venerdì 30 ottobre 2015

Italiani ebrei, italiani fascisti, italiani profughi

Italiani ebrei
Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani nel XIX e nel XX secolo, Milano, Mondadori, 2015

La vicenda degli ebrei del nostro paese nel corso dell’800 e del ‘900 tratteggiata da Calimani ha numerosi motivi di interesse, ma lascia diversi interrogativi su alcune interpretazioni offerte nell’opera. Senza soffermarci su quanto di buono c’è in questo affresco su fatti e personaggi che hanno segnato la storia della nazione italiana, e non solo dell’ebraismo, due soprattutto restano, a nostro avviso, gli snodi meno convincenti, ossia il rapporto degli isrealiti con la chiesa prima e col fascismo poi. E’ indubitabile che nella seconda parte del XIX diverse fazioni dell’antisemitismo religioso abbiano trovato appoggio (invero mai largo ne’ diffuso a livello popolare come nell’est europeo) all’interno della chiesa nel nostro paese; ci sono però circostanze e vicende che potrebbero aiutare a capire meglio il trauma irrisolto che fu la fine del potere temporale; l’autore infatti un (po’ frettolosamente) fa risalire al pessimo rapporto fra cattolicesimo e modernità la pervicace volontà di mantenere vivo un antisemitismo fondato su leggende terrificanti e ignobili. Quella stagione, in realtà, fu complessa, e gli strali della stampa più cattolica più intransigente non prendevano solo di mira gli ebrei, ma anche i massoni e successivamente i socialisti, tutti messi sullo stesso piano come cause del decadimento nei valori tradizionali. Dall’altra parte, e questo Calimani poco lo mette in luce, il neonato regno d’Italia si impegno con zelo degno di miglior causa a scristianizzare il paese partendo dalle scuole per finire ad ogni altro ganglio della nuova nazione; pare quindi che Pio IX combattesse contro i mulini a vento in un paese in cui i sudditi cattolici, ossia la quasi totalità, erano riveriti e rispettati. Non era così, e probabilmente a quel papa e ai successivi occorrerebbe concedere quantomeno le “circostanze attenuanti” per come si rapportò con l’Italia in generale e con gli ebrei in particolare. Per quanto concerne le relazioni con il fascismo, ci pare abbastanza discutibile la rappresentazione di un Mussolini animato da saldi principi antisemiti fin dai tempi della sua ascesa al potere, e, di converso, di comunità israelitiche indifferenti se non addirittura ostili al movimento delle camicie nere. In realtà gli appoggi mai celati e anzi semmai evidenziati a più riprese da parte di elementi di spicco dell’ebraismo italiano all’azione fortemente nazionalista del duce non sono mai stati mistero per nessuno. E senza andare a scomodare l’istruttiva lettura delle opere di Giorgio Bassani, fa davvero specie lo scoprire solo a p. 407 che Ferrara ebbe per lustri un podestà ebreo, fascista convinto, dimessosi solo nel 1938, alla vigilia delle leggi razziali. In conclusione, se il lavoro di Calimani è nel complesso una narrazione ben costruita di una storia complessa e articolata, lasciano perplessi i giudizi talvolta superficiali su questioni non secondarie, che hanno da sempre interpretazioni divergenti nella storiografia.
  
Un altro teatro
Simone Cristicchi - Jan Bernas, Magazzino 18, Milano, Mondadori, 2015

Ci siamo avvicinati con curiosità al volume che è il canovaccio del discusso lavoro teatrale di Simone Cristicchi. E la cosa che più ci ha colpito è l’incomprensibilità del motivo per cui lo spettacolo non sia solo “discusso” ma talvolta pure denigrato, ostacolato, pubblicamente contestato e fatto oggetto di sgradevoli manifestazioni di intolleranza, come minacce scritte e verbali. Ora sappiamo bene di non trovarci di fronte a un volume di ricerca storica, ma gli appunti e le spiegazioni che troviamo nelle prime pagine, non ci paiono lacunosi, anche perché, a nostro avviso, se si parla di Foibe non è possibile che ogni volta si debba ricostruire “ab ovo” l’intera vicenda etnica dell’Istria, in modo da distribuire torti e ragioni in modo politically correct. Cristicchi fa il cantante e l’attore, e non fa lo studioso e le tracce che lascia al lettore sono quelle – a nostro modesto avviso – sufficienti a comprendere due o tre cose fondamentali: gli italiani c’erano già ai tempi dell’impero austroungarico, dopo il 1918 si sono comportati spesso malamente con sloveni e croati, per diventare intollerabili vicini di casa, dopo il 1922 e l’avvento del regime fascista. Dal 1941 fummo occupanti straccioni e crudeli, e le vicende resistenziali del 1943-45 poco contribuirono a migliorare i nostri rapporti con le popolazioni slave. Questa parte, sia nel volume che nello spettacolo teatrale non vengono negate mai, in nessun momento; così come la vicenda delle decine di migliaia di civili italiani costretti alla fuga, dopo aver subito vessazioni e crudeli vendette, ci pare narrata con equilibrio; non ci sono dettagli granguignoleschi, non si calca la mano sulla pulizia etnico-ideologica operata da Tito, che comunque tale fu, e riguardò certamente non solo i nostri compatrioti, ma anche le minoranze tedesche e ungheresi, le quali subirono trattamenti per nulla diversi da quelli ricevuti dagli istriani o dai dalmati. Il quadro che emerge è quello di una popolazione che pagò in solido le scelte sciagurate del regime fascista (altra verità che non ci pare oscurata nel volume) senza avere altra colpa se non quella di essere italiani dalla parte sbagliata del confine. Senza entrare nelle sofferenze delle narrazioni individuali, il Magazzino 18 che dà il titolo all’opera è davvero il monumento all’indifferenza nazionale non tanto e non solo verso una minoranza alla quale è stato richiesto esclusivamente di adattarsi, meglio se in silenzio, quanto, più in generale, nei confronti della storia recente del paese. Infatti, le masserizie che ancora ingombrano i locali nei pressi del porto di Trieste sono stati semplicemente dimenticati per decenni, e lo sarebbero stati ancora oggi, se un bravo cantautore non avesse deciso di togliere la polvere da quelle testimonianze di una intimità e di una serenità persa per sempre. E di questo non possiamo che essere grati a Simone Cristicchi.
  
Le vite degli altri
Nicola Adduci, Gli altri, Milano, Franco Angeli, 2014


L’esplorazione delle vicende di Salò a livello locale continua a riservare sorprese, specie per quanto riguarda le regioni dove il fenomeno dell’adesione all’ultimo fascismo fu precario e sostanzialmente insignificante; non per questo meno interessante, non fosse altro perché si deve illuminare la vicenda di chi in prima persona combatté in modo sanguinoso la guerra contro civili e partigiani. Lo studio di Nicola Adduci è pregevole sotto ogni punto di vista, specie per quanto concerne lo spaccato sociale dei capi e dei gregari che si misero a disposizione dei tedeschi in una città, Torino, che aderì in modo straripante al movimento di liberazione. La sensazione, come spesso accade in questi casi, è quella di uno straniamento totale non soltanto rispetto al comune sentire della popolazione, ma anche rispetto alla logica delle cose: ci resta impresso, al riguardo, l’ordine di servizio esposto il 26 aprile 1945 alla casa littoria, con il quale si invitavano le camicie nere a mantenere la calma e a restare tranquilli in quanto, ormai a insurrezione conclamata, la situazione non appariva “ne’ tragica ne’ preoccupante”. In realtà non è soltanto nell’ultimo spasimo che il fascismo repubblicano del capoluogo piemontese risulta un corpo estraneo alla società civile, ma si può dire che questo è il tratto caratteristico di tutto il percorso del PFR nella città della mole. La nascita precaria, la stentata esistenza, e il violento parossismo finale delle camicie nere torinesi hanno poi come tratto unificante l’estrema esperienza politica di Giuseppe Solaro; il trentenne responsabile della federazione prima e della brigata nera poi, si rivela elemento tanto radicale  quanto ingenuo e idealista nella gestione del suo incarico, circondandosi da un nucleo di fanatici disposti a tutto pur di lasciare il proprio segno omicida nella storia di una città che aveva fatto letteralmente il vuoto attorno agli squadristi dell’ultim’ora. Ed è proprio l’ultima ora delle camicie nere quella che rappresenta, più di ogni altra violenza, il disperato nichilismo della sparuta pattuglia dei fedelissimi al duce in fuga; il cecchinaggio che per giorni provoca decine di morti e feriti fra patrioti, insorti e semplici passanti nelle strade del capoluogo piemontese, ben più organizzato e oltranzista di quello fiorentino, è probabilmente il più autentico manifesto politico di Solaro e dei suoi accoliti; assai più credibile delle zoppicanti socializzazioni fuori tempo massimo o dell’attacco (verbale) ai “poteri forti” dell’economia industriale torinese. La conclusione, prevedibile, di questa violenza omicida inferta senza riguardi, fu la violenza moltiplicata, contro i colpevoli e anche contro i sospetti, o gli innocenti (va detto), che portò lo stesso sprovveduto federale sotto al cappio di corso Vinzaglio, e i suoi collaboratori davanti ai plotoni di esecuzione partigiani. Il meticoloso lavoro di ricerca di Adduci affronta senza timori reverenziali anche questa pagina di terribile ira popolare, spesso tralasciata in precedenti lavori sulla resistenza torinese. Anche per questo motivo non possiamo che essere grati all’autore.

mercoledì 22 luglio 2015

Storie personali, storie locali, storie nazionali del 1943-45

Siciliani per la libertà
Angelo Sicilia, ,Testimonianze partigiane, Palermo, Navarra, 2015

Il volume di Angelo Sicilia, tramite una importante raccolta di testimonianze inedite, colma un vuoto nella storiografia resistenziale, ossia quello del contributo dei partigiani siciliani alla liberazione dell’Italia sotto la dominazione nazifascista; in realtà questa tipologia di ricerca, ossia le storie dei partigiani originari del Mezzogiorno, appare ancora largamente da affrontare; purtroppo l’assenza di vicende legate alla guerra di liberazione nel sud del paese ha lasciato la percezione di una scarsa presenza di meridionali nella guerra patriottica, mentre invece, come dimostra lo studio in questione, molti gregari, e alcuni importanti capi partigiani avevano percorsi di limpida militanza antifascista, talvolta conclusa davanti ai plotoni di esecuzione della macchina repressiva di Salò. Con pazienza e passione, Angelo Sicilia ha raccolto dai protagonisti di quella stagione, o dai loro familiari, i ricordi dei tragici mesi che vanno dal settembre 1943 all’aprile 1945, mettendo in luce una generazione di giovani che sentirono un moto di ribellione all’occupazione tedesca, sia in patria che all’estero: dai soldati della divisione “Acqui” a Cefalonia agli internati militari che soffrirono e morirono nei campi di concentramento tedeschi, dai fratelli Alfredo e Antonio di Dio, caduti entrambi in battaglia ed entrambi medaglie d’oro al valor militare, a  Pompeo Colajanni, uno dei grandi comandanti del movimento partigiano piemontese. Di tutte le storie (molto spesso colpevolmente dimenticate) che emergono dalla ricerca, ci pare giusto sottolineare un aspetto comune: la necessità dei siciliani di dover scegliere il proprio campo nella guerra civile in atto nel nord Italia, senza avere disponibile l’opzione che invece ebbero tanti cittadini residenti nel settentrione, ossia la possibilità di nascondersi presso amici o familiari compiacenti in attesa della fine della sanguinosa burrasca bellica. Sradicati dalla propria terra, spesso con poca o nessuna conoscenza di territori nei quali perfino i dialetti potevano risultare ostici, i palermitani, come i catanesi o i messinesi, dovettero mettersi in gioco fin dalle prime giornate successive all’armistizio, senza potere in alcun modo tentare di raggiungere la propria casa e i propri affetti, rimasti oltre la linea del fronte fino dal luglio del 1943. Purtroppo la memoria civile di questi uomini è tutt’oggi poco coltivata e conosciuta. A maggior ragione appare meritevole lo sforzo dell’autore per rendere giustizia, quantomeno nel ricordo, per una generazione che ha pagato a caro prezzo “il biglietto di ritorno” alla democrazia del proprio paese e dei propri conterranei.

Asti nera
Nicoletta Fasano, Mario Renosio, Un’altra storia, Asti, Israt, 2015

Nelle aree del paese dove maggiore è stata la presenza e l’attività partigiana, le ricerche dedicate ai responsabili e ai gregari dell’ultimo fascismo sono iniziate quasi ovunque con ritardo pluridecennale, lasciando quindi per un lungo lasso di tempo la ricostruzione delle vicende dei reparti in camicia nera alla memorialistica nostalgica, con tutti i limiti del caso: ricostruzioni parziali, imprecise, se non addirittura agiografiche, che in mancanza di meglio, sono poi successivamente state recuperate (con scarsa attenzione) in studi di orientamento antifascista. Per quanto riguarda la provincia di Asti, arriva ora un lavoro importante sulle strutture politiche e militari della Rsi, grazie allo scrupoloso studio di Nicoletta Fasano e Mario Renosio, i quali affrontano con dovizia di documentazione d’archivio e bibliografica le vicende degli ultimi epigoni del duce in una provincia ribelle al tardivo ritorno di fiamma del regime sotto le baionette naziste. Il quadro che emerge è quello di una nascita stentata delle strutture politiche fasciste e una ancora più difficile ripartenza per i fasci di combattimento, che nel momento di maggiore vigore non raccoglieranno mai più di qualche decina di squadristi, perlopiù impegnati a vendicarsi in modo sanguinoso contro i cittadini inermi, venendo quasi sempre sbaragliati sul campo dalle forti formazioni partigiane delle Langhe e del Monferrato. Interessante la presenza, sia fra i gregari che fra i capi, di fanatici fedelissimi provenienti dal Mezzogiorno e dal centro Italia (i soliti “toscani” che anche in questo caso non faticano a mettersi in luce per la loro crudeltà), almeno fino a quando nella provincia non giunge la presenza militare di un reparto ben equipaggiato e perfettamente addestrato della divisione San Marco, il 3° gruppo esplorante, il quale a tutti gli effetti altro non è che il 2° battaglione del X reggimento arditi del regio esercito, passato armi e bagagli con i tedeschi immediatamente dopo l’armistizio; gli uomini del tenente colonnello Vito Marcianò fino alla fine delle ostilità rappresenteranno una presenza crudele e spietatamente efficiente per mantenere l’ordine nell’Astigiano. La ricerca, infine, raccoglie in modo davvero meritevole di lode le complesse vicende giudiziarie dei collaborazionisti di maggiore spicco, e di diversi comprimari non meno colpevoli, i quali, nella maggior parte dei casi, superata la bufera dell’epurazione sommaria, verranno con mitezza riammessi nella società civile dell’Italia liberata. In conclusione non si può che essere grati a Fasano e Renosio per questo lavoro, tanto pregevole quanto indispensabile per chiunque voglia affrontare in modo serio e obiettivo la storia della repubblica fascista in questa parte del Piemonte.

Nazisti e assassini
Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia, Torino, Einaudi, 2015

La sensazione che si ha scorrendo le dense e precise pagine che Carlo Gentile ci lascia in lettura è che ci si trovi di fronte ad un volume destinato a segnare un “prima” e un “dopo” rispetto alla storiografia sulle stragi naziste in Italia. La narrazione, le ricostruzioni e le interpretazioni sono infatti di eccezionale livello e qualità, e viene da dire finalmente: veniamo infatti da lustri di  instant book editi sulla scia della cronaca, come nel periodo in cui, una decina di anni fa, l’argomento risorse dall’oblio assieme alla celebrazione dei processi svoltisi al tribunale militare di La Spezia. Non si pensi per questo di trovarci di fronte ad un’opera destinata agli addetti ai lavori, o quantomeno ad un pubblico di specialisti dell’argomento; l’autore, infatti, ha la capacità di appassionare anche chi si avvicini all’argomento per la prima volta, conducendolo lungo una “via dolorosa” che inizia nel Mezzogiorno per terminare nella valle dell’Adige dopo quasi due anni, eccidio dopo eccidio e strage dopo strage, con un doloroso canovaccio che unisce tutti i fatti di sangue narrati: i civili assassinati (donne, vecchi, bambini) spesso in modo barbaro, dalle forze armate naziste. Ognuno degli episodi narrati viene osservato in modo analitico, facendo in molti casi chiarezza sugli autori materiali delle efferatezze, quelli che per decenni – purtroppo – sono stati generalmente definiti “SS” o “divisione Goering”; fatto salvo scoprire che, forse, se ci fosse stata meno ubiquità e più precisione forse si sarebbe potuto risalire prima ai reparti coinvolti nei crimini di guerra. Quantomeno una parola andrebbe spesa sulla vicenda della “marcia della morte del maggiore Reder”, in realtà un insieme di eccidi in parte imputabili all’ufficiale nazista, ed altri causati da altri reparti della 16° divisione SS, che ebbe, nella sua interezza, un comportamento ignobile per tutto il periodo in cui fu presente in Italia: ipotesi che quando fu proposta suscitò diffidenze e scetticismo, e che ora esce confermata dallo studio di Gentile, che della Reichsfuehrer traccia un “case study” per comprendere i motivi di un modo di agire così bestiale. E i risultati individuati restano come monito non solo per il passato, ma anche per interpretare il difficile scenario delle guerre di oggi: l’addestramento alla brutalità, l’imprinting ideologico e la giovanissima età dei tragici protagonisti delle efferatezze. Fosse anche solo per questa lezione di storia e memoria civile bisognerebbe essere grati all’autore, oltre ovviamente al fatto di averci lasciato uno studio destinato a durare.

mercoledì 29 aprile 2015

STORIE DI OCCUPAZIONE, STORIE DI LIBERAZIONE

Il carteggio immaginario

Mimmo Franzinelli, L’arma segreta del duce, Milano, Rizzoli, 2015

Sulla corrispondenza segreta fra Churchill e Mussolini sono state costruite negli ultimi settanta anni una serie incredibile di leggende alimentate ad arte dalla stampa di estrema destra; in realtà, la storia delle “storie del carteggio”, come dimostra Mimmo Franzinelli, è di per sé soggetto meritevole di studio, in quanto paradigma del postfascismo e della necessità di rappresentare il maggiore errore politico di Mussolini (l’entrata nel secondo conflitto mondiale) non come effettivamente fu, ossia una scelta miope e sciagurata, ma un possibile scambio di favori con un leader avversario, ma non nemico, ossia Winston Churchill. Dividiamo quindi le due questioni, ossia l’effettivo scambio di lettere fra il duce e il premier inglese, e la fabbricazione ex post di documenti da parte di un gruppo di nostalgici a metà fra il mondo dei falsari professionisti e “la banda degli onesti” di Totò e Peppino. Il dato storico certo è che dopo la lettera di Churchill a Mussolini del maggio 1940, in cui il politico britannico scongiurava il duce a non avventurarsi su una strada senza ritorno, e la replica stizzita dell’inquilino di palazzo Venezia, non avvennero più contatti fra le parti nel corso della guerra. Negli archivi italiani e inglesi altro non c’è, e le chiacchiere sull’argomento, anche se insistenti e alimentate da testimoni dell’epoca, sopravvissuti alla burrasca post 25 aprile, sono infondate. Il beneficio del dubbio ovviamente lascia aperta ogni porta, specie considerando come la catalogazione delle carte che Mussolini aveva con sé al momento della cattura fu frettolosa e sommaria; nulla però fu ritrovato ne’ allora ne’ poi per confermare questa versione. Molto invece venne inventato di sana pianta da Enrico de Toma, ex (sedicente) ufficiale della GNR, Tommaso David, capo di una rete spionistica fascista formata da esuberanti lolite in camicia nera, e Ubaldo Camnasio, falsario professionista. Dotati di fervida fantasia, spregiudicatezza e senso degli affari, il terzetto, riuscì a produrre false lettere e documenti apocrifi, incassando consistenti anticipi da editori “di grido” degli anni ’50, e tentò pure la via ricattatoria nei confronti delle istituzioni democratiche, minacciando rivelazioni esplosive ai danni dei principali leader politici italiani. Il gioco fu ben condotto fino ad alcuni passi falsi di de Toma, che portarono in fasi successive al processo e alla condanna dei protagonisti. La vicenda giudiziaria  si esaurì all’inizio degli anni ’60, ma l’onda lunga della “leggenda del carteggio” è invece proseguita fino ai giorni nostri, in modo carsico e produzioni letterarie di diseguale valore, tutte però unite dall’inconsistenza documentale e dalla vacuità delle testimonianze; fa specie comunque che si sia dato credito per così lungo tempo ad una fumisteria pseudo storica, senza che nessuno, prima di Franzinelli, fosse andato a fare l’unica cosa sensata, ossia controllare le cronache giudiziarie del dopoguerra, dove si potevano rinvenire senza fatica tutti i protagonisti di questa vera e propria truffa. Ulteriore dimostrazione di come il nostro paese, in fondo, ami davvero poco conoscere la propria storia.

Crudeli concittadini

Simon Levis Sullam, I carnefici italiani, Milano, Feltrinelli, 2015

Alla fine, insomma, non eravamo così buoni come ci eravamo dipinti; anche se, a onor del vero, da Simon Wiesnthal a Raul Hilberg in tanti, anche fuori dal nostro paese, avevano detto che nell’attuazione del genocidio fummo marginali, e comunque eravamo meno peggio delle SS e dei loro volenterosi boia di mezza Europa. Levis Sullam ricorda invece in questo agile saggio come dal momento in cui venne insediato dai nazisti il governo fascista repubblicano, il coinvolgimento delle forze dell’ordine nel piano di deportazione e genocidio fu generalizzato e ramificato in tutti i gangli della pubblica amministrazione. In sostanza, a cercare (e trovare) nelle proprie abitazioni, in rifugi improvvisati, o nelle zone di confine con la Svizzera e a consegnarli alla macchina infernale dello sterminio, furono senz’altro le camicie nere, ma anche carabinieri, finanzieri, poliziotti e guardie municipali, spesso ben aiutati da zelanti segnalatori all’interno della burocrazia statale o semplici cittadini comuni, dai portieri di condominio ai vicini di casa desiderosi di impossessarsi di ricchezze vere o presunte. Tutto questo, per chi si occupa di storia in modo scientifico, è assai poco stupefacente: pur mancando un opera complessiva sulla collaborazione delle forze di polizia nel periodo 1943-45 (carenza oggettivamente grave a oltre 70 anni dai fatti in questione) erano da tempo reperibili in numerosi lavori accademici le tracce del comportamento poco commendevole di chi continuò a servire lo stato, indipendentemente se sul tricolore c’era lo scudo sabaudo o l’aquila littoria, e se una azione repressiva poteva riguardare indifferentemente dei borsaneristi o dei cittadini italiani colpevoli di professare la propria religione. L’analisi di questo tipo di meccanismo omicida, lo stesso che in Francia portò la polizia di Parigi ad anticipare gli ordini dei nazisti e a effettuare la retata del velodromo d’inverno, ha conosciuto scarsa fortuna negli studi nel nostro paese, se non per qualche ricerca di storia locale o di compendi di maggiore respiro, ma non analitici. Secondo l’autore, questa carenza è la rappresentazione di un paese che si è autoassolto dalle proprie responsabilità nella Shoah; secondo chi scrive, invece è una ulteriore prova della scarsa attitudine degli studiosi italiani a trattare le vicende delle di polizia in chiave storico-militare, preferendo indagini di taglio politico o sociale. Insomma, a nostro parere è difficile distinguere fra “il dolo” e “la colpa” in questa carenza di bibliografia (spazio poi riempito da agiografie scarsamente attendibili), ma resta il risultato finale: delle questure repubblichine e del loro personale, salvo eccezioni pregevoli, si sa davvero poco. Sull’aver creato poi delle oleografie di alcuni funzionari i quali – almeno nelle intenzioni – provarono a mettersi di traverso rispetto alla “banalità  del male”, siamo infine meno tranchant di Levis Sullam. Forse non saranno stati dei santi  (e nemmeno dei santini) ma quantomeno non attentarono alle vite e agli averi dei loro concittadini marchiati con la stella di Davide.

Morire per sfortuna

Luca Fazzo, L’ultimo fucilato, Milano, Mursia, 2015


Di Giovanni Folchi, ufficiale dell’aviazione di Salò, si può dire di tutto, tranne che fosse un uomo fortunato: fu fucilato quando ormai la maggior parte dei militari della RSI passati attraverso le corti d’assise straordinarie (CAS) alla volta del 1946, poteva dirsi scampata alla pena capitale, indipendentemente dalla gravità dei propri addebiti. Come è dimostrato da numerosi studi scientifici, finita la bufera successiva alla liberazione e terminati i solerti procedimenti dei tribunali insurrezionali, la giustizia amministrata in nome del luogotenente Umberto II, sia pure nelle forme spicce delle CAS, aveva ripreso modi e procedure tutto sommato accettabili per una nazione che veniva da una guerra civile sanguinosa e da vent’anni di dittatura fascista: coloro che furono passati per le armi prima dell’amnistia firmata da Palmiro Togliatti e della successiva abolizione della pena di morte, avvenuta nel 1948, furono infatti meno di cento. Folchi fu l’ultimo fucilato a Milano e dopo di lui finirono davanti al plotone d’esecuzione alcuni fascisti spezzini nel 1947; gli altri la fecero franca, e quasi tutti a meno di dieci anni dalla fine della guerra erano in libertà. La vicenda giudiziaria di Folchi è comunque paradigmatica di come, per una serie di coincidenze non favorevoli, si potesse terminare la propria esistenza in modo cruento e in tempo di pace con colpe senz’altro inferiori a quelle di alcuni caporioni con atrocità di ogni genere sulla propria coscienza. Il meccanismo può apparire perverso con l’occhio di oggi, ma in realtà fu assai meno peregrino di quanto si possa intuire con l’occhio di oggi: la cattura (a dire il vero Folchi si consegnò spontaneamente al CLN), accuse fumose poi confermate da alcuni testimoni con memoria buona e diversi conti da regolare, la presenza in episodi cruenti che avevano particolarmente colpito l’opinione pubblica milanese, e – ahimè – un avvocato incapace o svogliato, o entrambe le cose. Resta il fatto che il protagonista del volume di Luca Fazzo, di certo non uno stinco di santo, poteva serenamente sfangarla, come tanti altri. Inoltre, nel ripercorrere la storia di Giovanni Folchi, l’autore fa luce su uno dei meno conosciuti reparti della RSI, ossia il cosiddetto battaglione “Azzurro” (da non confondersi con un omonimo reparto del reggimento “Folgore”), in realtà “ IX battaglione AP” (antiparacadutisti) formato da personale in esubero dei reparti di volo e di terra della evanescente aviazione di Salò. Nella macchina repressiva organizzata dai tedeschi a Milano, la formazione ebbe il suo ruolo, forse meno appariscente di altre unità, come la legione autonoma “Ettore Muti” o la brigata nera “Aldo Resega”, ma comunque utile al mantenimento dell’ordine pubblico nella metropoli meneghina. L’ufficiale ebbe le sue colpe, insomma, ma non più e non meno di tanti altri che nel giro di qualche mese si trovavano già in libertà, magari rientrati alle proprie occupazioni abituali. Lo studio di Fazzo è una ulteriore prova di come la giustizia postbellica fu incomprensibile e farraginosa, e anche per questo motivo – in conclusione – spesso ingiusta. Tare, purtroppo, destinate a riprodursi sostanzialmente uguali nei decenni a venire.

lunedì 26 gennaio 2015

Vite in camicia nera

Specializzati nell’antiguerriglia
Federico Ciavattone, Gli specialisti, Mattioli 1885, Parma, 2014

Le storia delle formazioni della RSI impegnate nella controguerriglia ha avuto un andamento diseguale nella storiografia scientifica; di alcuni reparti, specie negli ultimi vent’anni, sono state scritte monografie di notevole spessore ed interesse, mentre di altre unità è rimasta solo una “leggenda nera”, difficile da sfrondare se non con accurate ricerche d’archivio. Dei RAU, i Reparti arditi ufficiali dell’esercito di Graziani sino ad oggi praticamente nulla o quasi si sapeva, così come della “Squadra x” di cui si scopre l’esistenza solo grazie alle meticolose indagini di Federico Ciavattone sul processo di evoluzione delle dottrine antiguerriglia della RSI. Ed è questo, probabilmente, il filone di indagine più interessante affrontato dall’autore, ossia le modalità con cui lo stato maggiore dell’esercito di Salò cercò di sviluppare, in modo autonomo sia dagli occupanti-alleati nazisti, sia dalle formazioni in camicia nera, una propria strategia della guerra al movimento partigiano nel nord Italia. A leggere le circolari, le relazioni e le dispense elaborate dagli “specialisti” di Rodolfo Graziani, si osserva come l’esperienza della lotta al movimento di liberazione jugoslavo fosse probabilmente l’ispirazione principale, specie per la necessità di acquisire il maggior numero possibile di informazioni sugli avversari e la conoscenza minuziosa del territorio. Stupisce invece la totale assenza di confronto con la Wehrmacht, che sul tema aveva sviluppato una propria dottrina in continua evoluzione a seconda dei momenti e dei teatri di guerra. I reparti arditi ufficiali furono il prodotto ultimo di queste analisi: formazioni di non grandi dimensioni, composte da ufficiali di diverse età e in “esubero” rispetto alle unità grandi e piccole e ai centri di comando territoriali della RSI (sulla transumanza di una parte non trascurabile dei quadri dell’esercito dalle forze armate regie a quelle salotine andrebbe scritto un libro a parte …) specificamente addestrate a lottare con metodi di “controbanda” grazie alla rete informativa della Squadra x” che a Torino aveva approntato una centrale informativa e di spionaggio antipartigiano. L’autore segue con attenzione nascita, sviluppo e conclusione di questo esperimento, constatando come la situazione per la repubblica di Mussolini fosse ormai talmente deteriorata da fare risultare l’influsso dei RAU praticamente nullo nelle vicende militari del 1945, anche se non mancarono isolati successi, contrassegnati perlopiù da rappresaglie sanguinose sul movimento di liberazione e i suoi fiancheggiatori. Siamo grati a Ciavattone per aver dimostrato una volta di più come sulla stagione della guerra civile ci sia ancora molto da conoscere e da scrivere, specie nell’ambito della storia militare.

La fiamma della vita
Aldo Grandi, Almirante, Sperling&Kupfer, Milano, 2014

A oltre venticinque anni dalla morte e dopo una mezza dozzina di agiografie, non di rado stucchevoli, Aldo Grandi ricostruisce la “storia definitiva” del leader indiscusso dell’estrema destra italiana. L’apparato documentario e bibliografico utilizzato dall’autore è decisamente notevole, senza sacrificare la lettura, che risulta godibile, grazie anche ad uno stile disincantato e lontano da pregiudizi ideologici. La vita di Giorgio Almirante viene ricostruita a partire dall’infanzia, influenzata fortemente dalla famiglia di provenienza (composta da rinomati attori teatrali) e da una precoce vocazione giornalistica. L’adesione di Almirante al regime è forse non subitanea, ma totalizzante, almeno dal momento in cui poco più che ventenne entra nella redazione de “Il tevere”, periodico schierato su un intransigentismo non privo di venature razziste; senza dubbio l’aperta ostilità nei confronti degli ebrei è una delle parti distintive della fede politica almirantiana, manifestata poi in modo aperto e plateale ne “La difesa della razza” testata di punta dell’antisemitismo italiano. Allo scoppio della secondo conflitto mondiale Almirante è un giornalista conosciuto e stimato all’interno del partito fascista, e le sue corrispondenze dal fronte di africano ne fanno un inviato di guerra su cui contare per l’adamantina fedeltà agli scopi e ai fini della guerra mussoliniana. L’armistizio lo coglie alla sprovvista, ma la sua adesione a quella che chiamerà “l’epopea della patria” (ossia la cupa repubblica gardesana) è entusiasta e praticamente immediata. Almirante nel giro di qualche mese diventa il capo di gabinetto del ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma, distinguendosi per il fanatismo oltranzista e per la sua  la sua militanza nella brigata nera costituita dagli impiegati dei ministeri sfollati a Salò e dintorni. La fine della guerra coincide con l’inizio della latitanza, anche se, come sottolinea l’autore, non ci sono mandati di cattura specifici nei confronti dell’ex giornalista repubblichino. E’ questa forse una delle parti più interessanti dello studio, perché getta luce sulla gestazione del MSI e sulla inquieta vita privata del suo segretario, indagata in modo esaustivo e senza compiacimento letterario. Il seguito, ossia l’incontestata leadership del maggiore partito politico della destra italiana (anche quando Almirante non fu leader del movimento sociale, ne restò comunque l’immagine pubblica più conosciuta) ripercorre sentieri conosciuti, anche se non manca una analisi dettagliata dei momenti critici, dal ’68 al tentativo di golpe organizzato da Junio Valerio Borghese, passando attraverso la stagione del terrorismo, nero e rosso. Il crepuscolo di Giorgio Almirante è, in realtà, la stagione in cui riesce a gettare con successo le fondamenta del suo progetto politico, ossia lo “sdoganamento” del post fascismo e la sua integrazione nel sistema partitico italiano, che sarà realizzata, come noto, dal suo delfino, Gianfranco Fini. Grandi, autore abile e scrupoloso, rende idealmente l’onore delle armi ad un uomo di cui apertamente non condivide ne’ idee ne’ appartenenze, ammettendone comunque la levatura, nella attuale stagione in cui – purtroppo – di politici memorabili ce ne sono sempre meno.

Quando eravamo fascisti
Mario Avagliano – Marco Palmieri, Vincere e vinceremo!,  Il Mulino, Bologna, 2014



Avagliano e Palmieri proseguono il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire” degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso dalla propaganda fascista i temi e la retorica. Il mito del presunto e progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori: i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del 1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di qualche mese il crollo del regime comunista. Se già in diversi studi dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. Se il 1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio dell’8 settembre. In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire. Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per affrontare il passato. E anche il presente.