venerdì 30 ottobre 2015

Italiani ebrei, italiani fascisti, italiani profughi

Italiani ebrei
Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani nel XIX e nel XX secolo, Milano, Mondadori, 2015

La vicenda degli ebrei del nostro paese nel corso dell’800 e del ‘900 tratteggiata da Calimani ha numerosi motivi di interesse, ma lascia diversi interrogativi su alcune interpretazioni offerte nell’opera. Senza soffermarci su quanto di buono c’è in questo affresco su fatti e personaggi che hanno segnato la storia della nazione italiana, e non solo dell’ebraismo, due soprattutto restano, a nostro avviso, gli snodi meno convincenti, ossia il rapporto degli isrealiti con la chiesa prima e col fascismo poi. E’ indubitabile che nella seconda parte del XIX diverse fazioni dell’antisemitismo religioso abbiano trovato appoggio (invero mai largo ne’ diffuso a livello popolare come nell’est europeo) all’interno della chiesa nel nostro paese; ci sono però circostanze e vicende che potrebbero aiutare a capire meglio il trauma irrisolto che fu la fine del potere temporale; l’autore infatti un (po’ frettolosamente) fa risalire al pessimo rapporto fra cattolicesimo e modernità la pervicace volontà di mantenere vivo un antisemitismo fondato su leggende terrificanti e ignobili. Quella stagione, in realtà, fu complessa, e gli strali della stampa più cattolica più intransigente non prendevano solo di mira gli ebrei, ma anche i massoni e successivamente i socialisti, tutti messi sullo stesso piano come cause del decadimento nei valori tradizionali. Dall’altra parte, e questo Calimani poco lo mette in luce, il neonato regno d’Italia si impegno con zelo degno di miglior causa a scristianizzare il paese partendo dalle scuole per finire ad ogni altro ganglio della nuova nazione; pare quindi che Pio IX combattesse contro i mulini a vento in un paese in cui i sudditi cattolici, ossia la quasi totalità, erano riveriti e rispettati. Non era così, e probabilmente a quel papa e ai successivi occorrerebbe concedere quantomeno le “circostanze attenuanti” per come si rapportò con l’Italia in generale e con gli ebrei in particolare. Per quanto concerne le relazioni con il fascismo, ci pare abbastanza discutibile la rappresentazione di un Mussolini animato da saldi principi antisemiti fin dai tempi della sua ascesa al potere, e, di converso, di comunità israelitiche indifferenti se non addirittura ostili al movimento delle camicie nere. In realtà gli appoggi mai celati e anzi semmai evidenziati a più riprese da parte di elementi di spicco dell’ebraismo italiano all’azione fortemente nazionalista del duce non sono mai stati mistero per nessuno. E senza andare a scomodare l’istruttiva lettura delle opere di Giorgio Bassani, fa davvero specie lo scoprire solo a p. 407 che Ferrara ebbe per lustri un podestà ebreo, fascista convinto, dimessosi solo nel 1938, alla vigilia delle leggi razziali. In conclusione, se il lavoro di Calimani è nel complesso una narrazione ben costruita di una storia complessa e articolata, lasciano perplessi i giudizi talvolta superficiali su questioni non secondarie, che hanno da sempre interpretazioni divergenti nella storiografia.
  
Un altro teatro
Simone Cristicchi - Jan Bernas, Magazzino 18, Milano, Mondadori, 2015

Ci siamo avvicinati con curiosità al volume che è il canovaccio del discusso lavoro teatrale di Simone Cristicchi. E la cosa che più ci ha colpito è l’incomprensibilità del motivo per cui lo spettacolo non sia solo “discusso” ma talvolta pure denigrato, ostacolato, pubblicamente contestato e fatto oggetto di sgradevoli manifestazioni di intolleranza, come minacce scritte e verbali. Ora sappiamo bene di non trovarci di fronte a un volume di ricerca storica, ma gli appunti e le spiegazioni che troviamo nelle prime pagine, non ci paiono lacunosi, anche perché, a nostro avviso, se si parla di Foibe non è possibile che ogni volta si debba ricostruire “ab ovo” l’intera vicenda etnica dell’Istria, in modo da distribuire torti e ragioni in modo politically correct. Cristicchi fa il cantante e l’attore, e non fa lo studioso e le tracce che lascia al lettore sono quelle – a nostro modesto avviso – sufficienti a comprendere due o tre cose fondamentali: gli italiani c’erano già ai tempi dell’impero austroungarico, dopo il 1918 si sono comportati spesso malamente con sloveni e croati, per diventare intollerabili vicini di casa, dopo il 1922 e l’avvento del regime fascista. Dal 1941 fummo occupanti straccioni e crudeli, e le vicende resistenziali del 1943-45 poco contribuirono a migliorare i nostri rapporti con le popolazioni slave. Questa parte, sia nel volume che nello spettacolo teatrale non vengono negate mai, in nessun momento; così come la vicenda delle decine di migliaia di civili italiani costretti alla fuga, dopo aver subito vessazioni e crudeli vendette, ci pare narrata con equilibrio; non ci sono dettagli granguignoleschi, non si calca la mano sulla pulizia etnico-ideologica operata da Tito, che comunque tale fu, e riguardò certamente non solo i nostri compatrioti, ma anche le minoranze tedesche e ungheresi, le quali subirono trattamenti per nulla diversi da quelli ricevuti dagli istriani o dai dalmati. Il quadro che emerge è quello di una popolazione che pagò in solido le scelte sciagurate del regime fascista (altra verità che non ci pare oscurata nel volume) senza avere altra colpa se non quella di essere italiani dalla parte sbagliata del confine. Senza entrare nelle sofferenze delle narrazioni individuali, il Magazzino 18 che dà il titolo all’opera è davvero il monumento all’indifferenza nazionale non tanto e non solo verso una minoranza alla quale è stato richiesto esclusivamente di adattarsi, meglio se in silenzio, quanto, più in generale, nei confronti della storia recente del paese. Infatti, le masserizie che ancora ingombrano i locali nei pressi del porto di Trieste sono stati semplicemente dimenticati per decenni, e lo sarebbero stati ancora oggi, se un bravo cantautore non avesse deciso di togliere la polvere da quelle testimonianze di una intimità e di una serenità persa per sempre. E di questo non possiamo che essere grati a Simone Cristicchi.
  
Le vite degli altri
Nicola Adduci, Gli altri, Milano, Franco Angeli, 2014


L’esplorazione delle vicende di Salò a livello locale continua a riservare sorprese, specie per quanto riguarda le regioni dove il fenomeno dell’adesione all’ultimo fascismo fu precario e sostanzialmente insignificante; non per questo meno interessante, non fosse altro perché si deve illuminare la vicenda di chi in prima persona combatté in modo sanguinoso la guerra contro civili e partigiani. Lo studio di Nicola Adduci è pregevole sotto ogni punto di vista, specie per quanto concerne lo spaccato sociale dei capi e dei gregari che si misero a disposizione dei tedeschi in una città, Torino, che aderì in modo straripante al movimento di liberazione. La sensazione, come spesso accade in questi casi, è quella di uno straniamento totale non soltanto rispetto al comune sentire della popolazione, ma anche rispetto alla logica delle cose: ci resta impresso, al riguardo, l’ordine di servizio esposto il 26 aprile 1945 alla casa littoria, con il quale si invitavano le camicie nere a mantenere la calma e a restare tranquilli in quanto, ormai a insurrezione conclamata, la situazione non appariva “ne’ tragica ne’ preoccupante”. In realtà non è soltanto nell’ultimo spasimo che il fascismo repubblicano del capoluogo piemontese risulta un corpo estraneo alla società civile, ma si può dire che questo è il tratto caratteristico di tutto il percorso del PFR nella città della mole. La nascita precaria, la stentata esistenza, e il violento parossismo finale delle camicie nere torinesi hanno poi come tratto unificante l’estrema esperienza politica di Giuseppe Solaro; il trentenne responsabile della federazione prima e della brigata nera poi, si rivela elemento tanto radicale  quanto ingenuo e idealista nella gestione del suo incarico, circondandosi da un nucleo di fanatici disposti a tutto pur di lasciare il proprio segno omicida nella storia di una città che aveva fatto letteralmente il vuoto attorno agli squadristi dell’ultim’ora. Ed è proprio l’ultima ora delle camicie nere quella che rappresenta, più di ogni altra violenza, il disperato nichilismo della sparuta pattuglia dei fedelissimi al duce in fuga; il cecchinaggio che per giorni provoca decine di morti e feriti fra patrioti, insorti e semplici passanti nelle strade del capoluogo piemontese, ben più organizzato e oltranzista di quello fiorentino, è probabilmente il più autentico manifesto politico di Solaro e dei suoi accoliti; assai più credibile delle zoppicanti socializzazioni fuori tempo massimo o dell’attacco (verbale) ai “poteri forti” dell’economia industriale torinese. La conclusione, prevedibile, di questa violenza omicida inferta senza riguardi, fu la violenza moltiplicata, contro i colpevoli e anche contro i sospetti, o gli innocenti (va detto), che portò lo stesso sprovveduto federale sotto al cappio di corso Vinzaglio, e i suoi collaboratori davanti ai plotoni di esecuzione partigiani. Il meticoloso lavoro di ricerca di Adduci affronta senza timori reverenziali anche questa pagina di terribile ira popolare, spesso tralasciata in precedenti lavori sulla resistenza torinese. Anche per questo motivo non possiamo che essere grati all’autore.