e strategie diverse, e il comune denominatore di essere diretti contro gli indifesi: vecchi, donne, bambini, sacerdoti e, in genere, cittadini disarmati. Nell’analisi puntuale e documentata di Storchi, si resta stupiti dalla ferocia senza freno dei nazifascisti sulle cui motivazioni l’autore si sofferma cercando di cogliere in ciascuno degli episodi narrati un nesso causa-effetto: impresa che si rivela non facile, vista l’eterogeneità delle truppe coinvolte negli episodi di sangue, e la differente prospettiva con cui i leader politici e militari della RSI e le unità della Wehrmacht conducevano la guerra contro il movimento di liberazione: i fascisti fin da subito misero in atto un modello punitivo rivolto ormai non più e non solo verso gli oppositori veri o presunti, ma verso l’intera popolazione, considerata in modo generalizzato nemica della repubblica di Mussolini. Dal sanguinario prefetto Enzo Savorgnan, responsabile delle fucilazioni avvenute nell’inverno 1943-44 fino allo spietato comandante della III brigata nera mobile Franz Pagliani, tragico protagonista a Reggiolo ormai alla vigila della fine della guerra, la sparuta compagine delle camicie nere cercò di acquisire invano credibilità e rispetto seminando terrore a piene mani, in modo giudicato estremo e irragionevole dagli stessi vertici del governo fascista. Diverso il discorso per i tedeschi, i quali replicarono in territorio reggiano lo stesso copione visto in altre aree del centro e nord Italia: nella primavera-estate 1944 reparti scelti per la bandenkampf condussero una serie di rastrellamenti senza riguardo o divisione fra partigiani armati, disarmati o semplici civili. Nell’autunno-inverno 1944 il lavoro “sporco” fu condotto dall’intelligence nazista, presso la scuola di lotta alle bande di Ciano d’Enza: una violenza “chirurgica” che lasciò però nuovamente posto alle esecuzioni esemplari lungo le strade reggiane ancora nel febbraio e marzo 1945. Solo qualcuno dei colpevoli fu processato a guerra finita, e nessuno di parte nazista: i primi nomi tedeschi verranno alla luce solo dopo l’apertura degli armadi a Palazzo Cesi, ossia fuori tempo massimo per colpire gli assassini e i loro complici. Il volume lascia poco spazio alla stagione delle violenze postbelliche, anche se non mancano le narrazioni di episodi sanguinosi avvenuti in vari luoghi della provincia nel corso del 1945; è questo l’unico “peccato veniale” di uno studio altresì pregevole ed equilibrato.

Donne violente
Cecilia Nubola, Fasciste di Salò, Bari, Laterza, 2015

E’ possibile ridurre la vicenda del volontarismo femminile nella RSI narrando le storie giudiziarie di una ventina di autentiche criminali, alcune delle quali con tratti di psicopatia? Secondo l’autrice evidentemente sì, ed è vano cercare nell’indagine un legame fra l’adesione di molte giovani e giovanissime all’ultimo fascismo e il grand guignol di torturatrici, spie e assassine ritratte tratteggiate nel volume. Un argomento così complesso e articolato avrebbe dovuto e potuto meritare attenzioni maggiori, o quantomeno una analisi più cauta, specie alla luce della bibliografia edita nell’ultimo ventennio; purtroppo Cecilia Nubola sceglie invece la strada opposta, quella della “damnatio memoriae” e ci propone una carrellata di aguzzine con almeno due scopi evidenti: la condanna senza appello per le donne fasciste e per il ruolo della donna nella repubblica di Mussolini (relegata a meri compiti assistenziali) e l’accusa di eccessiva indulgenza della giustizia postbellica nei confronti delle recluse per reati politici. Scorrendo senza pretesa di completezza i casi esposti dalla ricercatrice, in realtà ci si trova di fronte, più che al paradigma della militanza femminile in camicia nera, ad una sfilata di devianze patologiche: figlie di torturatori a loro volta rastrellatrici e seviziatrici, amanti di fascisti e delatrici per motivi di rivalsa sociale o politica, per finire con alcune allogene di lingua tedesca che incitavano a Merano alla strage di italiani ormai a guerra finita, come vendetta per la sconfitta imminente e odio verso il nostro paese. In realtà chiunque si sia avvicinato all’argomento, o alle testimonianze di chi ha partecipato a quella esperienza estrema in età giovanile (talvolta adolescenziale) sa che il tema della violenza dovrebbe essere quantomeno declinato fra violenza inferta e subìta, mentre nel lavoro della Nubola non c’è traccia di violenza partigiana, ne’ durante ne’ (soprattutto) dopo il termine della guerra. Il ricordo delle sevizie, spesso a sfondo sessuale, è invece una costante delle testimonianze delle ausiliarie di Salò, diverse delle quali furono in grado di raccontare quegli eventi solo a distanza di decenni. Chi scrive non intende fare rivalsa storica di alcun tipo, o disegnare santini a fini nostalgici o reducistici; però far credere che l’adesione all’ultimo scampolo dell’avventura mussoliniana sia stato un fenomeno irrisorio che coinvolse ristretto gruppo di erinni, con l’intero popolo italiano sulle barricate per la democrazia e la libertà ci pare davvero superficiale e sbagliato.  

Un tradizionalista a Salò
Gianfranco de Turris, Julius evola un filosofo in guerra, Milano, Mursia, 2016-07-19



Il 20 luglio 1944, Julius Evola era presente a Rastenburg all’ultimo incontro fra Hitler e Mussolini, avvenuto immediatamente dopo l’attentato di Klaus Stauffenberg? Partiamo da questo quesito, uno dei tanti presenti nel volume di Gianfranco de Turris dedicato al filosofo tradizionalista e al suo tormentato percorso durante gli ultimi mesi della seconda guerra mondiale. Il volto misterioso che si intravede nella foto di copertina del volume non è però quello di Evola, come immaginato dall’autore, bensì dell’interprete ufficiale nei meeting fra i dittatori, ossia Eugen Dollmann, come si può osservare nel Wochenschau n. 735/1944. La foto, infatti è un fotogramma del cinegiornale e la scena prosegue con Hitler che va incontro ad alcuni operai che lo salutano calorosamente. Se questo è un enigma risolto (anche se non nel senso ipotizzato da de Turris) ci sono molti altri lati oscuri della vicenda del filosofo che vengono finalmente illuminati nella ricerca: la presenza, questa sì accertata, sempre a Rastenburg nel settembre 1943, assieme ad altri gerarchi fascisti fuggiti in Germania dopo il 25 luglio, all’atto della liberazione di Mussolini, il successivo ritorno a Roma dove operò in collaborazione con i servizi nazisti alla creazione di una rete “stay behind” a favore dell’Asse, e successivamente la presenza a Vienna nell’inverno 1944-45. Qui Evola restò ferito a causa di un bombardamento e fu successivamente ricoverato in clinica nella località termale di Bad Ischl dal 1945 al 1947, al suo rientro in Italia, fatto salvo un periodo trascorso a Budapest, durante 1946, nel tentativo di recuperare la funzionalità degli arti inferiori. Ora, quest’ultimo itinerario, che appare accertato, apre però altri interrogativi, iniziando con uno magari banale, ma non secondario: chi pagò la degenza? chi fornì i documenti falsi in possesso del filosofo? Come fece Evola, in piena occupazione dell’armata rossa, a superare la frontiera fra Austria e Ungheria (andata e ritorno) senza destare sospetti e a rimanere nella capitale magiara per diversi mesi? L’amicizia con la famiglia del filosofo austriaco Othmar Spann è cosa certa, ma ci pare riduttiva per spiegare una così lunga e complessivamente serena permanenza in zone dove i servizi alleati e sovietici erano in costante ricerca di collaborazionisti di ogni ordine e tipo. Confidiamo che l’autore possa tornare sull’argomento, perché come in un vaso di Pandora, la risposta ad alcuni enigmi ha finito per crearne altri.