domenica 18 dicembre 2011

XIX-XX secolo. Italia, Europa.

ALCUNI BUONI VOLUMI PER LE VOSTRE STRENNE...



Tutto un altro meridione



Sergio di Giacomo, Il sud del console Goodwin, Roma, Aracne, 2010






E’ pur vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”; resta il fatto che nel momento in cui ci si imbatte nelle descrizioni di chi ebbe incarichi di rappresentanza diplomatica nel Mezzogiorno borbonico per le maggiori potenze europee, non si può che rimarcare ulteriormente i limiti (pluricentenari) di una certa storiografia italica, prodiga nel rappresentare un sud miserevole e disperato che attendeva i garibaldini, come in “Noi credevamo” del regista Mario Martone. Le cose, come emerge nello studio di Sergio di Giacomo, stanno in modo diverso e sono spesso assai più complicate di come la vulgata vuole. Il lavoro è incentrato sull’analisi, compiuta con dall’autore con scrupolo e dettaglio, di un documento prezioso di metà ‘800, ossia un lungo rapporto che il console britannico in Sicilia James Goodwin inviò a Londra per descrivere cent’anni di storia dell’isola, ossia dal 1740 fino al 1840; il quadro che emerge dall’analisi lascia numerosi spunti di riflessione per chi volesse ulteriormente addentrarsi senza pregiudizi nella storia d’Italia nel XIX secolo. Sia pure fra ombre innegabili – e tuttavia con molte luci spesso oscurate successivamente – emerge il quadro di una Sicilia tutt’altro che immobile e in balìa di feudatari ignoranti o di un clero ingombrante e onnipresente (Goodwin, da protestante, avrebbe potuto largamente calcare la mano su quest’ultimo tema, che invece non è centrale). Emerge invece un’isola “a due velocità”, in cui la costa appare più dinamica della Sicilia centrale; le città marinare, soprattutto Catania e Messina, sono aperte ai traffici economici del Mediterraneo, tanto da indurre il console a compiere una seria riflessione se alla flotta britannica, militare e commerciale, non fosse convenuta una maggiore presenza in termini di investimenti e capitali proprio in queste città, anche a scapito di Malta; la presenza inglese è tutto meno che marginale nel primo trentennio dell’ottocento in quest’area, tanto da indurre il console a richiedere di poter realizzare un oratorio di confessione protestante nella cattolicissima Palermo, per assistere spiritualmente le migliaia di suoi connazionali che si stabilivano per periodi anche lunghi nel capoluogo dell’isola. Certo, non mancano i lati oscuri nella bilanciata indagine del diplomatico: la povertà drammatica dell’interno, un ceto contadino spesso miserabile, una nobiltà terriera non all’altezza del proprio compito storico. Eppure, nonostante questi sbilanciamenti, il quadro generale offerto da Goodwin attorno al 1850 è tutt’altro che pessimista, anzi il console si spinge a immaginare una Sicilia nell’ambito della sfera di influenza britannica. Ciò, come ben sappiamo non avverrà, eppure ancora successivamente al fatale 1860, nelle raccomandazioni della diplomazia estera britannica c’è quella, rivolta al Piemonte, di investire in un area strategica per le rotte commerciali mediterranee. Purtroppo sappiamo che le cose sono andate diversamente, ma non per questo è possibile ignorare le valutazioni acute e originali del console inglese, attuali più che mai come contraltare a una certa retorica da“centocinquantesimo”. Siamo grati al giovane autore per aver offerto alla comunità scientifica (e non solo) una ricerca documentata, ben curata e di lettura assai godibile.






Un Europa diversa



Stefano Bottoni, Un altro novecento, Roma, Carocci , 2011






Chi scrive, come altri colleghi, ha probabilmente sperimentato spesso la sovrana confusione di molti giovani universitari attorno alle più elementari conoscenze geografiche sull’Europa centro-orientale; ancora di recente, nel corso di un esame di storia contemporanea, a fronte della canonica domanda “ci descriva le componenti dell’Impero austro ungarico allo scoppio della prima guerra mondiale”, dopo aver ricevuto come risposta certa “Austria e Ungheria”, abbiamo sprofondare il candidato nelle foschie dei propri lontani ricordi di qualche gita a Praga o delle vacanze marine in Croazia. L’autore ci perdonerà questo divagare, ma nell’appassionante lettura del suo pregevole studio, spesso ci è venuto in mente quanto lontana, ed assieme vicina, è trascorsa la storia della Mitteleuropa nell’arco del XX secolo. Bottoni, in una sintesi piana e ben scritta, mette in rilievo le singolarità delle storie nazionali partendo dal termine del primo conflitto mondiale e dal “contagio” della rivoluzione russa, che fu profondo ma di breve durata, tanto che molta parte del centro Europa, sia pure con difficoltà, trovò una sua strada verso il parlamentarismo. Certamente l’intervallo fra le guerre mondiali non fu di pace sovrana in molte regioni che ebbero i confini disegnati a Versailles, e una guerra a bassa o a media intensità (conflitti civili o guerriglia fra stati) finì per coinvolgere a diverse riprese Polonia, Ucraina, la Finlandia e l’Ungheria. Nonostante questo alcune nazioni conobbero un benessere mai sperimentato prima, come la Cecoslovacchia o i paesi baltici; altrove le cose andarono diversamente, e i rancori etnici finirono per esplodere poi con brutalità nel secondo conflitto mondiale. Nel centro Europa, oltre alla declinazione genocida nei confronti delle comunità ebraiche, si conobbero sopraffazioni sanguinose fra popolazioni che avevano convissuto per generazioni; il redde rationem del 1945 fu comunque tragico per tutti gli attori, tanto che condividiamo la citazione riportata nel testo che “mentre alla fine della prima guerra mondiale vennero spostati i confini, alla fine della seconda vennero spostati i popoli”, e in alcuni casi presenze millenarie di enclavi etniche (tedesche e ungheresi soprattutto) furono dissolte in modo rapido e cruento. Anche per quanto concerne la stagione della cortina di ferro non mancano sorprese nello studio di Bottoni: nella grigia uniformità delle “democrazie popolari”, in realtà c’erano profonde differenze fra i comunismi d’importazione, intollerabili o quasi per i magiari o i polacchi e quelli endogeni che ridussero secolari diseguaglianze promuovendo riforme altrimenti impossibili, come in Bulgaria, Romania e soprattutto Jugoslavia. Le rivolte del 1956 (come sia pure diversamente quelle del 1968-69) erano comunque velleitarie: a ovest come a est, le grandi potenze non avevano la minima intenzione di modificare lo status quo di Yalta. Dopo un ventennio di stagnazione (ancora oggi rimpianta da molti in Europa centrale) il collasso dell’Urss provocò a catena una serie di rivolte nazionali e il “crollo del muro”, le cui impreviste conseguenze rappresentano ancora oggi uno dei più clamorosi fallimenti degli analisti atlantici. Diviso anche in questo caso tra il “velluto” della separazione cecoslovacca, il bastone del post comunismo rumeno, e il sangue delle tragiche guerre civili balcaniche, il centro Europa ha conosciuto nell’ultimo quindicennio uno sviluppo costante anche se diseguale, che ha portato alla ribalta argomenti nuovi e antichi: la robusta economia ceca, la straordinaria crescita polacca, la stagnazione ungherese, il fervore delle piccole repubbliche baltiche o l’inquietudine ucraina. Incredibilmente – ma neppure tanto – occorre tornare a guardare la mappa dell’Europa centrale del 1918 per capire cosa è il centro Europa oggi. Ed è quello che fa l’autore, a cui siamo grati per averci offerto una indagine finalmente equilibrata, senza fronzoli ideologici o tesi precostituite.






Nel cuore nero del Reich



Gianluca Falanga, L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler, Milano, Marco Tropea, 2011






Questo di Gianluca Falanga è davvero un bel libro. La parabola dei rapporti italo – tedeschi narrata dal punto di vista dell’ambasciata italiana a Berlino offre spunti di riflessione interessanti e innovativi. Il periodo preso in considerazione è quello del III Reich, dal 30 gennaio 1933 fino alla cruenta fine del regime hitleriano alla fine di aprile del 1945; in questo lasso di tempo si susseguirono nella importante sede diplomatica quattro ambasciatori, di diverso livello e capacità: il tecnico Vittorio Cerruti, il fine cucitore di rapporti Bernardo Attolico, l’incapace Dino Alfieri, e il fascista a oltranza Filippo Anfuso. Ognuno di questi lasciò la propria traccia nelle complesse relazioni con Adolf Hitler e la sua corte brutale, specchio dell’incapacità di Benito Mussolini di comprendere e di gestire in modo equilibrato le relazioni col nazismo; la sensazione che si ha nello scorrere il volume è soprattutto quella dell’ondivago atteggiamento del duce, che nel giro di un decennio passò da una iniziale, prudente diffidenza fino alla stesura di un patto demenziale, in cui l’unico acciaio era quello delle catene con cui la Germania stringeva l’Italia in un comune destino di morte e distruzione. Questa metamorfosi è ben rappresentata dal comportamento dei nostri rappresentanti a Berlino. Vittorio Cerruti comprese quasi subito la pericolosità del Fuehrer, e restò inorridito dalla vicenda della “notte dei lunghi coltelli”, tanto da risultare in breve sgradito alla diplomazia feroce di Joachim von Ribbentrop. Bernardo Attolico resse poi l’ambasciata in modo dignitoso e coraggioso nella stagione delle grandi crisi europee, e da quanto emerge dalla documentazione riportata da Falanga, fu un ostacolo decisivo allo scoppio della guerra europea già al momento dell’invasione nazista in Boemia e Moravia; lo sprezzante giudizio di Hitler, che definì “canaglia” colui che aveva scongiurato quella che poteva essere la prima guerra del III Reich, la dice lunga su come la nostra diplomazia berlinese avesse scelto di rischiare grosso perché il continente (e soprattutto l’Italia) non precipitasse nella catastrofe. Restano poi i due “ambasciatori di guerra”: Dino Alfieri, e Filippo Anfuso; il primo, fascista ottuso e fanatico, si distinse soprattutto per la propria boriosa incompetenza, monumento all’incomprensione fra due rapaci dittature impegnate, con diseguali risultati, in un conflitto di aggressione e sopraffazione ai danni del resto del continente; il fatto che Alfieri, convocato alla decisiva seduta del gran consiglio del 25 luglio non avesse nemmeno compreso di aver votato per la fine del regime, la dice lunga sul grado di insipienza del gerarca improvvisato diplomatico. Diverso, infine, il discorso per Anfuso, diplomatico di lungo corso e mussoliniano convinto, nonostante l’amicizia – quantomeno simulata – con Galeazzo Ciano. Unico fra gli ambasciatori italiani ad aderire al governo della RSI, ebbe l’ingrato compito di reggere, con distacco e fatalismo, la sede diplomatica in una Berlino semidistrutta dai bombardamenti alleati e priva di quasi tutto il personale, rimasto fedele al governo del re e quindi internato. Di lui, oltre che l’indefessa fede nel grigio duce lacustre, va sottolineata la sostanziale indifferenza nei confronti delle sofferenze delle centinaia di migliaia di nostri connazionali fatti prigionieri senza diritti e sfruttati come manodopera schiava fino al termine delle ostilità. Scampato al dies irae post 25 aprile e ad alcuni processi per collaborazionismo e complicità nell’assassinio dei fratelli Rosselli, il diplomatico catanese fu, con Giorgio Almirante, tra i fondatori del MSI. Il volume, privo di enfasi e sbavature, offre quindi uno sguardo inedito sull’Asse Roma-Berlino, ed è spunto importante per possibili nuove ricerche sul tema.






Quando eravamo moderni



Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ’80, Venezia, Marsilio, 2010






Era il “New gold dream: 81, 82, 83, 84” cantato da Jim Kerr dei Simple Minds; e quegli anni furono davvero irripetibili e formidabili (con buona pace di Mario Capanna), perché pacifici, finalmente deideologizzati, ricchi di entusiasmo, novità, nuove prospettive in ogni ambito: economico, politico, sociale e nei costumi. Chi oggi ha fra 40 anni e 50 anni, come l’autore di questo importante volume non può non rivedersi nei fatti e nelle interpretazioni di quel decennio; ci si lasci dire, che Gervasoni fa finalmente giustizia in modo leggibile, gustoso e ben scritto, di una invadente e uggiosa storiografia che negli ultimi anni ha cercato in ogni modo di imporre una lettura densa di indignato rigetto di quella stagione (si pensi ai terribili mattoni ideologici di Enrico Deraglio o di Paolo Flores d’Arcais), talvolta con iperboli talmente eccessive da risultare risibili per chi ebbe modo di vivere gli anni ’80. L’inizio del decennio, come indica con chiarezza l’autore, è segnata da un momento decisivo che nulla ha a che fare con la politica, ed è la vittoria italiana ai mondiali di calcio del 1982, vero punto di svolta di un paese che comprende di aver superato i plumbei anni ’70, i quali si erano protratti ben oltre il 1980 (si pensi alla strage di Bologna, e agli ultimi feroci rigurgiti brigatisti). Poi, improvvisamente, cambiò tutto; le ideologie omicide parevano consegnate al passato chiuso a doppia mandata, e il presente era denso di novità di opportunità, anche in ambito politico. Alcune formazioni sembrarono improvvisamente residuati di un passato remoto: il PCI berlingueriano, oggi rimpianto da molti, in realtà pareva davvero l’armadio della grisaglia, scantonato perfino dalle organizzazioni giovanili del partito, ben felici di aprirsi alla modernità del linguaggio e di uno stile di vita creativo e innovativo. Chi scrive, visse quel periodo all’interno dei giovani democristiani, dove in modo diverso queste pulsioni erano ben presenti e vive; tutto questo, si badi bene, non significò fine dell’impegno politico e sociale, come alcuni maestri rancorosi oggi vogliono dare a intendere. Anzi, ci fu l’esplosione del terzo settore, del volontariato, delle associazioni no profit specie in ambito cattolico (si pensi all’espansione conosciuta da CL e da MP). Semplicemente la declinazione più specificamente “ideologica” del conflitto sociale era defunta, scomparsa, sotterrata, sparita; i del decennio precedente parevano reduci di guerra, sopravvissuti a un mondo che stentavano a riconoscere. La politica cercava forme nuove di leadership, sia pure in modo ondivago, così come nuovi modelli di sviluppo industriale e commerciale; non tutto andò come si sperava, ma quel decennio vide l’espansione dei servizi e il declino della “classe operaia”, che non fu più capace di restare al centro della scena dopo la marcia dei 40.000 a Torino. Emergeva una nuova categoria imprenditoriale, forse rapace e piratesca, ma indubbiamente nuova rispetto a quella che aveva portato l’Italia al boom economico. Ci fu l’espansione (bulimica? Chi può dirlo…) della televisione ai danni degli altri media, tramite l’arrivo dirompente delle reti private di Silvio Berlusconi, le quali, bon grè, mal grè, segnarono un punto di svolta irreversibile nella storia del paese. Fu tutto rose e fiori? Certamente no. Ma tante disuguaglianze si erano accorciate, non c’era odio all’interno della stessa generazione, e bene fa Gervasoni a sottolineare il dimenticatissimo “movimento dell’85”, quando gli studenti superiori scesero in piazza per una scuola migliore senza l’ombra di bandiere, in modo colorato e “stilysh”, con la divisa di ordinanza di quel periodo: Monclair, Jeans e Timberland. Non c’erano pugni chiusi, non c’erano saluti romani, tutte cose ricomparse successivamente, e purtroppo rimaste all’ordine del giorno delle manifestazioni giovanili di questi ultimi quindici anni. Forse non poteva durare, e non durò. La caduta del muro di Berlino fu l’inizio della fine del “New gold dream”, e il ritorno a una realtà conflittuale e violenta, che colse impreparata una intera generazione. Divergiamo dall’autore solo sul punto conclusivo di quel decennio,che secondo noi non si situa nel 1990, ma poco dopo, nel 1991-92, con la crisi economica, gli attentati di mafia che costarono la vita ai giudici Falcone e Borsellino e l’esplosione di tangentopoli. Siamo grati a Marco Gervasoni per averci riportato in un periodo sereno delle nostre vite, scrollandoci via la “cenere sul capo” che tanti accademici malmostosi hanno voluto imporci in questi ultimi anni.

lunedì 24 ottobre 2011

Storie in nero


Radiografia della Milizia
Piero Crociani, Pier Paolo Battistelli, Le camicie nere 1935-1945, Gorizia, LEG, 2011

Libreria editrice goriziana (meritevolmente) pubblica in lingua italiana questo saggio uscito lo scorso anno per i tipi dell’inglese Osprey, e dedicato alla vicenda della MVSN a cavallo fra quattro guerre: Etiopia, Spagna, conflitto mondiale e guerra civile. I due autori, esperti nella (neglettissima) storia militare, fanno propria, fin dal titolo, una tesi a noi cara: la vicenda dell’esercito di Mussolini va letta in un “continuum” che copre appunto l’arco di dieci anni, nei quali le varie fratture (guerra coloniale, guerra antipartigiana all’estero, guerriglia “in casa”) furono eventi che incisero in maniera modesta sulle sorti di queste formazioni e sulle convinzioni ideologiche dei militi. I reparti in camicia nera, infatti, pur subendo modifiche in termini di organizzazione territoriale, equipaggiamento, uniformi, armamento e addestramento, ebbero un filo conduttore unico, ossia l’essere la forza armata della “rivoluzione fascista”, unica ad avere reclutamento unicamente su base volontaria e a basarsi su elementi esplicitamente animati dalla dottrina del regime.
Crociani e Battistelli con dovizia di dettagli e documentazione, ricostruiscono le vicende dei reparti, il loro impiego nei vari scenari di guerra, gli intrecci complicati fra le competenze del regio esercito e del comando generale della MVSN i quali emanavano spesso disposizioni contraddittorie e confuse. Viene poi finalmente fatta chiarezza su quello che pare ancora oggi un vulnus nella ricostruzione storica, ossia il comportamento successivo al 25 luglio e all’8 settembre. Gli autori, infatti, smentiscono tutte le vulgate che vogliono la milizia “disciolta” dopo la caduta di Mussolini e “dissolta” dopo l’armistizio: la MVSN non fu disciolta da alcuno, fu anzi integrata nell’esercito. Dopo l’8 settembre (spesso prima ancora della liberazione di Mussolini) non solo non avvennero “dissoluzioni”, anzi, la quasi totalità dei battaglioni in camicia nera passò ai tedeschi e successivamente divenne il nerbo della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) della RSI. Siamo grati per l’opera minuziosa dei due autori, e confidiamo che anche in qualche volume divulgativo si cominci a prendere atto dei fatti realmente accaduti, i quali sono quelli sopra riportati e non altri.

Ali nere
Marco Mattioli, I falchi di Mussolini, Roma, IBN, 2011

La vicenda dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana (ANR) è fra quelle che hanno ricevuto la maggiore attenzione degli studiosi di cose militari, oltre che essere da mezzo secolo oggetto di decine di memoriali, agiografie e romanzi. Pochi fra i volumi pubblicati in questo lasso di tempo hanno avuto il pregio di raccontare in modo documentato e obiettivo la frammentaria e complessa storia dei componenti della regia aeronautica che decisero di proseguire la guerra assieme alla Luftwaffe fino al 1945. Mattioli, in questo agile studio, non ha la pretesa di dare risposte esaustive su tutti i fatti che videro protagonisti gli aviatori della RSI dall’armistizio al 25 aprile, ma di offrire una cronologia delle vicende che coinvolsero i caccia dell’ANR nei 600 giorni di Salò, sulla base della bibliografia esistente e sulla documentazione disponibile presso l’archivio storico dell’aeronautica militare (che forse andava citata con maggiore precisione nel testo).
Il quadro che emerge è privo dei toni agiografici presenti in molta produzione sul tema; nella RSI operarono senza dubbio alcuni tra i migliori piloti da caccia italiani, i quali furono intralciati in ogni modo da camarille politiche, interferenze naziste e un apparato militare pletorico e inefficiente (sul quale prima o poi qualcuno dovrà scrivere qualcosa: centinaia di “aviatori da scrivania” percepirono lauti stipendi mussoliniani senza spostarsi dalle lacustri sedi ministeriali, salvo poi proseguire la propria carriera nella democratica aeronautica post-bellica…). Compaiono poi in modo finalmente visibile i veri “padroni di casa” degli aeroporti del nord Italia, ossia gli onnipresenti ufficiali di collegamento della Luftwaffe, che fecero e disfecero come e quanto vollero ai danni dei propri “alleati”, fino a provocare i gravi incidenti dell’agosto 1944, quando il comando della Luftflotte 2 provò a inserire “de facto” l’ANR nell’arma aerea germanica, scatenando in molti aeroporti l’irata reazione degli italiani, che distrussero quasi ovunque i propri velivoli. Altro dettaglio che emerge sono le perdite, altissime, a fronte degli scarsi risultati nell’impiego bellico: l’autore sottolinea infatti correttamente come le vittorie aeree accertate siano meno di metà di quelle effettivamente dichiarate da molti storici nostalgici. Peraltro, aggiungiamo noi, il rapporto perdite inflitte/perdite subite, nell’ultimo anno di guerra fu terribile anche per la Luftwaffe, con dati non diversi da quelli della modesta pattuglia degli aviatori di Mussolini, a dimostrazione che, nei cieli ormai sotto pieno dominio anglo-americano, la vita era complicata anche per gli aviatori del III Reich.
Nel volume si dà conto infine anche delle vicende del battaglione “Forlì”, il quale fu formato da aviatori “appiedati” che vollero creare una sorta di X Mas dell’aeronautica, e furono l’unico reparto della RSI ad essere schierato per oltre sei mesi esclusivamente al fronte. Purtroppo non c’è traccia invece dell’impiego delle formazioni dell’antiaerea (Flak Italien) che ebbero un ruolo grave e poco conosciuto nella guerriglia antipartigiana.

Il bignami di Dongo
Pierre Milza, Gli ultimi giorni di Mussolini, Milano, Longanesi, 2011

Nel leggere questo volume di Pierre Milza, la nostra principale riflessione esulava dalle ricostruzioni dello studioso francese; più prosaicamente, ci chiedevamo cosa sarebbe accaduto se uno dei tanti carneadi animati da buone intenzioni avesse presentato un volume come “Gli ultimi giorni di Mussolini” a qualsiasi casa editrice a diffusione nazionale. La cosa più probabile è che lo sventurato avrebbe assistito al passaggio della propria fatica dalla buca delle lettere direttamente nel cestino. Si dirà che questa è una analisi drastica e forse ingiusta, ma anche ad una seconda o a una terza lettura, chi scrive trova piuttosto inspiegabile la pubblicazione di questo libro sulla fine del duce, denso di cose straconosciute e stralette.
Pierre Milza ha senz’altro scritto di meglio in passato, e anche per questo troviamo inspiegabilmente scadente il livello di questa ricerca; il lavoro è sciatto nella scrittura, povero nella bibliografia, indisponente negli inserti cartografici (le località del lago di Como sono scritte in un italiano traballante, dettaglio colpevolmente sfuggito al momento della correzione delle bozze), ovvio nelle conclusioni e sconcertante in alcune rivelazioni: senza citare le proprie fonti, Milza sostiene che il partigiano “Bill”, Urbano Lazzaro, che sapevamo vicentino, era di origini slave e si chiamava Karol Urbaniec (!), mentre la 52° brigata Garibaldi aveva in organico decine di polacchi, tanto da farne una vera e propria “brigata internazionale” (sic); come questi compatrioti del futuro Papa Giovanni Paolo II fossero giunti nei pressi di Menaggio è mistero doloroso, perché Milza non aggiunge altri dettagli in merito, così come permane la nostra curiosità su quale lingua si usasse in questa stravagante formazione partigiana: forse l’esperanto.
Sulle vicende relative alla cattura del duce e del governo della RSI, nulla si dice nuovo e molto si scrive di vecchio, visto che il canovaccio sono le polverose memorie di Pier Bellini delle Stelle, superate da numerosi studi scientifici editi nell’ultimo decennio. Appena accettabili, infine, appaiono alcune riflessioni, come la possibile veridicità della cosiddetta “pista inglese” per comprendere l’uccisione di Mussolini: si può convenire che la presenza di Winston Churchill nell’estate 1945 proprio nei luoghi in cui si consumarono le ultime ore dell’ex duce risulta effettivamente sospetta, ma l’autore non porta alcun documento che non fosse stato già pubblicato e conosciuto da anni nel nostro paese.
Il valore (scarso) del volume è quindi quello di essere una specie di “Bignami”, un libricino utile per chi voglia affrontare da neofita un argomento che annovera autentici specialisti, i quali non a caso sono definiti “dongologi” per la cura maniacale delle proprie ricostruzioni. Milza però non si avvicina minimamente a questa pattuglia, restando a parer nostro piuttosto distante, come qualità del lavoro, anche dal livello medio che può essere considerato accettabile per una casa editrice a distribuzione nazionale.

La missione più segreta
Francesco Gnecchi Ruscone, Missione Nemo (a cura di Marino Viganò), Milano, Mursia, 2011

Spesso la locuzione “se l’Italia fosse un paese normale …” è la premessa per sciorinare terribili ovvietà, come “… tutti pagherebbero le tasse”, “… i treni arriverebbero in orario”, “… non ci sarebbe la mafia” e via banalizzando. A chi scrive però non viene in mente niente di meglio per introdurre questo volume, la cui curatela è opera di Marino Viganò, uno storico che “in un paese normale”, appunto, sarebbe cattedratico da lustri, forse semplicemente in base alla propria sterminata bibliografia; invece, come in centinaia di altri casi, il lagnoso mondo accademico nostrano, attento soprattutto alla protezione corporativa dei propri interessi, si è privato di uno dei migliori ricercatori di cose militari della nazione. Motivo in più per non essere particolarmente commossi o indignati per i previsti tagli economici al settore.
Ciò premesso, lo studio si articola in una introduzione, redatta da Viganò, dal memoriale di Gnecchi Ruscone, inedito in Italia e pubblicato in proprio in Gran Bretagna nel 1999, e da una ricca appendice di documenti, che chiariscono in modo esemplare le vicende narrate. La storia è quella, davvero inedita e scarsamente conosciuta, della missione “Nemo Sand II” coordinata dal capitano di corvetta della regia marina Emilio Elia (“Nemo”), e che ebbe fra i suoi collaboratori l’autore, allora nemmeno ventenne. I compiti di questo gruppo di agenti segreti provenienti dal sud Italia (ma con numerosi collaboratori reclutati nella zona di occupazione tedesca) era quello di raccogliere informazioni sulla dislocazione dei comandi e delle formazioni della Wehrmacht e di infiltrare propri uomini nelle strutture di governo di Salò.
Quest’ultima parte della missione è quella sino ad oggi meno conosciuta e più sorprendente. Gli uomini di Elia, infatti, nell’ultimo inverno di guerra trovano diversi gerarchi bendisposti a collaborare con la Resistenza al fine, piuttosto ovvio, di crearsi benemerenze postbelliche. Due in particolare risulteranno di fondamentale importanza ai fini della operazione “Nemo”: il prefetto Temistocle Testa, che raccoglie e trasmette informazioni direttamente dal ministero degli Interni della RSI, e Vincenzo Cersosimo, giudice presso il tribunale speciale repubblichino, il quale a sua volta modificherà decine di sentenze riguardanti partigiani in mano fascista, sottraendo tra l’altro l’intero fascicolo relativo a Ferruccio Parri, poi liberato in virtù del complesso di trattative per la resa tedesca in Italia.
L’appendice documentaria riguarda soprattutto questi doppiogiochisti di Salò, e risulta di particolare interesse per sfrondare ulteriormente il mito dei “duri e puri” di Mussolini: Cersosimo, il “Robespierre fascista” che mandò a morire Galeazzo Ciano, nemmeno un anno dopo la sentenza di Verona nascondeva documenti e alterava sentenze, peraltro con la compiacenza dei propri colleghi magistrati in camicia nera, nonostante i cruenti giuramenti di fedeltà sino alla tomba. Quella altrui, evidentemente.

Carnefici e vittime nella Genova fascista
Andrea Casazza, La beffa dei vinti, Genova, Il melangolo, 2011

Difficile immaginare un volume così controproducente come quello di Andrea Casazza. L’autore si inserisce nella scia di studi all’insegna dell’antifascismo militante, scatenati dalla pubblicazione (e dal notevole successo editoriale) delle opere di Giampaolo Pansa; alcuni di questi scritti, densi di roboante retorica partigiana – che sempre retorica rimane, anche se democratica, plurale e progressista – sono rimasti confinati nell’ambito della storia locale. Altri, come “Il sangue dei vincitori” di Massimo Storchi, da noi recensito qualche tempo addietro, sono effettivamente opere articolate e complesse, sulle quali occorre soffermarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni personali.
La tesi dell’autore non è particolarmente innovativa, ed è quella che i processi ai fascisti si siano conclusi nella stragrande maggioranza con un nulla di fatto; per suffragare questa interpretazione, Casazza utilizza come fonti soprattutto le sentenze della corte d’assise straordinaria del capoluogo ligure; se l’obiettivo era quello di suscitare l’indignazione dei lettori, si resta però perplessi di fronte ai “case study” presentati; effettivamente appaiono vergognose le vicende processuali di Arturo Bigoni, Livio Faloppa e Carlo Emanuele Basile (rispettivamente questore, federale e prefetto di Genova), le quali, peraltro, meritavano maggiore spazio Le altre storie narrate invece sono vicende minori o trascurabili: che dire di capitoli intitolati “un commesso in camicia nera”, “il primario collaborazionista” o addirittura “l’amore ai tempi di Salò”? Insomma, un po’ difficile indignare il lettore raccontando di bulli di borgata, truffatori scalcagnati, medici fascisti e commesse innamorate del duce.
Il paradosso viene raggiunto dalla vicenda dell’ausiliaria Giuseppina F., una adolescente con deficit psichici, che era stata rapita dai partigiani nell’estate 1944, catturata dagli alpini della divisione Monterosa e successivamente consegnata al distaccamento di Chiavari della brigata nera “Parodi”. Le testimonianze sul suo caso sono confuse e contraddittorie: probabilmente la ragazza è stata stuprata da partigiani e fascisti, e quando arriva nella caserma del terribile Vito Spiotta ha solo voglia di sfogarsi urlando contro tutti (unico dettaglio che compare in tutte le testimonianze). Casazza, senza accorgersi minimamente dell’empatia suscitata dalla disgraziata giovane, chiude la narrazione sostenendo che l’ingiusta assoluzione giunse a Giuseppina F. mentre quest’ultima era in manicomio da due anni (!): quale “beffa dei vinti” rappresenti questa tragedia umana, è difficile da comprendere, almeno a parere nostro.
In conclusione, anche tralasciando le carenze in termini di bibliografia, le trascuratezze nella scrittura (l’autore utilizza spesso brigate nere e GNR come sinonimi) e lo stile ridondante, rimangono notevoli perplessità sull’utilità di lavori come questo, destinati evidentemente a un pubblico di militanti incapaci di farsi domande sulla stagione della guerra civile.

lunedì 29 agosto 2011

La scoperta dei vinti: intervista a Giampaolo Pansa

La scoperta dei vinti?

di Andrea Rossi



Questo “Orientamenti storici” riporta una intervista esclusiva a Giampaolo Pansa; indipendentemente dal’opinione che si può avere del giornalista monferrino, i suoi volumi dedicati ai fatti di sangue successivi alla fine della guerra in Italia sono da anni oggetto di infinte discussioni fra i ricercatori di storia contemporanea; diversi di questi hanno fatto dell’“antipansismo” (pessimo neologismo, ma che ci pare l’unico capace di definire correttamente questa corposa corrente di pensiero) una specie di ossessione che ha finito per deragliare dalla – sia pure legittima – polemica interpretativa, assumendo in modo piuttosto strumentale i contorni di una battaglia a sostegno dei valori fondanti del nostro tribolato paese: da un lato gli storici antifascisti e scientifici, dall’altro i pubblicisti nostalgici e i loro discepoli, veri o presunti. Così, a coronamento di una lunga serie di saggi e articoli assai duri e polemici redatti da vari storici italiani, un paio di anni fa è stato dato alle stampe un volume collettaneo curato da Angelo del Boca, La storia negata (Vicenza, Neri Pozza, 2009, la nostra recensione del lavoro è in: http://orientamentistorici.blogspot.com/2010/04/venticinque-aprile-e-dintorni.html), quasi interamente dedicato a Giampaolo Pansa, qui ufficialmente gratificato dell’epiteto di “rovescista”: fumosa definizione che dovrebbe indicare l’essere propugnatore di ricostruzioni e interpretazioni errate, faziose e diffamatorie della Resistenza: qualcosa nell’ambito della storiografia scientifica non si è mai visto ne’ sentito, ma tant’è …

Curiosamente questo pessimo aggettivo risulta ostico non solo all’orecchio, ma anche al correttore automatico di “word”: “rovescista” diventa infatti "rovesciata" e qualche incauto addetto ai lavori, affascinato dall’inascoltabile appellativo, è poi rimasto vittima dello stesso vocabolo: nel saggio che Maria Elisabetta Tonizzi ha dedicato a “La Resistenza in Italia: Partigiani, Alleati, usi pubblici della storia” (Il mestiere dello storico n. 1-2011) si trova infatti in più parti la parola "rovesciata" completamente avulsa dal contesto, e quindi del tutto incomprensibile per il lettore. Le cose, a nostro avviso, sono più complesse di come molti vorrebbero, e non ci pare inutile sottolineare un dato essenziale da cui tutti “bon grè mal grè” devono partire, ossia l’incapacità dei critici dell’editorialista di “Libero” di confutare uno solo degli episodi da lui narrati; se Pansa avesse proposto ricostruzioni deformate di vicende inesistenti, non sarebbe stato difficile smentirlo, come è avvenuto nel caso di altri e meno accorti ricercatori. Di conseguenza paragonare un giornalista e studioso scrupoloso (rammentiamo che il suo volume dedicato alle forze armate di Salò, Il gladio e l’alloro, pubblicato da Mondadori nel 1991, è tuttora uno strumento indispensabile per approcciare in modo scientifico le vicende dell’ultimo esercito di Mussolini) con gli sciamani dell’antisemitismo, creatori di fatti mai avvenuti e negatori di eventi accertati, è a parer nostro operazione scorretta e deontologicamente riprovevole. Come diceva Leonardo Sciascia: “... i fatti si dividono in due categorie: quelli accaduti e quelli inventati ...”: non è quindi colpa del "rovescista” Pansa se alla cartiera di Mignagnola (solo per citare un caso) i partigiani del comandante Falco ammazzarono fra la fine di aprile e i primi di maggio 1945, dopo atroci torture, non meno di ottanta prigionieri fascisti, uomini e donne; e non si può addebitare al “rovescista” Pansa la distrazione pluridecennale della storiografia antifascista su questo come su decine di altri episodi simili (salvo poi fare uscire tre volumi in due anni dedicati alla strage, guarda caso, non prima ma subito dopo l’uscita de Il sangue dei vinti). Si può anche dire che il giornalista piemontese è un “... rovistatore della Resistenza ...” come con scarso aplomb ha sostenuto Angelo d’Orsi qualche anno addietro, ma di certo non si è fatto un buon servizio alla storia della guerra di Liberazione tacendo questi eventi luttuosi e screditando strumentalmente chi li ha descritti con cognizione di causa. Forse sarebbe stato meglio invece parlarne prima, diffusamente e senza censure, ma questo avrebbe comportato uno sforzo per andare oltre alle appartenenze a ideologie decrepite. Invece queste ultime sono, ancora oggi, le colonne d'Ercole di una non marginale parte del mondo accademico.


INTERVISTA A GIAMPAOLO PANSA

“I figli dell’aquila” è stato pubblicato nel 2002, “I vinti non dimenticano” è del 2010. Nel mezzo ci sono quasi dieci anni e sette volumi dedicati agli strascichi sanguinosi della guerra civile in Italia. E’ un lasso di tempo sufficiente per fare un bilancio su questa tua lunga stagione di ricerche?
Si, senz’altro, anzi penso si possano fare diversi bilanci. Quello professionale è assolutamente positivo, specie nell’osservare che ha pagato la “diversità” con cui ho trattato il tema della violenza sui vinti. Lo scrivere con un taglio non conforme alla retorica resistenziale, è stato la chiave di tutto; ho cercato fin dal principio di “cantare” un’aria musicale mai intonata nel mondo della storiografia antifascista, e se devo stare al riscontro editoriale, direi che questa scelta mi ha dato ragione: Il sangue dei vinti e i volumi successivi hanno venduto centinaia di migliaia di copie, e le ristampe non si contano.
C’è poi un bilancio umano, che non è meno importante; ho potuto dare voce a un mondo che fino a qualche anno fa non conoscevo e che per decenni era stato costretto ad elaborare in silenzio le proprie dolorose vicende familiari: continuano ad arrivarmi centinaia di lettere e fino ad oggi credo di averne ricevute non meno di ventimila.
Qualche rammarico?
Il bilancio politico credo sia deludente. La sinistra italiana ha dimostrato una incredibile miopia su questi argomenti; la classe dirigente dei DS e poi del PD avrebbe potuto approfittare dell’occasione per fare pubblicamente i conti con una parte inconfessabile del proprio passato, invece i leader post comunisti hanno scelto il silenzio, o peggio: hanno fatto finta che l’argomento fosse inesistente, e che i miei libri fossero una specie di “fuoco amico” sui miti fondativi della repubblica. È stata una occasione perduta per dare credibilità vera alla scelta riformista dell’ex PCI.
Dalla pubblicazione de “Il sangue dei vinti” in avanti hai partecipato a decine di dibattiti, tavole rotonde, interviste televisive e radiofoniche. Ti sei mai trovato davanti a qualcuno che ti abbia detto apertamente che scrivi falsità?
No, mai. E fino a oggi non sono mai stato citato in giudizio da nessuno e nemmeno costretto a scusarmi per aver detto cose non vere. Per questo molti storici di professione che hanno polemizzato con me alla fine sono stati messi sotto scacco, tanto che sempre meno spesso trovo critiche ai miei lavori, come accadeva qualche anno fa; prima di pubblicare un libro, ho sempre controllato la veridicità dei fatti non una, ma due, tre, quattro volte, incrociando sempre fonti diverse fra loro. La mia scuola non sarà quella dello storico di professione, ma è senz’altro quella dei cronisti dei quotidiani di una volta, quando si diceva “meglio beccarsi una querela che essere costretti a una smentita”.
Scrivi ancora molto, eppure hai diradato le tue apparizioni in pubblico.
Ho praticamente sospeso gli incontri pubblici non per timore del contraddittorio, ma perché dall’ottobre 2006, dopo le violenze avvenute durante la presentazione de “La grande bugia” a Reggio Emilia, la mia presenza comporta anche precauzioni legate alle forze dell’ordine. E’ una cosa che vivo come una limitazione dei miei diritti civili. Ho sempre pensato che Carabinieri e forze di Polizia debbano difendere i cittadini più deboli di me.
Infine per quanto riguarda le interpretazioni, come ti spieghi l’ostilità di tanti studiosi universitari?
Perché ho detto chiaramente quello che nessuno di loro vuole ammettere per motivi ideologici: la Resistenza non fu tutta uguale. Alcuni partigiani combattevano per la democrazia, e altri combattevano per instaurare in Italia una dittatura comunista, come in Jugoslavia. Se gli storici non fossero spesso anche dei militanti politici, queste banalità sarebbero già state chiarite da un pezzo …


lunedì 27 giugno 2011

Vittime della storia. Storia delle vittime.

Vite normali di vittime designate
Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Torino, Einaudi, 2011

Proseguendo la felice intuizione avuta con il precedente Generazione ribelle, Mario Avagliano, in collaborazione con Marco Palmieri, ci offre, tramite lo strumento dei diari e delle lettere, lo specchio delle riflessioni, dei giudizi e dei pensieri che scrissero di getto, “in tempo reale” i componenti delle comunità ebraiche italiane dall’introduzione delle leggi razziali nel 1938, sino ad arrivare al tragico biennio 1943-45.
A leggere questo interessante e largamente inedito materiale, emerge con chiarezza un sentimento dominante che percorre le varie fasi dalla “persecuzione dei diritti e dei beni” fino alla stagione catastrofica della “persecuzione delle vite”: lo stupore e l’incredulità, prima ancora che la rabbia o il timore.
La spiegazione, espressa in decine di scritti, è sostanzialmente la stessa, ossia l’incapacità di comprendere l’abisso in cui l’Europa stava per entrare. Agli occhi di questi uomini e donne, in genere di cultura media o elevata, con attività commerciali e industriali fiorenti, risulta pressoché impossibile da comprendere la barbarie elevata a sistema che si stava impadronendo dell’intero continente. Addirittura, da parte della non marginale minoranza che aveva apertamente appoggiato il fascismo e che ne condivideva l’ideologia nazionalista, ci sono – almeno all’inizio – forme di larvata giustificazione delle scelte mussoliniane del 1938 (cosa che avevamo anche ampiamente incontrato nella biografia di Renzo Ravenna “Il podestà ebreo” redatta da Ilaria Pavan). Il legame nazione-identità ebraica, specie nella sua declinazione più “patriottica” (e forse addirittura patriottarda) emerge con chiarezza negli scritti di chi aveva partecipato alla prima guerra mondiale, o che addirittura era stato fervente interventista. Tanti si rifiutano di accettare che la stessa patria in cui si sentivano integrati ora li respingeva come una entità estranea (un rifiuto che porta anche ad alcuni suicidi).
Nonostante lo scoppio della seconda guerra mondiale e la progressiva discriminazione dalla vita nazionale, gli ebrei italiani, in maggioranza, non si ribellano ai soprusi, compresi quelli più gratuiti e violenti (come la devastazione della Sinagoga di Ferrara nel 1941), cercando piuttosto un modus vivendi con la nuova realtà. Le prime frammentarie notizie sull’avvio del programma nazista di sterminio, vengono anch’esse commentate con sostanziale incredulità, almeno fino a quando, con l’occupazione nazista, i treni piombati iniziano a partire anche dal nostro paese.
Solo nel momento più atroce e irrimediabile, nel viaggio verso i campi della morte, tramite biglietti, lettere e messaggi letteralmente gettati nelle stazioni di mezza Italia, si avvertono i congiunti e gli amici che l’unica salvezza è la fuga: quasi come se per centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini, la catastrofe finale fosse arrivata come un temporale in mezzo all’irreale calma creata per dare una parvenza di serenità alle famiglie colpite dalla follia delle ideologie omicide.
Questo è forse l’aspetto più toccante e tragico dell’intera vicenda, che porta a chiedere a ciascuno di noi quale reazione potremmo avere di fronte alla persecuzione immotivata (e crediamo che questo sia il nodo centrale) della propria vita e dei propri affetti. Una domanda che deve restare ben presente nella coscienza civile del paese.
Siamo grati a Mario Avagliano per averci condotto, con rispetto e delicatezza per chi ha lasciato quelle strazianti note, a riflettere ancora una volta su quella terribile stagione.

Vittime e criminali
Davide Conti, Criminali di guerra italiani, Roma, Odradek, 2011

L’autore, in questo volume, prosegue proficuamente le ricerche iniziate con il precedente “L’occupazione italiana dei balcani”, incentrando l’attenzione dello studio sulle richieste espresse da Grecia, Albania, Unione Sovietica e Jugoslavia di estradare i criminali di guerra italiani per essere giudicati davanti a corti marziali.
Conti, con bravura, coglie con esattezza le situazioni – anche molto differenti fra loro – in cui si trovavano al termine della guerra le nazioni sopra citate, e di conseguenza le differenti prospettive di trattamento che potevano attendersi i nostri militari macchiatisi di atrocità nel periodo 1941-43. Non abbiamo inserito in questo elenco gli USA, che pure ebbero a subire perdite a causa di azioni criminali, ma questo unicamente per il fatto che gli americani (come anche i britannici: si veda il caso del generale Nicola Bellomo) procedettero sempre in autonomia e per le spicce con chi cadeva nella rete dei servizi di intelligence a stelle e strisce, e che finirono tutti o quasi davanti al plotone di esecuzione.
Risulta particolarmente efficace e inedita la parte inerente la questione dei crimini commessi nella penisola ellenica, uno scacchiere in cui l’occupazione italiana ebbe aspetti drammatici, oscurati probabilmente dal coraggioso comportamento delle nostre truppe dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ci furono invece anche in questa nazione soprusi, vessazioni ed episodi sanguinosi, come la rappresaglia avvenuta nel villaggio di Domenikon, che coinvolse decine di civili innocenti, sulla quale solo di recente è stata fatta luce. I rapporti bilaterali tra Grecia e Italia per quel che concerne i processi ai criminali di guerra italiani (come nel caso di quelli con la Germania) furono condizionati da una sorta di reciproco oblio, favorito anche dal fatto che nell’immediato dopoguerra il paese era squassato da una cruenta guerra civile, il cui esito fu un governo conservatore e filo atlantico che non aveva la minima intenzione di riaprire le ferite del periodo bellico.
Interessante anche la parte concernente l’Albania, paese che era parte integrante del regno d’Italia dal 1939 al 1943 e che conobbe una sanguinosa stagione di guerriglia partigiana a partire dal 1941. In questo caso l’appartenenza della nazione balcanica alla sfera di influenza comunista minò fin dal principio la possibilità di un qualsiasi dialogo fra le parti sullo spinoso tema dei crimini di guerra, anche se, va detto, ci pare che le azioni repressive dell’esercito italiano in una zona che a tutti gli effetti era territorio nazionale, furono assai meno pesanti che altrove. Infine, a nostro avviso meno innovative le ricerche riguardanti la Jugoslavia e l’URSS, che ripercorrono sentieri conosciuti (anche se visti con l’occhio attento di Mario Palermo, sottosegretario alla guerra dei governi Badoglio e Bonomi e dirigente del PCI). In conclusione al volume troviamo una (abbastanza superflua) intervista al procuratore Antonino Intelisano, sul tema dell’armadio della vergogna di palazzo Cesi.
Restando fermo il valore scientifico del lavoro di Conti, restano a nostro avviso diverse riserve sul taglio dato all’indagine. In nessun punto del volume si rileva che, fatta salva la Grecia, le richieste di estradizione dei criminali di guerra italiani giungevano non da democrazie parlamentari ma da paesi in cui erano stati instaurati brutali regimi autoritari (per non soffermarsi sull’URSS di Stalin). Parlare poi del 1948 come un momento di svolta “reazionario” rivela uno schematismo definitorio davvero d’altri tempi, così come l’insistenza nel cercare di inserire anche la chiesa cattolica fra le categorie che con zelo cercarono di proteggere i criminali di guerra.
Anche in questo studio, inoltre, sfugge il fatto che, anche se non ci fu una “Norimberga italiana” (cosa altamente improbabile visto lo stato di “guerra fredda” già in atto nel 1946) molti dei capi politici e militari erano stati comunque processati in quanto aderenti alla RSI (come il famigerato generale Gherardo Magaldi) e diversi erano stati passati per le armi a guerra finita (Pietro Caruso, Paolo Zerbino, Gaetano Collotti e altri).
Si tratta comunque di rilievi che non inficiano la validità dell’impianto e che suscitano domande e necessità di nuove indagini.

Vittimismo nazionale?
Giovanni de Luna, La repubblica del dolore, Milano, Feltrinelli, 2011

Ammettiamo un nostro limite: la lettura e l’analisi di questo volume di Giovanni de Luna ci sono risultate particolarmente ostiche, visti i continui cambi di argomento e le diverse situazioni – non sempre congrue – presentate nel lavoro. Da quanto abbiamo compreso, la tesi dell’autore è la seguente: la memoria storica condivisa, patrimonio delle forze sociali e politiche dell’arco costituzionale è collassata vent’anni fa assieme alla prima repubblica. I governi eletti successivamente hanno fallito il compito di creare un nuovo patto per definire i riferimenti storici nazionali; in assenza di questi, e tramite un disinvolto uso pubblico delle “storie dolorose”, si è creata una memorialistica vittimaria, i cui protagonisti sono in aspra competizione per cercare attenzione sui media, mettendo a confronto commozione a commozione e lacrime a lacrime.
La proposta di De Luna è che tale modello andrebbe sostituito con un pantheon degli “eroi miti” (sic), categoria introdotta da Norberto Bobbio negli anni ’80 e che ci pare di confusa definizione, dal momento che parte da Goffredo Mameli e finisce con le guardie del corpo di Salvador Allende. Unica luce per orientarsi nell’oscurità di questo “pantheon” è la solerte distinzione bobbiana che “la laica mitezza non è la mansuetudine della tradizione cristiana” (cosa evidentemente riprovevole, anche se ci sfuggono i motivi).
La prima domanda che sovviene dopo la lettura è: perché il paradigma vittimario è così esecrabile? Perché una nazione non può ritrovarsi osservando la propria storia dal lato dei deboli, di chi ha sofferto lutto e rovina a causa di eventi recenti, come il terrorismo, o più lontani, come la guerra mondiale?
Secondo l’autore esisteva un “pantheon di riferimento” sia pure con declinazioni non immuni da esagerazioni o smargiassate, almeno fino ai primi anni ’90, e allora veniamo ad un’altra domanda non peregrina che è sollecitata dalle riflessioni contenute nel volume: perché De Luna non traccia una seppur minima critica alla storiografia antifascista per le sue responsabilità, imprecisioni, versioni di comodo, elementi che hanno condotto comunque al collasso di quella versione dei fatti? Se il costrutto della storia resistenziale, per come si era stratificato dagli anni ’50 in avanti mostra danni strutturali irrimediabili, possibile che sia colpa solo degli studi di Renzo de Felice, e del comportamento deleterio della classe politica?
A chi scrive sovviene invece una vicenda assai istruttiva: Giorgio Bocca, riferimento adamantino di tanti studiosi della Resistenza, negli anni ’70 sosteneva che a combattere i partigiani in Valsesia nel dicembre 1943 c’era la “divisione fascista Tagliamento” (reparto inesistente), salvo correggersi e farla diventare “legione Tagliamento” negli anni ’80, ma senza avere il coraggio di continuare la cura dimagrante che avrebbe dovuto proseguire con “63° battaglione Tagliamento” per finire con “2° compagnia del battaglione Tagliamento”; insomma: 10.000 uomini che in realtà erano meno di 100. Non sarà stato anche scrivere storie come questa ad aver portato danno alla “vulgata resistenziale”, espressione che tanto dispiace a De Luna?
Infine: come si fa a semplificare i nodi di cinquant’anni di storiografia addossando le colpe dell’uso pubblico della storia a uno studioso che ha avuto il solo torto di concentrare l’attenzione sulle “maggioranze silenziose” rispetto alle “minoranze eroiche”?
L’”intervista sul fascismo” del 1975, tanto stigmatizzata da de Luna, contiene una ignorata perla di saggezza, solo in apparenza lapalissiana visto l’atteggiamento che hanno ancora oggi tanti studiosi impegnati a dimostrare i propri teoremi ideologici: “… la storia va ricostruita prima di essere interpretata, e non il contrario …”. Se così fosse stato fatto, forse non sarebbe accaduto di prendere spesso fischi per fiaschi senza avere poi il coraggio di dire “contrordine compagni”.
Infine una considerazione del tutto personale. E’ davvero triste e penoso che un cattedratico di chiara fama sostenga seriamente che la reazione alla discutibile “Ley de memoria historica” introdotta da Jose Luiz Zapatero sia stata la seguente: “… la Chiesa cattolica, grande alleata del franchismo, nell’ottobre dello stesso 2007 si affrettò a beatificare 400 spagnoli martiri della fede uccisi dagli antifranchisti tra il 1934 e il 1937” (p. 32): un motteggiare davvero poco rispettoso dei fatti (e dei morti ammazzati) che contiene pure un vistoso lapsus calami, visto che nessuno poteva essere “antifranchista” dal 1934 al 1936, ossia prima che fosse scoppiata la guerra civile...
Confidiamo che i giovani studiosi che De Luna ringrazia ed elenca a p. 18 come coloro che hanno “lo sguardo proiettato al futuro” possano anche studiare il passato con senso critico e senza livore. Ce n’è un gran bisogno.


domenica 24 aprile 2011

Storie grandi, storie piccole

Archeologia della guerra mondiale
Anthony Majanlathi - Amedeo Osti Guerrazzi, Roma occupata 1943-44, Milano, Il Saggiatore, 2010




Chi si occupa di storia della seconda guerra mondiale, in genere, ha una strana deformazione professionale, ossia quella di non riuscire a fare il “turista per caso”, alla ricerca di quello che dice la guida del TCI, ma di cercare le tracce del conflitto che più ha segnato il nostro continente nel corso del ‘900, specie per quanto riguarda gli assetti urbani. E’ una esperienza spesso frustrante o inconcludente, in quanto le ricostruzioni post-belliche hanno finito per lasciare elementi residuali del “prima” e del “durante” la guerra, a causa dei bombardamenti aerei, della battaglia combattuta strada per strada, o semplicemente delle spesso dissennate ricostruzioni degli anni ’50.
Il bel volume di Majanlathi e Osti Guerrazzi, conduce per mano il lettore per le vie della Capitale, alla ricerca di quel passato perduto, di vestigia che restano indelebili nella memoria di chi subì l’occupazione nazista, ma che purtroppo oggi lasciano elementi che solo un osservatore attento è in grado di decifrare.
Così, da villa Torlonia a villa Ada, da villa Wolkonski a via Veneto, dalla piramide Cestia a piazza Colonna, con descrizioni e itinerari, gli Autori cercano di farci capire i luoghi dove si svolsero gli eventi del 1943, dalla caduta del fascismo, all’occupazione tedesca, alla nascita della repubblica sociale, alla guerriglia dei GAP. Alcuni luoghi sono facili da raggiungere per qualsiasi storico-turista, altri, come il quartiere del Quadraro dove ebbe luogo un massiccio rastrellamento nazista di civili che furono inviati nel Reich, o il ponte di Ferro (oggi ponte dell’Industria) dove avvenne una strage di donne (uccise solo perché chiedevano pane) devono fisicamente essere ricercati, in quanto ben al di fuori da qualsiasi itinerario culturale della Roma classica o rinascimentale.
Unico appunto, ad un volume che risulta di facile e interessante lettura, è sulla declinazione forse un po’ parziale di alcuni eventi; esistono vicende oggettivamente complesse non dovrebbero essere raccontate “a colpi d’accetta”. Un esempio su tutti: il sinistro forte Bravetta, dove vennero fucilati decine di partigiani fra il 1943 e il 1944, era anche il sito dove fra il 1940 e il 1943 furono eseguite sentenze capitali nei confronti di patrioti sloveni e croati e spie italiane che fornivano informazioni a inglesi e americani. Allo stesso modo, fra il 1944 e il 1945, ivi vennero passati per le armi alcuni noti esponenti fascisti come Pietro Caruso e Pietro Koch, e figure di secondo piano, come Armando Testorio e Franco Sabelli, informatori delle SS catturati nell’estate del 1944.
La memoria totalmente divisa di quel luogo, in cui ognuno può riconoscere vittime e carnefici di ogni fede e colore (le spie italiane al servizio dei britannici nel 1941 erano buone o cattive? I partigiani sloveni erano nostri nemici o no? Fino al 1943 sì e dopo no?) in realtà dimostra come all’interno di un quadro generale, spesso i dettagli finiscono per perdersi.
Si tratta comunque di osservazioni che non inficiano la validità di questa guida, che è strumento prezioso per cercare di interpretare una Roma che in gran parte non esiste più.



Persecuzioni a Ferrara e in Emilia
AA. VV.: Storie di esilio, di fuga e di deportazione (a cura di Delfina Tromboni), Ferrara, Tresogni, 2010

Il volume raccoglie gli atti del convengo svoltosi a Ferrara il 29 gennaio 2010 nel corso delle celebrazioni del Giorno della Memoria, e raccoglie relazioni di studiosi che hanno come canovaccio comune l’angoscia della fuga e il dolore delle perdite dei beni e degli affetti causati dalla persecuzione fascista e nazista nei confronti degli ebrei e degli oppositori al regime.
Segnaliamo per motivi di spazio solo alcune delle relazioni, peraltro tutte degne di interesse.
Antonella Guarnieri ripercorre in modo puntuale, tramite le biografie di alcune donne appartenenti alla comunità ebraica ferrarese, il tratto comune di tante vite che passarono nella tempesta razzista: una esistenza borghese e “integrata”, la discriminazione, la persecuzione, la morte scampata, e un dopoguerra spesso difficile e segnato da un passato incancellabile.
Delfina Tromboni ripercorre la vita sfortunata di Elodia e Lino Manservigi, fratelli perseguitati dal regime fascista in Italia in quanto militanti comunisti, fuggiti in Russia alla fine degli anni ’20, e finiti stritolati nel feroce meccanismo delle purghe staliniane, che costerà la vita a Lino e al figlio Elodia, Sergio.
Bizzarro il profilo che Sara Galli fa di Angelica Balabanoff, animatrice del socialismo italiano negli anni precedenti alla grande guerra, e successivamente fra le protagoniste della rivoluzione russa; scopriamo infatti che “…il consolidamento del regime di Mussolini le impedì di tornare in Italia …” (p. 78), ma del duce non c’è altra traccia nella relazione. Ciò appare curioso, in quanto la una lunga “liaison” con la Balabanoff all’epoca in cui entrambi erano ai vertici del partito socialista è cosa notissima non solo in ambito storiografico. Una forma di autocensura?
Roberta Mira e Claudio Silingardi, in due distinte comunicazioni, offrono un quadro articolato e dettagliato del campo di concentramento di Fossoli, e di come esso rivestì una determinante importanza sia per la raccolta e la deportazione degli oppositori al nazifascismo e degli ebrei catturati sul territorio della RSI, sia come punto dove provvedere (letteralmente) allo “stoccaggio” su vagoni piombati di migliaia di rastrellati, perlopiù civili incolpevoli, da destinare al lavoro coatto per la macchina bellica tedesca.
In conclusione vanno segnalate le riflessioni di uno dei discussant, l’esperto di ebraismo italiano Piero Stefani, sull’importanza della trasmissione della memoria e dei ricordi familiari. Tracce altrimenti destinate a disperdersi nel fracasso di un presente sempre più difficile da interpretare.

Verità scomode
Lodovico Galli, Dalla parte della Verità, Arco, Tipolitografia Grafica 5, 2011

Torniamo volentieri ad occuparci di un lavoro di Lodovico Galli, in quanto l’autore, anche se non storico di professione, ha la singolare capacità di investigare su alcune “zone grigie” lasciate talvolta scoperte dalla storiografia scientifica. Lo studioso bresciano prende questa volta in considerazione la vicenda dell’albergo Gnutti di Lumezzane, località che spesso compare in alcune ricostruzioni delle vicende di Salò, dove è descritta come il “confino dorato” per alcuni prigionieri dal cognome importante.
In questa amena cittadina bresciana furono ristretti fra gli altri (imprigionati, oggettivamente, ci pare termine eccessivo visti i riguardi degli ospiti: si vedano i dettagli relativi al “menù” offerto dall’Hotel…) i generali Trionfi e Gariboldi, Achille Starace e il figlio di Giacomo Matteotti, Giancarlo, arrestato dalla brigata nera di Milano e internato a Lumezzane su precisa indicazione di Mussolini. Da qui Matteotti fuggì nel marzo 1945, quasi certamente con la compiacenza – se non direttamente con la partecipazione, come sembrerebbe dalla documentazione resa disponibile da Galli – dell’ex capo di stato maggiore della MVSN Enzo Galbiati.
Altrettanto interessante è la seconda parte del volume, che, dopo aver descritto alcuni oscuri episodi di sangue avvenuti fra guerra e dopoguerra nei dintorni di Brescia, ci offre la narrazione (recuperata da fonti edite coeve) delle vicende relative alla partecipazione alla campagna di Russia della 15° legione camicie nere, che aveva sede nella città lombarda. E’ una inedita testimonianza di una partecipazione forse marginale, ma non per questo meno importante, alla guerra in territorio sovietico, e il racconto è animato dalle corrispondenze e dai commenti del più conosciuto esponente del reparto, ossia Filippo Tommaso Marinetti, all’epoca già ultrasessantenne.
Con il suo caratteristico stile, il fondatore del futurismo raccontava la “crociata antibolscevica”, fatta in nome di Mussolini (poco o mai il fascismo appare nelle sue narrazioni dal fronte), che finì per incrinare definitivamente la sua già malferma salute. Marinetti morirà infatti alla fine del 1944, dopo aver aderito alla RSI.
Siamo grati a Lodovico Galli per questa ennesima raccolta di interessanti “spigolature” nella grande storia; fatti forse piccoli, ma che risultano utili a comprendere il grande affresco degli ultimi venti mesi di guerra nel nostro paese.

Una lotta per la libertà
Massimo Longo Adorno, La guerra d’inverno, Milano, Franco Angeli, 2010

Giorgio Rochat sostiene che una delle prove più evidenti del fallimento dei regimi autoritari, è rappresentata dal fatto che nella seconda guerra mondiale, le dittature nazifasciste, che sul militarismo avevano fondato gran parte della propria propaganda e avevano speso cifre astronomiche per le proprie forze armate, erano uscite sonoramente sconfitte dal conflitto. In realtà una ulteriore prova della superiorità (anche) militare del sistema democratico viene dall’esperienza narrata con mano davvero felice da Longo Adorno.
La storia è nota, anche se, purtroppo, in tempi recenti oggetto poco frequente di studi accurati; la guerra russo-finnica del 1939-40 fu l’impari scontro nel quale una piccola repubblica democratica senza le risorse delle altre nazioni scandinave, difese la propria indipendenza contro l’Armata Rossa, un esercito che, per quanto farraginoso, burocratico, elefantiaco e decapitato dei suoi migliori comandanti a causa delle purghe staliniane, rappresentava comunque un complesso capace di schierare centinaia di migliaia di uomini con mezzi e risorse ingenti e riserve altrettanto corpose.
L’autore, nel tratteggiare i prodromi e lo scatenamento delle ostilità, mette correttamente in rilievo l’importanza che ebbe un altro fattore spesso oscurato nella storiografia, ossia il patto Molotov-Ribbentrop, che consentì all’Unione Sovietica, alleata alla Germania hitleriana, di avere sostanzialmente mano libera nel fare propria anche la Finlandia, dopo aver inglobato, in modo solo apparentemente incruento, le altre repubbliche baltiche.
La “guerra d’inverno” fu durissima, causò decine di migliaia di caduti da ambo le parti e si concluse con un sostanziale pareggio e un trattato di pace siglato nel 1940; in realtà, visto il dispiegamento delle forze agli ordini di Stalin, fu a tutti gli effetti una sconfitta per l’URSS, le cui cause (mezzi scadenti, soldati poco addestrati e male equipaggiati) anticipavano sinistramente le motivazioni dei rovesci militari russi successivi all’inizio fulmineo dell’operazione Barbarossa nell’estate 1941.
In conclusione, crediamo sia utile ricordare che nel primo inverno di guerra in Europa, la Finlandia, non diversamente dalla Gran Bretagna o la Francia, aveva lottato per tenere viva la fiamma della democrazia contro il totalitarismo brutale di un invasore senza riguardi, anche se le tracce storiografica di questa lotta sono assai poco evidenti, quantomeno in Italia. Siamo quindi felici che uno storico accurato e senza pregiudizi ideologici si sia avvicinato a questo tema.



Zero al titolo…
Franco Servello – Luciano Garibaldi, Perché uccisero Mussolini e Claretta, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010

Già in altre occasioni ci siamo soffermati sul fatto che per attrarre i potenziali lettori in un settore non propriamente “facile” come quello storico, le case editrici (e talvolta gli stessi autori) si sottopongono a quello che noi riteniamo sia un rito umiliante, ossia una titolazione a effetto che non riflette praticamente nulla dei contenuti.
Questo volume scritto a quattro mani da Franco Servello, una delle colonne del MSI di Giorgio Almirante, e Luciano Garibaldi, studioso delle vicende del fascismo, è in realtà di qualche interesse storico, purché si ignori completamente il fuorviante titolo e la non felice copertina, che ritrae un Mussolini “anni ‘20” che nulla c’entra con l’argomento. La vicenda narrata concerne infatti la poco conosciuta (e travagliata) storia di un periodico milanese di orientamento post-fascista “il meridiano d’Italia”, diretto da un ex aderente alla RSI, il giornalista Franco de Agazio. Nel volume si ripercorrono gli editoriali e i principali articoli del direttore, il quale acquistò notorietà per una inchiesta, invero assai accurata, sui fatti di Dongo, pubblicata a cavallo della fine del 1945 e l’inizio del 1946.
Avvalendosi di fonti fasciste che, comprensibilmente, non avevano aperto bocca fino a quel momento (su tutte quella di un altro giornalista reduce di Salò, Gian Gino Pellegrini) de Agazio riuscì a fornire una versione dei fatti decisamente lontana da quella presentata in altri giornali “ciellenisti”, e in particolare da “L’Unità” che fino a quel momento aveva monopolizzato il tema. Successivamente vari studiosi scientifici e diversi testimoni confermarono alcune delle ricostruzioni presenti su “il meridiano d’Italia”, ma purtroppo poco di più si può dire di quell’intelligente lavoro giornalistico, in quanto Franco de Agazio fu assassinato davanti a casa sua a Milano, nel marzo 1947. Franco Servello, che di Agazio era nipote, prese le redini del giornale, il quale da quel momento perse la “verve” e il successo raggiunto dal suo primo direttore.
Il resto del volume è purtroppo una raccolta di cose piuttosto note (compreso un inutile rassegna di fotografie che occupa le pagine centrali dell’opera) e assai meno interessanti della prima parte. Nel complesso, se si fa ammenda del titolo, di alcuni scivoloni storici e di un terzo abbondante dello studio che riprende pedissequamente quanto da altri pubblicato (ad esempio la lunghissima citazione dal volume di Urbano Lazzaro Dongo mezzo secolo di menzogne), ci sono elementi interessanti che varrebbe la pena approfondire, su tutti la biografia di Franco de Agazio, giornalista scomodo, uno dei primi nell’Italia democratica a pagare con la vita per aver espresso nero su bianco le proprie – scomode – opinioni.

lunedì 21 febbraio 2011

ANTOLOGIA DI SCRITTI "A MARGINE"

Per la particolare impostazione del blog non è stato possibile salvare gli interventi editoriali della rubrica "note a margine". Riproponiamo quindi di seguito quelli più significativi degli ultimi anni, in quanto citati o discussi su quotidiani, riviste e altri blog.

Dal prossimo aprile si cercherà di portare innovazioni nella veste grafica e nei contenuti, con la speranza di mantenere anche in futuro l'appuntamento bimestrale, anche se gli impegni lavorativi e familiari non consentono programmi di lungo periodo.

Grazie a tutti i lettori per 'attenzione con cui hanno seguito questo cammino "controcorrente", e quindi piuttosto faticoso.

L'Autore


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La nascita del partito democratico, unione fra le esperienze della sinistra riformista e del cattolicesimo democratico dovrebbe rappresentare un momento di confronto fra memorie e storie di tradizioni diverse che entrano, in teoria, con eguale dignità, all’interno del nuovo soggetto politico. Inutile sottolineare come una delle due esperienze, ovverosia quella narrata dalla storiografia marxista rappresenta una memoria “forte”, mentre è ben nota la debolezza della storiografia di ispirazione cattolica, mai capace di dipingere con completezza una vicenda politica e umana che ha avuto un ruolo da protagonista nel nostro paese. Un possibile e inquietante scenario di quella che potrebbe essere (o forse già è) la cultura dominante del PD è offerto da Mario G. Rossi nel numero di giugno 2007 di "Italia contemporanea".

Trascriviamo testualmente: “Il venir meno di equilibri consolidati da decenni (…) ha rimesso in circolo tutto quello che di peggio era sedimentato nelle pieghe più oscure e riposte della società nazionale: lo spessore clerico-fascista (sic!) e quello qualunquista, le pulsioni populiste, le spinte isolazioniste e separatiste, le scelte corporative, antistatali, l’illegalità diffusa fine alle connivenze criminali e mafiose. Quello appunto che i partiti moderati, a cominciare dalla Democrazia Cristiana, avevano filtrato e incanalato sui binari del confronto politico e della democrazia parlamentare”.
Insomma per un intellettuale di primo piano della sinistra italiana, la DC ebbe un senso unicamente in quanto bidone della spazzatura della nazione. Dissolto quello, la spazzatura è colata dappertutto. Una rappresentazione davvero illuminante e densa di spunti di riflessione per chiunque minimamente si interessi di storia e politica. Se questo è il viatico e il comitato di accoglienza per gli storici di ispirazione cattolica nella casa comune del PD, c’è da star freschi su cosa si troverà nell’appartamento. Ammesso e non concesso che noi, olezzando di immondizia (immaginiamo di rientrare nella categoria dei clerico-fascisti) possiamo mai meritare di entrare in casa di una elite così raffinata e istruita. (dicembre 2007)

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A fronte dei tafferugli avvenuti nei pressi de “La Sapienza”, il professor Luigi Frati, pro-rettore del prestigioso ateneo ha rassicurato l’opinione pubblica con un comunicato nel quale, in sostanza, si sosteneva che i problemi erano dovuti a provocatori esterni e che gli studenti andavano invece ringraziati “… per il senso di responsabilità dimostrato nel concordare lo svolgimento delle diverse attività in modo da evitare episodi di violenza ed intolleranza, che stravolgono il libero confronto delle idee ed ai quali gli studenti sono estranei …”, prosa piuttosto nebulosa dalla quale comunque ci pare di capire che questo polo universitario è comunque un posto sicuro, dove l’esercizio della libertà di opinione è garantito e incoraggiato.
Benedetto XVI fu evidentemente mal consigliato lo scorso gennaio quando decise di declinare l’invito alla cerimonia di apertura dell’anno accademico, in quanto i vari striscioni “no vat” (per non dire quelli blasfemi), le gioiose e coloratissime occupazioni del rettorato e le petizioni anticlericali di decine di docenti, erano evidenti dimostrazioni di accoglienza e libero confronto delle idee (purché tutte uguali). In ogni caso, come sopra riportato, ci pare di capire che gli studenti non c’entrino con questo clima, anzi “sono estranei” per usare le parole del pro-rettore.
Così come il professor Guido Pescosolido, preside della facoltà di lettere dello stesso ateneo, forse inconscio del fatto che alla Sapienza si può parlar di tutto (fuorché di ciò che è proibito) non ha evidentemente compreso i rumori, gli strepiti e i bussi a muri e porte del suo ufficio: trattavasi di presenze aliene (visto che come dianzi si legge, gli studenti “sono estranei a episodi di violenza e intolleranza”) che gli rammentavano che le foibe sono cavità carsiche oggetto da sempre di studi geologici e non storici. Perché quindi egli aveva concesso l’autorizzazione a parlarne in facoltà? Ne parlassero a geologia, che diamine! Insomma, tanto rumore per nulla. La Sapienza, è un posto tranquillo e tra l’altro, è collocata in uno dei più bei quartieri della capitale. L’estate si approssima e vista la serenità del sito e l’atteggiamento amichevole degli abitanti verrebbe da chiedersi: perché non andarci in villeggiatura o per diporto? (aprile 2008)

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- Ventotto anni fa il povero Vittorio Bachelet veniva ammazzato a rivoltellate dalla brigatista rossa Anna Laura Braghetti nell’università La Sapienza di Roma. A gennaio di quest’anno un gruppo di studenti di quell’ateneo ha invitato Valerio Morucci, uno dei protagonisti delle BR, formazione ominosa che però ancora oggi pare infatuare diversi intellettuali e non (ci vengono in mente le invereconde dichiarazioni rilasciate dall’attrice Fanny Ardant), a parlare non lontano dalla scalinata dove mosse gli ultimi passi un uomo che aveva la sola colpa di essere stato presidente dell’Azione cattolica. La conferenza è stata poi annullata, non senza proteste da parte degli organizzatori, i quali probabilmente sono gli stessi che facevano manifestazioni sbeffeggiando senza ritegno il Pontefice in particolare e la Chiesa in generale. In quella occasione non mancarono intellettuali, commentatori e docenti che si affiancarono all’ideale battaglia laica e libertaria di chi ci pareva (e ci pare) solo una incivile minoranza di giovani dalla memoria corta e dalla lingua lunga. I successivi riscontri pare abbiano confermato la nostra analisi di allora su questo campione scarsamente rappresentativo della popolazione universitaria; brillano invece per la loro assenza i volenterosi che dodici mesi fa avevano preso le parti dei “no vat”. Una tardiva resipiscenza?
- Dopo il non commendevole episodio di San Giuliano Terme, località dove la scorsa estate fu impedito ad Antonio Carioti di presentare il suo volume “Orfani di Salò”, ci troviamo ahimè nuovamente di fronte ad altri esempi di doppiopesismi ideologici qua e là per l’italico stivale. Alla fine di gennaio a La Spezia il sindaco Massimo Federici concedeva l’utilizzo di una sala comunale per la presentazione del volume di Bruna Pompei “Eugenio Wolk comandante dei Gamma della X MAS” (Roma, Ritter, 2008). Come dovevasi dimostrare mal gliene incolse, e a seguito di una intensa campagna politica e mediatica anche qui basata sulla copertina e non sul contenuto, per evitare problemi di ordine pubblico revocava ogni autorizzazione all’uso di spazi pubblici agli organizzatori dell’incontro. La settimana successiva, in quel di Ferrara, Renato Curcio, presentato come “ricercatore” (sic!), ha avuto invece, per la seconda volta in nove mesi, l’utilizzo e la disponibilità di sale comunali per presentare una raccolta di ponderose riflessioni sul mondo del lavoro. Poco convinte in questo caso le proteste, salvo alcune lettere ai quotidiani locali, e sostanzialmente zero il risultato. L’assessore alla cultura della città estense ha anzi precisato che le sale comunali vengono date a chiunque le chieda, e semmai il comune si riserva il diritto di dare o meno il suo patrocinio. Visto il precedente ci sentiremmo quindi di consigliare alla casa editrice Ritter di presentare a Ferrara il sopra citato studio sugli incursori di marina; questo al fine di testare la salomonica equità di un assessore assai liberale nel concedere spazi pubblici, e di tempra assai diversa dal suo collega di partito e sindaco di La Spezia. Almeno in apparenza.
- Gli Editori Laterza informano: “è nato http://www.labreccia.it/: un sito internet a metà tra il blog e la rivista on-line che vuole "... fotografare dall'alto i tanti terreni di scontro tra laici e cattolici, le armi usate dai contendenti, le strategie, i caduti - quasi sempre laici - , i vincenti - quasi sempre le gerarchie vaticane - (Garantiamo che è testuale, n.d.a.)”. questo blog-rivista, insomma, si pone come un supporto a quella sparuta, esigua e spesso intimorita minoranza che cerca quando può di rosicchiare spazi libertari in un paese dominato dall’oscurantismo e dalla bigotteria. Era ora che una importante casa editrice prendesse posizione, mettendo tutta la sua credibilità di una iniziativa originale e necessaria come quella de “la breccia”, che con grande lucidità individua il vero problema culturale della società italiana di oggi: lo strapotere della Chiesa cattolica. Auguri. (febbraio 2009)

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Perché siamo così bravi, noi studiosi di storia a valutare l’aspetto del nostro ambito di studio sulla base di bibliografie, fondi di archivio, memoriali e testimonianze, ma non sappiamo valutare i segni di questi tempi turbolenti? Davvero ci vogliono doti straordinarie di acume per vedere come tutto quello che accade dentro e fuori dalle università italiane ha come denominatore comune la violenza?
Violenza verbale, dispensata da ogni parte: dalla mediocre e irresponsabile classe politica che attualmente governa il paese e da alcune voci “libere, liberali, libertarie, progressiste e democratiche”, che invece di pensare alle conseguenze delle parole (spesso pesanti come pietre) paiono soffrire di una penosa sindrome di Peter Pan e ritengono che il riproporre gli slogan – non sempre memorabili – della loro gioventù possa in qualche modo avere risvolti favorevoli sull’anagrafe. Violenza fisica, perché pure questa si è vista, tra manganellate delle forze dell’ordine e le strade messe a ferro e fuoco da teppisti che qualcuno del nostro mondo accademico dovrebbe iniziare a definire con il loro nome proprio, ossia canaglie. Invece di usare questo termine forse desueto ma senz’altro indicato per chi ha avuto poco rispetto per il prossimo e per l’arredo pubblico e la proprietà privata, diversi fra noi hanno introdotto non commendevoli distinguo: “violenza c’è stata, ma di sparute minoranze”, “violenza c’è stata, ma a causa di provocatori”, “violenza c’è stata, ma per via degli infiltrati, mestatori di professione”.
Già gli “infiltrati”, tornati protagonisti dopo un trentennio sulle prime pagine della stampa militante e anche nelle poco documentate analisi di alcuni studiosi degli anni ’70. Chi scrive non finirà mai di stupirsi dell’incapacità di alcuni nel leggere le cose per come sono andate, e nel cercare, con sforzi degni di cause migliori, improbabili losche trame, oscuri complotti e torbide connivenze. Non tutto però funziona come in “Blu notte”, e la realtà talvolta è banale, ma non per questo meno autentica. D’altronde il sommo maestro Giorgio Bocca ci mise dieci anni per capire che il terroristi rossi non erano “sedicenti” e altri dieci per ammettere di aver preso una cantonata. Ancora oggi qualcuno, anche nel mondo accademico, nuotando a mo’ di salmone contro l’evidenza dei fatti, cerca di trovare altre tinte oltre quel rosso sangue che si portò via decine fra poliziotti, carabinieri, giornalisti, politici e dirigenti d’azienda (sulle vicende di questi ultimi non un rigo è stato speso in nessuno studio scientifico di nessuno studioso universitario, almeno per le nostre modeste conoscenze).

Si vede, ma non si vuol vedere. Si ammette ma non si vuole ammettere. Si critica, ma con la giustificazione che, in fondo contro questo governo (ignobile finché si vuole, ma democraticamente formatosi dopo libere elezioni) ogni tipo di protesta è permessa, ogni tipo di parola si può dire, ogni tipo di azione si può fare. Quante cose si sono dette contro i “cattivi maestri”. Peccato che sono state dette fuori tempo massimo, quando una parte non marginale di una generazione si era già bruciata in nome di ideologie omicide, ammazzando e facendosi ammazzare in nome di una violenza soreliana, sterile, improduttiva, inutile. Oggi la storia ci mette di fronte un altro crinale in cui le parole dette dai maestri (docenti, ricercatori, studiosi, giornalisti, opinionisti) hanno un peso grave nelle scelte di molti fra giovani e giovanissimi, in una stagione di crisi economica, industriale e sociale come non si registrava da decenni. Prudenza vorrebbe che fossero dosate in modo equilibrato. Così pare non essere, almeno secondo chi scrive. I segni dei tempi sono chiari, limpidi, distinti. Che nostro Signore illumini altrettanto il nostro agire e il nostro discorrere. (Dicembre 2010)