martedì 29 dicembre 2009

Vom Kriege

Adolf Hitler senza veli
Helmut Heiber (a cura di), I verbali di Hitler (2 voll.), Gorizia, LEG, 2009

Si tratta della prima edizione italiana di un volume già edito in Germania, e che purtroppo con incredibile ritardo viene ora tradotto grazie alla Libreria Editrice Goriziana, che mette così a disposizione degli studiosi di storia una documentazione fondamentale per affrontare la “grand strategy” nazista durante la seconda guerra mondiale.
I due tomi raccolgono i verbali stenografici delle riunioni militari presiedute da Adolf Hitler nel periodo dal 1942 al 1945, e la stessa genesi di questi documenti la dice lunga su come venisse condotta la guerra dai tedeschi; fu il Führer infatti a chiedere di verbalizzare integralmente le sue parole per essere certo che i suoi ordini venissero eseguiti e non “interpretati”. Questo ci permette oggi di poter osservare senza possibilità di equivoci non solo la ferocia di Hitler, ma anche la sua sconcertante pochezza di conoscenze militari, mai in alcun modo contrastata da uno stuolo di generali e gerarchi in genere invece impegnati ad assecondare i madornali errori e le manie ideologiche del loro capo.
Da un certo punto di vista non escono altro che conferme dell’atmosfera opprimente e sinistra che regnava all’interno dell’alto comando delle forze armate, ben descritta non molti anni fa da Bernd Freytag von Loringhoven nel suo “Nel Bunker di Hitler” (Torino, Einaudi, 2006). Come faccia il generale Fabio Mini, nella sua introduzione all’edizione italiana del volume, a trovare qualsiasi traccia di razionalità nelle parole del Führer e del suo staff, ci appare misterioso. Discutibili inoltre i giudizi del curatore Helmut Heiber, i quali in molti casi fanno trasparire simpatie nostalgiche (Heiber era un giovane ufficiale della Luftwaffe): l’armistizio italiano è un “tradimento”, quello rumeno “un voltafaccia”, i sovietici sono “le orde bolsceviche” e così via. Piuttosto irritanti inoltre le frequenti imprecisioni nella traduzione italiana dei termini militari (ma anche i toponimi sono spesso bistrattati): i “cacciatori paracadutisti” (Fallschirmjaeger) altro non sono che i “paracadutisti”, le “divisioni campali” della Luftwaffe (Feld-division) altro non sono che “divisioni” tout court, i “cannoni d’assalto” (Sturmgeschutz) sono i “semoventi”, e il “reparto ultrapesante cacciatori di carro” (sic!) altro non è che lo Schwere Jagdpanzer Abteilung. In realtà bene si sarebbe fatto ad utilizzare ovunque le espressioni tedesche, come nel caso della conosciutissima “Panzer-Lehr Division” tradotta malamente con “divisione corazzata di addestramento” che poco o nulla significa in italiano.
A margine di un opera così corposa e complessa segnaliamo comunque alcuni dettagli che bene rendono la mentalità di Adolf Hitler: gli italiani, dopo l’armistizio, semplicemente scompaiono così come l’”amico” Mussolini; inutile poi sottolineare che nelle riunioni del 1942-43 le forze armate italiane sono state oggetto dei lazzi e dei frizzi dei comandanti dell’OKW e dello stesso leader del nazismo. Quando nell’ottobre 1944 il Führer scopre che ci sono ancora degli aviatori italiani (evidentemente della RSI) i quali hanno abbattuto alcuni aerei americani, mostra tutto il suo stupore, tanto che il rappresentante della Luftwaffe Eckardt Christian si affretta ridicolmente ad aggiungere che “… hanno capisquadriglia tedeschi”, tanto da suscitare l’irata risposta di Hitler, il quale evidentemente sui “suoi” aerei non voleva piloti che non fossero “Reichsdeutsche”. Concetto ben espresso alla vigilia della fine, quando ormai nel bunker di Berlino viene a sapere che fra i suoi ultimi difensori ci sono i francesi delle SS, sui quali l’editoria neonazista europea ha creato una mitologia a tutt’oggi dura a morire, il suo giudizio su questi uomini è inequivocabile: “non mi servono a nulla 300 francesi!”. Questa la riconoscenza del leader del nazismo nei confronti di fanatici venuti a morire per un capo che li disprezzava senza se e senza ma.

Luce sull’intelligence
Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti, Milano, Ponte alle Grazie, 2009

Questa indagine di Aldo Giannuli ha il non irrilevante pregio di essere redatta in modo leggibile, documentato e soprattutto privo di cascami ideologici. L’autore ha – per forza di cose – una sua personale opinione sul complesso mondo dei “servizi riservati” (per usare una definizione di Francesco Cossiga), ma in ogni modo cerca di condurre per mano il lettore perché sia quest’ultimo a farsi un’idea di cosa sia “buono” e “cattivo” in un ambito in cui queste due qualità rivelano caleidoscopiche sfaccettature.
Così, “sine ira et studio”; l’autore, dopo una breve premessa storica, ci spiega cosa siano i servizi segreti dell’età contemporanea, con una veloce carrellata delle principali caratteristiche degli stessi, partendo davvero dall’ABC, in modo tutt’altro che banale (si veda ad esempio la spiegazione di cosa sia una “informazione” e del suo uso ai fini della difesa dello stato). Anche la descrizione di cos’è l’ “intelligence” parte da elementi semplici sino a condurre alle più complesse conclusioni, come quella – in apparenza sconcertante – che gli agenti dei servizi operano in un limbo al di sopra e (talvolta) al di fuori della legge, giustificati dal fatto che quanto fanno è in nome e per conto dei fini della difesa dello stato: concetto in apparenza limpido e lineare, ma in realtà tutt’altro che univoco. Già da queste premesse appare evidente che chi si voglia avvicinare senza pregiudizi all’argomento debba avere alcune conoscenze di base di storia militare, e Giannuli con correttezza, ammette che le rare indagini scientifiche sul mondo dei servizi siano stati patrimonio quasi esclusivo di studiosi di cose militari; il fatto che questa disciplina abbia sempre conosciuto scarsa fortuna nel nostro paese, ahimè, la dice lunga sulle ragioni per cui dell’intelligence si è sempre parlato in termini cupi e oscuri, oppure, al contrario, con le sgargianti tinte dei James Bond “de’ noartri”.
In realtà l’uomo dei servizi è (ed è stato) in genere di un grigiore burocratico deprimente: un po’ più di un poliziotto ma un po’ meno di un funzionario di qualche ministero, pagato (se spia o confidente) e spremuto come un limone finché in grado di fornire elementi utili all’agenzia che lo utilizza, e di seguito gettato alle ortiche, se non peggio. Se componente integrale dei servizi è destinato a carriere incolori, al seguito di cordate interne non diverse da quelle che esistono in qualsiasi ministero della nostra Italia repubblicana, e come tale soggetto a passare da polvere ad altari (e viceversa) con rapidità fulminea. Insomma un mondo chiuso, autoreferenziale, e proprio per questo spesso oggetto e soggetto di inquinamenti, infiltrazioni e contaminazioni di ogni tipo e colore.
E’ questo semmai uno dei punti in cui dissentiamo da alcune delle analisi dell’autore, come quella di un’analisi della guerra fredda nel nostro paese un po’ troppo univoca; in estrema sintesi, “i servizi manipolati dalla CIA contro il PCI” di cui parla Giannuli sono una parte di una storia assai più complessa, in cui c’erano canali informativi, finanziari e fedeltà doppie in maniera ben radicata pure dal versante del più importante partito comunista dell’Europa occidentale, come hanno dimostrato “ad abundantiam” (e spesso in un silenzio assordante) il compianto Victor Zaslavsky e Salvatore Sechi. L’idea che il PCI post Togliattiano avesse tagliato i ponti con il mondo di Oltrecortina è infatti una leggenda: rapporti e legami vi furono anche in piena epoca berlingueriana, fino alla caduta del muro di Berlino.
La conclusione del volume è forse la più interessante di tutto lo studio: cosa fanno oggi i servizi? Scopriamo che – in senso lato – fanno veramente di tutto, per conto di stati sovrani, per potentati economici, e per lobby politico-finanziarie. Guerra politica ed economica si sovrappongono, sino a rendere faticoso il confine fra l’una e l’altra. I fini e i mezzi della lotta comprendono uno spionaggio tecnologico sistematico i cui attori – senza troppe difficoltà – sono professionisti che passano da operazioni coperte per conto di una nazione ai danni di un’altra, ad agire come “consulenti” per multinazionali decise a conquistare mercati economici e finanziari.
Scandalizzarsi di tutto questo sarebbe come scandalizzarsi della storia del mondo. E per questo motivo siamo grati allo studio di Giannuli e alla serenità con cui questo ricercatore ha affrontato lo spinoso argomento delle “spie”.

Sulle guerre
Nicola Labanca (a cura di), Guerre vecchie, Guerre nuove, Milano, Bruno Mondadori, 2009

Nicola Labanca è uno dei più autorevoli studiosi di storia militare, neglettissima disciplina (come anche Giannuli sottolinea nel suo volume dianzi commentato) che però è indispensabile per la comprensione di numerosi aspetti della realtà contemporanea. In veste di autore e curatore, lo studioso fiorentino ci propone una rassegna di alcuni fra i più importanti interventi degli ultimi anni sul tema della guerra, o meglio “delle guerre”, e della loro evoluzione nel corso degli ultimi cinquant’anni. Le guerre “vecchie”, Clausewitziane, sono diverse dai conflitti “nuovi”, dell’epoca post-bipolare? E se sì, in cosa? Sono domande che hanno provocato uno straordinario dibattito dentro e fuori dal mondo accademico di tutta Europa, e assai meno in Italia, come sottolinea Labanca. Questo, ovviamente, al netto dei pochi addetti ai lavori che si sono confrontati fra loro in una sorta di “cenacolo di iniziati”, ossia coloro che ritengono che la storia della guerra sia dignitosa come la storia delle riforme agrarie a Roccacannuccia, affermazione che parrebbe banale, ma che invece non lo è affatto, vista la massa di studi sulle più marginali manifestazioni dell’ingegno umano e la scarsità di riflessioni sugli eventi bellici che hanno segnato la nostra epoca.
I saggi presentati nel testo, inediti sino ad oggi in italiano, hanno come filo conduttore le riflessioni che una decina di anni fa la studiosa Mary Kaldor aveva espresso nel suo classico “Le nuove guerre” (Roma, Carocci, 1999) – altre sue riflessioni, anche autocritiche, sono presenti nel volume curato da Labanca – le quali rappresentavano un’evoluzione dei conflitti post-guerra fredda nel senso di un coinvolgimento totalitario della popolazione civile, che era passata da “vittima collaterale” a oggetto primario dell’azione bellica prima e politica poi.
Fra i vari interventi riportati nel volume, ci sono parsi particolarmente incisivi quelli di Lawrence Freedman, Vojtech Mastny, e Norman Friedman, tutti incentrati sull’evoluzione delle strategie nucleari americane e sovietiche. Nei saggi in questione, si fa il punto pressoché definitivo sulle direttrici del confronto fra le due superpotenze. Ora, se le linee della politica USA in merito di guerra atomica erano già conosciute, almeno a grandi linee, quelle dell’URSS dall’era staliniana a quella di Breznev, tema affrontato da Mastny, ci sono risultate in gran parte nuove e di straordinario interesse. Sapere a distanza di quasi un cinquantennio che la crisi di Cuba fu tutto sommato una scaramuccia in confronto al confronto berlinese del 1961, apre nuovi cantieri di studio. Inquietante, e degno davvero dell’interesse degli studiosi italiani per il presente ed il futuro, è poi la “summa teorica” degli alti gradi dell’Armata rossa, i quali per un quarto di secolo si baloccarono e si esercitarono sul campo in dozzine di manovre militari per simulare un’offensiva risolutiva in occidente, capace di portare l’esercito sovietico in una settimana sulle sponde dell’Atlantico, tagliando in due l’Europa, ridotta più o meno a un cumulo di macerie atomizzate dall’uso tattico delle testate nucleari (un paio delle quali destinate a trasformare in crateri Verona e Vicenza). Una disciplina confermata “ad abundantiam” in manuali e direttive distribuite a tutti i paesi del patto di Varsavia dagli anni ’50 ai ’70 inoltrati. Alla faccia degli guerrafondai americani…
Degni di interesse inoltre gli studi dedicati a tutte le guerre non convenzionali, che oggi come non mai necessitano di interpretazioni nuove per comprendere tutti i legami che il passato riverbera sul presente, piuttosto che i “cluster”, le cesure che chiudono un’era e ne aprono un’altra. In questo, a parer nostro, forse sta il limite dell’analisi della Kaldor, specie per quello che concerne la sua indagine sulle guerre ex iugoslave. Secondo noi il peso del passato in quel conflitto, ossia quello della seconda guerra mondiale, ci è sempre parso uno degli elementi dominanti di tutto il tragico scenario balcanico, cosa che invece la studiosa inglese pare mettere in secondo piano rispetto agli altri fattori (economici, geografici e politici). Se i croati decisero di armarsi nell’estate del 1991 al grido di “ricordatevi di Bleiburg”, forse il passato che non passa non è un elemento folkloristico, ma una parte essenziale dell’eccesso di violenza di quella guerra civile europea, così vicina e così già dimenticata.



mercoledì 28 ottobre 2009

Recensiamo con colpevole ritardo... (libri che ci siamo lasciati indietro)

Aridagliela ai preti...
Valerio Romitelli, L’odio per i partigiani, Napoli, Cronopio, 2007

In questo agile volumetto Valerio Romitelli, in un centinaio di pagine offre risposte (a parer suo) risolutive sulle ragioni per cui (sempre a parer suo) nella società civile italiana di oggidì esiste uno strisciante e malcelato pregiudizio nei confronti dei partigiani.
L’uomo della strada potrebbe ritenere che ciò sia causato dal fatto che i cosiddetti “gendarmi della memoria” hanno fornito un apparato celebrativo ridondante e assieme versioni edulcorate o fantasiose della guerra civile e del suo esito. In realtà leggendo Romitelli scopriamo ben altro: la prima responsabile dell’odio antipartigiano (ça va sans dire) è la Chiesa italiana per aver profuso per secoli idee bislacche come quelle che far la pace è meglio che scannarsi. In secondo luogo (e questo invero ci pare più interessante) la gente odia i partigiani perché rappresentarono una tipologia di aggregazione “non convenzionale”, come gruppi “spontanei di base” e quindi anti-familiari e anti-ideologici.
A chi invece ebbe il coraggio di rompere il tradizionale familismo veterocattolico italiano, va invece la stima del Romitelli, il quale vede nei “garibaldini” come nei “giellini” del 1944, gli antesignani degli attivisti dei centri sociali. Seguendo la logica dell’Autore, ossia che si dovrebbe avere riconoscenza per chi si raggruppò secondo logiche di gruppi non familiari, non gerarchici e “spontanei”, perché non avere gratitudine, per esempio, per gli uomini della brigata nera di Lucca, i quali si riunirono e si armarono spontaneamente, rompendo i vincoli familiari e trasmigrando al nord, per condurre la loro guerra personale, in nome del proprio schema di valori?
Al lettore – infelice – l’ardua sentenza.

Archeologia militare
Alberto Benuzzi, Gianfranco Relli, Luca Fortuzzi, La gotica ritrovata, Italian Front 1944-45 (voll. 1-2), Verona, Bonomo, 2005, 2006, 2007; http://www.lagoticaritrovata.it/ (2009).

La professione degli autori non è quella degli storici, ma qualsiasi studioso di cose militari dovrebbe avere una sincera gratitudine per i sopra citati “archeologi della seconda guerra mondiale”. Dal 2005 in avanti, infatti, sia in forma edita, sia in versione web, Benuzzi, Relli e Fortuzzi mettono all’attenzione dei ricercatori i loro ritrovamenti di materiale bellico rinvenuto sull’Appennino bolognese, nelle zone in cui avvennero nel 1944-45 alcuni fra i più duri scontri della guerra in Italia.
I reperti rinvenuti sono di notevole interesse, specie per quegli studiosi che anche in tempi recenti si sono impegnati in analisi finalmente approfondite e scientifiche sulle stragi naziste in Italia; verrebbe anzi da dire che – forse – anche lo storico dovrebbe far visita ai campi di battaglia. Come giudicare, infatti, i contenuti del “Der Melder”, il foglio da campo della famigerata 16° divisione SS, fortunosamente rinvenuto in un tunnel nei pressi di Sasso Marconi? Che tracce si possono cogliere dalla mezza dozzina di rarissimi “Bandenkampfabzeichen”, i distintivi tedeschi con cui venivano decorati i militari distintisi nella lotta antipartigiana, trovati, incredibilmente, tutti nello stesso luogo, quasi che i loro possessori se ne fossero voluti liberare prima della cattura? E cosa ci faceva, fra questi, l’altrettanto raro distintivo da berretto della polizia lituana?
Altra scoperta che suggerisce nuovi filoni di ricerca è la straordinaria ricchezza e varietà del materiale di propaganda nazista, che risulta davvero di forme e proporzioni inattese a poche settimane del collasso finale: decine di versioni diverse di volantini in inglese imperniati sul bombardamento di Dresda (e quindi databili non prima della fine di febbraio 1945, ma forse sono di marzo-aprile dello stesso anno), fogli volanti in cui si tenta di demoralizzare gli americani facendo presente che per molti di loro, finita la campagna d’Italia, ci sarà ancora da combattere contro i giapponesi. Documentazione simile fu prodotta anche in brasiliano e in polacco. Uno sforzo davvero immane per una nazione in ginocchio.
Onore al merito, quindi agli “archeologi” bolognesi, con la speranza che esista un punto di incontro fra il loro lavoro e quello degli studiosi accademici.

Figli di emigranti nella RSI
Bruna Pompei, Piero Delbello (a cura di), I volontari di Francia, Trieste, Svevo, 2006.

Il volume sopra riportato raccoglie una larga messe delle fotografie fatte dal diciottenne marò della X Mas Carlo Panzarasa nel corso della sua esperienza bellica fra il 1943 ed il 1945. Si tratta della vicenda, decisamente singolare, dei cosiddetti “volontari di Francia”, un centinaio di giovani e giovanissimi figli di emigranti italiani che, come reazione all’armistizio, decisero di aderire oltralpe alla RSI. Questo gruppo, inquadrato inizialmente nella base italiana di Bordeaux come fanteria di marina, passò alla X Mas nel giugno del 1944, venendo trasferito in Italia e inserito del battaglione “Fulmine” delle truppe di Valerio Borghese.
Il reparto ebbe scontri durissimi con i partigiani in Piemonte (partecipò alla rioccupazione di Alba) e ancor più pesanti nel Goriziano, dove presso Tarnova sostenne una battaglia contro il IX corpus titino da cui uscì pressoché decimato. I “volontari di Francia” si arresero, con altre formazioni della Decima a Thiene, alla fine di aprile del 1945.
Il volume ha poco o pochissimo di scrittura: qualche ricordo, alcuni commenti di reduci. Protagonista assoluto è lo straordinario materiale di Panzarasa: decine di fotografie, tutte di eccellente qualità, che documentano la peculiare vicenda di questi “ragazzi di Salò”. Sono immagini eloquenti: si passa dal clima spensierato e comunque ben lontano dalla cupa ombra della guerra combattuta dei mesi di Bordeaux, in cui i 120 italofrancesi sono addestrati sotto la supervisione degli istruttori del battaglione “San Marco” (anch’essi tutti aderenti alla RSI), alle fotografie di un funerale: quello di sei volontari uccisi dai partigiani, la cui cerimonia, fra labari e camicie nere, si svolge a Venezia. Da questo momento il sorriso scompare dai volti dei decimini, che gli scatti di Panzarasa inquadrano durante la guerriglia antipartigiana nel Cuneese, a Torino e infine nella Venezia Giulia. Anche qui un funerale, quello dei caduti nel corso della battaglia di Tarnova, svoltosi a gennaio 1945 nel duomo di Conegliano.
Nella rassegna che ci pare comunque degna di nota anche per chi non si occupa di storia militare, mancano però tre scatti, gli unici ben conosciuti prima della pubblicazione del volume, in quanto furono segretamente duplicati da un fotografo a Ivrea immediatamente dopo la fine della guerra: le immagini cruente dell’impiccagione del partigiano Ferruccio Nazionale. Una forma di autocensura che purtroppo pesa sul giudizio da dare al volume.

Non tutti gli IMI erano uguali...

Rossella Ropa, Prigionieri del Terzo Reich, Bologna, Clueb, 2008.

L’autrice ha svolto un interessante studio nelle carte del distretto militare di Bologna, inerente l’attività della cosiddetta “commissione interrogatrice”, volta a stabilire il comportamento di circa 9.000 soldati bolognesi al momento dell’armistizio e nei mesi successivi.
Si tratta di un campione abbastanza interessante e rappresentativo del complesso mondo degli internati militari italiani in Germania, che oscillava attorno alle 700.000 unità. I risultati ottenuti, ci paiono degni di interesse, in quanto confermano alcune indicazioni che provenivano, sia pure in modo sommario, dagli studi pionieristici di Gerhard Schreiber e Ricciotti Lazzero e da quelli successivi di Mario Avagliano e Marco Palmieri.
L’elemento che balza immediatamente all’occhio e che davvero dovrebbe portare a nuove analisi, è la divergenza di comportamento di fronte ai nazisti da parte della truppa e degli ufficiali. Il dignitoso e fermo comportamento della quasi totalità dei soldati è contraddetto dalla tendenza generalizzata alla collaborazione da parte degli ufficiali, particolarmente quelli più alti in grado; l’accondiscendenza ai nazisti appare talvolta imbarazzante: emblematico il caso del cosiddetto “campo Graziani”, il lager per ufficiali di Biala Podalska che contò adesioni praticamente totalitarie alla RSI.
Ulteriori elementi giungono a confermare un altro dato di fatto, ossia il comportamento collaborazionista di tutti i battaglioni CC. NN. nei Balcani, confermato dalle deposizioni reticenti, se non del tutto inattendibili, degli ex-militi convocati dalla commissione interrogatrice. Dal poco che si intuisce – e come avevamo scritto alcuni anni fa –le formazioni della MVSN passarono, gagliardetto in testa, dalla parte dei tedeschi fin dalle prime giornate successive all’armistizio.
Un plauso quindi all’autrice, che porta nuovi elementi di studio su questo interessante tema di ricerca.

I volenterosi collaboratori del "nuovo ordine"
Monica Fioravanzo, Mussolini e Hitler – La repubblica sociale sotto il III Reich, Roma, Donzelli, 2009

Uniamo alle precedenti recensioni anche il recentissimo volume della Fioravanzo, in quanto ha il merito non indifferente di riuscire a dire, in modo conciso e approfondito, fatti nuovi sui venti mesi di Salò: cosa non semplice vista la bulimia editoriale e mediatica degli ultimi anni su questo argomento. Peraltro è già titolo di merito il fatto che ci troviamo di fronte ad un’opera in cui non v’è traccia dei ponderosi (e polverosi) volumi neofascisti di Pisanò. Utilizzando invece fonti d’archivio edite e inedite (come quelle del ministero degli esteri tedesco), Monica Fioravanzo dà forma alla sudditanza – invero imbarazzante – della “Duce Italien” nei confronti dell’alleato-padrone nazista. Ed è proprio questo il nodo centrale dello studio, ossia l’alleanza asimmetrica Salò-Berlino, che vide gli italiani nella scomoda posizione di “volenterosi collaboratori” (non diversamente dai vichysti di Petain, aggiungiamo noi) nei confronti del masterplan hitleriano, il quale comunque avrebbe previsto per il nostro paese, nel caso di vittoria dell’asse, una sorta di protettorato a sovranità limitata, ferme restando le annessioni de facto di Alto Adige, Trentino, Veneto, Friuli e Venezia Giulia nel Reich.
La tesi della repubblica lacustre come “male minore”, proposta da vari studiosi, risulta velleitaria ed evanescente: minore rispetto a cosa? Leggendo le missive con cui Mussolini “come italiano e come fascista” protestava per i massacri perpetrati dalla Wehrmacht nel centro Italia, davvero si fa fatica a capirlo. Unica riserva su questo lavoro davvero ben costruito, è il giudizio sull’opera di Renzo de Felice, che a parer nostro, per la sua complessità e articolazione, ci pare non possa essere catalogata fra quelle che hanno proposto una versione “edulcorata” dell’esperienza Salotina. Ma si tratta davvero di cercare il pelo nell’uovo.


martedì 18 agosto 2009

La guerra in casa

L’ultimo Moicano
Angelo Bendotti - Elisabetta Ruffini, Gli ultimi fuochi, Bergamo, Il filo di Arianna, 2008

La strage di Rovetta (BG), nel corso della quale furono uccise 43 camicie nere della legione “Tagliamento”, è diventata oggetto di studio storico dagli anni ’90 grazie alla curiosità di alcuni ricercatori di orientamento agiografico rispetto all’ultimo fascismo, come Lodovico Galli, Massimo Lucioli e Davide Sabatini, o Giuliano Fiorani. A essi si sono aggiunti diversi pubblicisti e giornalisti, con poca dimestichezza della storiografia scientifica, che hanno ulteriormente complicato un quadro già di per sé fosco e sgradevole. Angelo Bendotti, assieme a Elisabetta Ruffini, con ben altra competenza, ci offrono in questo volume una descrizione dell’episodio dettagliata e documentata.
La ricostruzione ci appare inappuntabile, specie nell’inquadramento dei fatti nella generale resa dei conti di fine guerra, e in modo particolare nella ricerca di una tardiva vendetta nei confronti della “Tagliamento” che aveva costellato la Val Camonica di lutti e rovine, uccidendo e torturando decine fra civili e partigiani. Esprimiamo qualche riserva sul fatto che la fucilazione venga raccontata in modo indiretto, tramite le parole dei partigiani raccolte nelle deposizioni processuali successive alla fine della guerra, e in essa ci si imbatta solo a p. 71 del volume; le pagine precedenti e molte delle successive sono dedicate alla “spiegazione”, alla “chiarificazione”, alla “definizione” di cosa era stata la guerra partigiana in quella parte della Bergamasca, e di quanto fosse stato ignobile il comportamento della formazione comandata da Merico Zuccari. La scena madre, ossia il mitragliamento a sangue freddo e senza accertamenti di responsabilità di decine di giovanissimi (alcuni minorenni) avvenuto ormai a guerra finita e la successiva sepoltura sommaria dei cadaveri ci giunge come una eco lontana, senza dettagli di quell’inutile supplizio. Riteniamo da tempo inutile questo eccesso di prudenza: non è possibile che per raccontare un massacro di fascisti si debba sempre partire “ab ovo”.
Poco da dire sul resto dello studio, dedicato al “dopo” ossia alle vicende processuali e storiografiche dell’episodio, che vengono affrontati in modo analitico e documentato. Molto invece ci sarebbe da aggiungere, in termini di giudizi morali, su uno dei protagonisti dei fatti di Rovetta, il comandante partigiano jugoslavo Pavlo Poduje “Moicano”. Onestamente, un uomo che a cinquant’anni dal cruento episodio afferma di provare rammarico “per aver lasciato vivi alcuni di quei ragazzi che erano sui sedici anni” poiché “i piccoli cobra hanno lo stesso morso dei grandi cobra” (p. 129) ci lascia sgomenti. Che differenza c’era allora fra “Moicano” e il suo irriducibile avversario Merico Zuccari, il quale minacciava di morte chiunque avesse dato anche solo un bicchier d’acqua ai partigiani?

Agiografia in salsa germanica
Franz Kurowski, Il commando di Hitler, Gorizia, Leg, 2009

Fra le carenze della storiografia militare sulla guerra in Italia, c’è l’inesplorato capitolo dei reparti “speciali” che i tedeschi utilizzarono specificamente per combattere i partigiani. Negli studi di Lutz Klinkhammer e soprattutto Carlo Gentile, ha acquistato in anni recenti un grande peso l’attività dei reggimenti Brandenburg, l’equivalente germanico delle truppe speciali alleate, come i “Rangers” americani o i “Commandos” britannici. Franz Kurowski, prolifico autore di opere agiografiche sulla Wehrmacht, pubblicò nel 1995 questo studio, ora tradotto (in modo purtroppo non commendevole) in italiano, che spiega quantomeno per sommi capi l’attività di questo reparto.
L’opera, dal tono divulgativo e costellata da aneddoti e divagazioni dal tema principale, tratteggia la preparazione meticolosa del braccio armato dell’Abwehr, i servizi di spionaggio e controspionaggio della Wehrmacht. I “Commandos” tedeschi furono decisivi nelle operazioni contro la Polonia, il Belgio, l’Olanda e la Francia; in altri scacchieri, come quello russo, africano e mediorientale, condussero operazioni non sempre coronate da successo, ma certamente organizzate e gestite in modo impeccabile. Dal 1943 i reparti Brandenburg furono ampliati sino allo status divisionale, anche se vennero utilizzati come grande unità organica solo verso il termine della guerra, e da quel momento l’attività antipartigiana fu la principale modalità di utilizzo della formazione.
Di questo periodo troviamo nel libro di Kurowski solo frammentarie informazioni, che riguardano perlopiù i Balcani, e sempre prive di quanto di sgradevole c’è sempre in questo tipo di guerriglia: rappresaglie, fucilazioni, incendi di villaggi (qualcosa, solo en passant, si rinviene nella descrizione di alcune operazioni condotte in Grecia). Grande assente del volume è l’attività del 3° reggimento Brandenburg, e soprattutto del suo 2° battaglione, che operò in Italia dall’ottobre 1943 al dicembre 1944, e che fu coinvolto in numerosi episodi sanguinosi contro partigiani e civili in Abruzzo, nelle Marche, in Romagna e Val d’Aosta, assieme all’unità italiana che ne seguì le sorti, il reparto M “IX settembre”, di cui peraltro si trova traccia a p. 368 del volume, come formazione organica alla divisione tedesca.
Purtroppo, al momento, non esistono altri studi in italiano sui Brandenburg. E quello di Kurowski ci appare comunque decisamente mediocre.

Memorie salotine
Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo, Venezia, Marsilio, 2009

L’autore ha affrontato in diversi saggi e articoli la parabola della RSI e la sua memoria postbellica. In questo agile volume Chiarini riassume per sommi capi il suo pensiero su entrambi gli argomenti, offrendo vari spunti di riflessione sul “prima”, il “durante” e il “dopo” della repubblica di Mussolini e dei suoi uomini, dai gregari sino ai collaboratori del duce.
Nel volume troviamo diverse note interpretative che condividiamo, soprattutto il fatto che il fascismo di Salò non fu una calata degli Hyksos, come vorrebbe una certa storiografia; gli “orfani del duce”, come constata lo studioso, non erano una sparuta pattuglia di fanatici, ma uomini di diverse generazioni e motivazioni a seconda dei vari “strati” anagrafici: gli ex squadristi, i militari (gli uomini della milizia soprattutto, come anche noi avevamo intuito), i giovani e giovanissimi educati nel regime. Tutti questi avrebbero probabilmente fatto rinascere un movimento di collaborazione con gli occupanti nazisti, in nome della causa comune, dell’onore (variamente inteso e declinato) e della lotta contro gli antifascisti, armati o meno. E per rendere credibile questa nuova nascita del movimento in camicia nera, in una Italia indifferente e sostanzialmente tesa già al “dopo”, l’essere crudeli e “terribilissimi” era una scelta praticamente obbligata, come già Claudio Pavone aveva compreso e spiegato.
La parte più interessante, e purtroppo breve, è dedicata al mondo dei reduci e degli altri naufraghi di quella esperienza; per questi fascisti in democrazia, la repubblica del Duce, come correttamente annota Chiarini, fu il mito positivo del MSI e dei suoi attivisti di ogni età fino alla morte di Giorgio Almirante. Non casualmente appare ancora oggi faticoso per un leader carismatico come Gianfranco Fini il tentativo di storicizzare (o meglio “esorcizzare”?) quella esperienza, comunque tragica e sanguinosa.

Marzabotto giorno per giorno
Luca Baldissara - Paolo Pezzino, Il massacro, Bologna, Il Mulino, 2009

Il ponderoso e documentato volume di Baldissara e Pezzino dovrebbe far riflettere sia chi si occupa di storia, sia la società civile, su un fatto non marginale: ci sono voluti sessantacinque anni per avere la prima ricostruzione analitica, “giorno per giorno, ora per ora”, di cosa avvenne su Monte Sole e dintorni alla fine del settembre 1944 fatta da storici di professione. Sino ad oggi abbiamo avuto sull’argomento pamphlets, racconti più o meno polemici, dibattiti giornalistici, romanzi, narrazioni (anche pregevoli) di studiosi dilettanti. Resta da chiedersi perché gli accademici italiani, fra i quali non sono mancati bravi ricercatori di cose militari, abbiano atteso ben più di mezzo secolo per avvicinarsi al più spaventoso eccidio di massa di civili avvenuto in Europa occidentale nel corso dell’occupazione tedesca.
La ricostruzione è dettagliata, riccamente documentata da carte e testimonianze, diverse delle quali inedite: ci troviamo insomma di fronte a quella che può essere considerata l’opera definitiva sull’argomento. Ci si permetta però in merito un lontano (e sempre attuale) commento del rimpianto Renzo de Felice: “prima di addentrarsi nella spiegazione di eventi storici, servirebbe prima di tutto narrarli correttamente e in modo dettagliato. Per motivi ideologici spesso gli studiosi italiani fanno il contrario: prima interpretano e poi ricostruiscono”. A dimostrazione di questo assunto, solo oggi, dopo decenni dai fatti, la ricerca di Pezzino e Baldissara ci offre fatti concreti, ossia la nuda cronaca della tragedia che portò alla morte di oltre settecento fra donne, vecchi e bambini, letteralmente macellati dai granatieri della 16° divisione SS.
Il fosco quadro di quei giorni, finalmente, prende forma: i partigiani della “Stella Rossa” guidati da Mario Musolesi che sono convinti di riuscire a tenere le posizioni sino all’arrivo degli Alleati, ormai a pochi chilometri di distanza, l’azione di annientamento pianificata in modo scientifico dalle SS della divisione di Max Simon, che mettono in pratica un tipo di guerra ai civili già attuata da molti dei suoi quadri quando erano parte della divisione “Totenkopf”, il totale annichilimento delle comunità locali fra Monte Sole e Monte Caprara. E poi il dopo: i processi mal gestiti e peggio condotti, con giudici che non riescono a mettere in relazione (incredibilmente) l’attività omicida di Walter Reder con quella del suo capo, il generale Simon.
Registriamo come limite al lavoro l’assenza delle vicende militari successive a quell’evento. La 16° SS, infatti, fino a febbraio 1945 fu schierata in Romagna sul fiume Senio, in zone di forte concentrazione partigiana, senza distinguersi per l’attitudine omicida che l’aveva caratterizzata sino dall’estate 1944. A parer nostro il differente comportamento del reparto dipese dall’arrivo del nuovo comandante, Otto Baum, che aveva un curriculum militare meno inquietante di Max Simon, ex comandante di corpo di guardia in numerosi campi di concentramento nazisti.
Si tratta comunque di peccati veniali. Ci troviamo insomma di fronte ad un opera definitiva sull’argomento.

Sangue in Toscana
Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili, Carocci, Roma, 2009

In premessa a questo complesso e articolato lavoro d’insieme di Gianluca Fulvetti, dobbiamo esprimere una considerazione su quanto seriamente la regione Toscana abbia coltivato e alimentato economicamente gli studi sul periodo dell’occupazione tedesca e della guerra di liberazione. Il risultato di questo sforzo è una – oramai lunga – serie di titoli pubblicati presso l’editore Carocci, che rappresentano un “unicum” per qualità e quantità di argomenti e temi trattati; stride, in questo panorama, il confronto con altre amministrazioni locali che pure hanno investito (purtroppo non sempre bene) per promuovere la ricerca sulla “guerra in casa”, con esiti decisamente inferiori, per non dire spesso mediocri.
Dello studio di Fulvetti si può solo dir bene, non fosse altro perché ci troviamo per la prima volta di fronte ad una analisi sistematica e cronologica, provincia per provincia, di cosa significò la “guerra ai civili” in Toscana fra il 1943 e il 1944. Ci convince la suddivisione temporale: una prima, cruenta e breve stagione di sangue all’atto dell’arrivo dei nazisti in Toscana, una seconda fase in cui i tedeschi valutano le forze da impegnare, lasciando la repressione prevalentemente alle male equipaggiate e peggio armate formazioni fasciste, sino a riprendere in mano il bandolo della matassa nella primavera 1944, con operazioni pianificate e condotte scientificamente da reparti d’elite come la divisione “Hermann Goering”; logica e tragica conclusione, la strategia dell’annientamento delle comunità locali nei luoghi sui quali, man mano, si arrestava il fronte attraverso la Toscana. Tutto questo fino alla feroce estate del 1944, durante la quale le SS della divisione “Reichsfuehrer” fecero terra bruciata in Versilia e Lunigiana.
Non si può, infine, sorvolare sul fatto che l’autore, nelle articolate conclusioni, compie una necessaria riflessione su quanto e come il modo di condurre la guerriglia dei partigiani abbia contribuito a una stagione di così brutale violenza. Su questo argomento, crediamo che non esistano risposte buone per tutte le stagioni, o teoremi pronti all’uso, ma domande aperte, che vanno affrontate senza pregiudizi ideologici. Questo fa Fulvetti al termine di un lavoro ponderoso e difficile, ma i cui risultati confermano la bravura del giovane studioso.

martedì 30 giugno 2009

Miscellanea

L’asciutto Degrelle contro i viscidi bolscevichi
Jonathan Littell, Il secco e l’umido, Torino, Einaudi, 2009.

Littell è balzato in vetta alle classifiche dei libri venduti grazie al feroce romanzo Le benevole (Torino, Einaudi, 2007), la vicenda di un ex appartenente alle SS che ricorda e descrive in prima persona il proprio curriculum di persecutore e assassino seriale di ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Il secco e l’umido è un libro curioso, nato durante la stesura del volume di cui sopra. Littell ha infatti studiato le analisi condotte alla fine degli anni settanta da Klaus Theweleit sulle memorie dei componenti dei Freikorps tedeschi (ed. italiana: Fantasie virili, Milano il Saggiatore, 1997). Le ricerche sull’autodescrizione dei primi nazisti effettuata dal sociologo tedesco, avevano individuato alcuni “tipi ideali” semantici comuni a tutte le narrazioni: il fascista è rigido, solingo, mentre i comunisti agiscono in orde, viscide, che in genere “attentano” all’asciuttezza del solitario eroe portatore di valori tradizionali (coraggio, cameratismo, civiltà, religione, famiglia, casa, ecc…). Le donne sono assenti, se non sotto la tipologia innocua delle “sorelle” o delle “madri”, in quest’ultimo caso appena diventano tali, scompaiono dalla descrizione. Il prode nazionalista quando muore non “cade”, ma “è sommerso” (sempre rigidamente, a mo’ di barca che affonda).
Littell utilizza questo schema sul “secco e asciutto” fascista e “l’umido e melmoso” russo-bolscevico nell’analisi di un classico della letteratura neofascista, Front de l’est di Leon Degrelle, inerente l’esperienza bellica come volontario prima nella Wehrmacht e poi nelle SS del leader rexista belga. Qui effettivamente si riscontrano senz’alcun dubbio le categorie di Theweleit: Degrelle è l’eroe solitario, mentre gli avversari sovietici sono dipinti sotto forme di vita subumane (serpi, insetti, microbi), ed infine una volta morti, semplicemente massa putrescente con cui Degrelle non intende entrare in contatto. I compagni sono ricordati solo sotto forma di “eroi morti”: incredibile il fatto che il comandante della legione vallona, Lucien Lippert, sia nominato solo una volta, ossia quando viene ucciso; in ogni caso quando cadono, gli eroi lo fanno – sempre rigidamente – sul campo di battaglia. Finito il secondo conflitto mondiale, Degrelle, esule in Spagna, continuerà a indossare la propria divisa di colonnello delle SS a beneficio dei fotografi e degli intervistatori, facendo risultare chiara la propria incapacità di adattamento al dopoguerra.
Quello che ci balza agli occhi è la presenza di tutti o quasi questi stereotipi nella maggior parte delle autobiografie degli ex di Salò; da Giorgio Pisanò a Giuseppe Rocco, da Nino Arena a Carlo Rivolta, l’idealtipo di Theweleit si ritrova puntuale: eroi solitari, nemici polimorfi e “umidi” (striscianti, in agguato, vili, nell’ombra), caduti eroici che si “irrigidiscono” nella morte (ma sono rigidi anche prima: nel saluto romano, sull’attenti, mentre procedono in parata), donne “sorelle” (le ausiliarie); i reduci poi sono in genere incapaci di trovare un inserimento nella vita democratica postbellica, e conducono esistenze grigie nel continuo rimpianto delle proprie esperienze “virili” e giovanili.
Confidiamo che quanto prima qualche studioso di casa nostra, evitando i consueti provincialismi, possa condurre una analisi in questo senso, davvero curioso e stimolante, sulla storia della RSI.

I rivoluzionari de’noartri…
Richard Drake, Apostoli e agitatori, Firenze, Le Lettere, 2008

Qualche tempo fa l’allora presidente della regione, Lazio Francesco Storace, così come il deputato Giuseppe Garagnani, chiesero a gran voce una revisione dei manuali di storia delle scuole superiori, a parer loro condizionati dai convincimenti marxisti di gran parte dei loro redattori. In realtà, a nostro modesto avviso, più che una epurazione selvaggia dei libri di testo, sarebbe sufficiente affiancare ai volumi oggi utilizzati alcune opere di orientamento diverso, ma non per questo meno scientifico.
In quest’ottica il libro che Richard Drake ha dedicato agli esponenti di spicco della tradizione rivoluzionaria del marxismo italiano, sarebbe a nostro avviso da utilizzare come strumento sussidiario ai testi di storia contemporanea comunemente adottati alle superiori. Con una prosa piana, serena ed uno stile esemplare, lo studioso americano analizza (impietosamente) le biografie dei leader socialisti nostrani, partendo da un dato di fatto difficilmente contestabile: il pensiero di Marx era giunto in Italia più o meno sotto forma di “Bignami”, perlopiù interpretato da alcuni degli epigoni più estremisti del filosofo tedesco. Carlo Cafiero, il primo di questi che viene studiato da Drake, iniziò la lunga serie dei velleitari tentativi rivoluzionari che avrebbe costellato i cent’anni successivi del comunismo italiano con l’abortita insurrezione romagnola del 1874. Già a fine ottocento la vena estremista della sinistra poteva agevolmente far scivolare alcuni dei suoi leader sul versante opposto, ossia verso la destra nazionalista e imperialista; la parabola di Antonio Labriola che partì da Engels per finire dalle parti di Enrico Corradini la dice lunga sulla tortuosa mentalità di alcuni teorici del socialismo italiano. Alla fine della “belle epoque” Arturo Labriola era il principale apostolo del pensiero del filosofo prediletto dagli agitatori di casa nostra: non Karl Marx, ovviamente, ma la sua versione in sedicesimo, ossia Georges Sorel, predicatore della violenza rivoluzionaria “senza se e senza ma”: unico linguaggio che il proletariato italiano pareva in grado di comprendere, come dimostrò ad abundantiam Benito Mussolini. Non casualmente la dittatura fascista ebbe tra i suoi maggiori esponenti e teorici proprio gli ex sindacalisti rivoluzionari (Edmondo Rossoni e Michele Bianchi su tutti) i quali non fecero altro che mettere in pratica quello che avevano predicato per anni, ossia l’uso spregiudicato della forza.
Nella stagione della dittatura fascista, senz’altro provocata dai tanti teorici del “tanto peggio tanto meglio” (come Amadeo Bordiga, uno dei protagonisti della scissione del partito socialista a Livorno nel 1921), fu Antonio Gramsci a teorizzare le basi su cui si sarebbero plasmate le generazioni successive dei quadri comunisti durante la clandestinità, la guerra di Spagna e la guerra di liberazione. Le sue analisi sull’Italia del ‘900, spesso impietose, segnarono anche una progressiva revisione dei miti del socialismo italiano, primo fra tutti quello catartico della rivoluzione che arriva dal cielo, come lo Spirito santo. Infine, ultimo nell’analisi di Drake, Palmiro Togliatti, che di Gramsci fu l’interprete “acrobatico”, il quale ebbe la missione non facile di coniugare il comunismo sovietico con l’articolato pensiero dello studioso sardo senza violare le ferree leggi staliniane di cui egli era un seguace di cristallina fedeltà.
Infine lo storico americano si sofferma con lucidità in appendice sui tragici cascami di questa ideologia fallimentare, ossia la stagione del terrorismo nel nostro paese; a differenza di quanto predicato da numerosi studiosi di orientamento marxista, i giovani che presero le armi contro “la dittatura borghese” non erano corpi estranei al comunismo italiano, ma i naturali eredi di una tradizione che aveva costruito un mito attorno al culto della violenza risolutrice. Così lo studioso conclude il suo lavoro: “… Non importava che solo poche persone avessero sostenuto le Brigate Rosse sino al 2002. Quanti sostenitori aveva avuto Lenin nel 1902? La cosa importante era tenere accesa la fiamma della rivoluzione nella gelida oscurità dell’egemonia capitalista …” (p. 288). Anche a costo del sacrificio di vite preziose come quelle degli “odiati” riformisti, come Massimo d’Antona o Marco Biagi.

L’arido maestro del giornalismo italiano
Indro Montanelli , I conti con me stesso, Milano, Rizzoli, 2009

Non ha tutti i torti Mario Cervi a riconoscere negli estratti dei diari di Indro Montanelli il tratto vero di uno dei maestri del giornalismo italiano, ossia la sprezzante ferocia nei confronti del prossimo. A questo vorremmo aggiungere il non esaltante quadro delle redazioni italiane nella seconda metà del novecento, piene di intrallazzi più o meno puliti per favorire o affondare colleghi, le relazioni quasi mai “super partes” con il mondo politico, il privato misero a fronte dell’immagine pubblica brillante di alcuni intellettuali di casa nostra: atroce il ritratto di Ennio Flaiano e del suo inesistente rapporto affettivo con la figlia portatrice di handicap (p. 145). Purtroppo ci sarebbe interessato sapere e capire di più, ma per una scelta poco comprensibile dell’editore, solo alcuni scampoli delle riflessioni montanelliane sono state date alle stampe, ossia quelle dei periodi 1957-58, 1966-72 e 1977-78.
E’ comunque uno spaccato interessante per chiunque si volesse avvicinare alla visione che del mondo aveva il giornalista toscano. A noi ci è parso di individuare come elementi sostanziali, oltre alla prosa bruciante, una sostanziale attinenza con la filosofia spicciola di certa provincia toscana che noi ben conosciamo, provenendo dal pian di Pisa. Memorabile la narrazione dei funerali dello zio dell’autore, svoltisi a Fucecchio, che paiono usciti dalla pellicola “Amici Miei”, con i commenti dei cugini (e quanti ne abbiamo sentiti di simili), i quali riflettono a mezza voce: “era l’ultimo dei vecchi: i prossimi siam noi, vai…” (pp. 82-83).
Per il resto, davvero, il dato qualificante ci pare l’aridità del personaggio, sempre ammesso che Montanelli non si fosse rappresentato così volutamente, sapendo che i suoi diari privati prima o poi sarebbero divenuti pubblici; nonostante ciò si fatica a non condividere il malcelato disappunto dell’autore nei giorni successivi all’attentato brigatista del giugno 1977, quando la notizia fu riportata fra le “brevi” del Corriere della Sera, testata a cui aveva dedicato più di trent’anni del proprio lavoro professionale; secco il commento: “Ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano!” (p. 219). Effettivamente, oltre ai penosi silenzi, spiccarono alcune prese di posizione invero non memorabili, come quella di Claudio Petruccioli che dalle colonne de “L’Unità” invitava Montanelli a riflettere bene sull’accaduto e sulla sua posizione nei confronti del PCI; un po’ come dire che, in fondo, se l’era cercata. Questo il clima culturale alla fine dei “mitici anni ’70”…
In conclusione aggiungiamo che la prefazione e le annotazioni al testo redatte da Sergio Romano ci sono parse a dir poco frettolose, se non addirittura carenti nell’inquadrare i periodi storici oggetto dei diari. Imbarazzanti alcune note al testo, come quella che indica come segretario della DC “Benito” Zaccagnini (sic, p. 270).

Vulgate lunghe, memorie corte
Paolo Paoletti, Vallucciole, una strage dimenticata, Firenze, Le Lettere, 2009

E’ possibile per uno storico compiere una indagine critica nei confronti di una azione partigiana? Leggendo la ricerca di Paoletti, documentata con la consueta ricchezza di dati, informazioni, bibliografia e testimonianze, la domanda è tutt’altro che peregrina. Fra il 13 ed il 17 aprile 1944, un gruppo di combattimento appartenente alla divisione corazzata “Hermann Göring”(HG), nel corso di una azione antipartigiana lungamente e attentamente studiata, massacrava a Vallucciole, nell’alto Casentino, oltre cento civili, perlopiù vecchi, donne, bambini e neonati. E’ il primo eccidio indiscriminato nel corso dell’occupazione tedesca in Toscana, purtroppo uno dei meno ricordati ancor’oggi, nonostante le sue dimensioni e i tratti invero efferati dell’intera azione condotta dai nazisti della HG.
Dopo l’attenta e sofferta narrazione dell’episodio, l’attenzione di Paoletti, “sine ira et studio”, si rivolge all’antefatto della strage, che rappresenta una parte non marginale dell’intera vicenda. L’azione antipartigiana era stata preceduta dalla missione esplorativa di alcuni elementi del reparto, i quali in abito civile avevano sondato il territorio, venendo intercettati nella località di Molin di Bucchio da un gruppo partigiano garibaldino; i patrioti uccisero due dei tre componenti della pattuglia della “Hermann Göring”, lasciandosene sfuggire uno e lasciarono i cadaveri degli altri all’interno della loro autovettura, senza pensare ne’ a nasconderli, ne’ ad avvertire le popolazioni dell’incombente pericolo. Di seguito l’azione antipartigiana, che coinvolse tutto il massiccio del Falterona ed ebbe una particolare intensità e tratti di autentica ferocia contro i civili proprio dove si era svolto lo scontro a fuoco in cui erano caduti i tedeschi.
Il ricercatore fiorentino, pianamente, critica le mancanze dei partigiani: l’inutilità e l’insipienza di quelle uccisioni, la disattenzione nei confronti della popolazione che avrebbe di lì a poco subito le conseguenze di un rastrellamento condotto da truppe scelte e spietate, l’utilizzo delle informazioni presenti nelle carte rinvenute addosso ai tedeschi unicamente al fine di proteggere le unità partigiane e predisporre la fuga dal cerchio di fuoco che stava per circondarli; per finire Paoletti avanza la sua ipotesi, ossia che il surplus di ferocia sia stato dovuto all’azione dei commilitoni degli uccisi, i quali sfogarono contro i civili inermi la rabbia per la morte dei compagni di reparto e il fatto che, almeno in apparenza, i due caduti fossero stati “finiti” dopo essere stati feriti, fatto non accertato, ma a quanto pare, assai plausibile.
Paoletti, nelle conclusioni, inizia un ragionamento che andrebbe dibattuto a parer nostro in modo più approfondito: quali e quante altre stragi naziste furono condotte con ferocia indiscriminata non solo perché esisteva una “guerra ai civili”, ma anche per le modalità con cui erano state condotte le azioni dei partigiani? Queste ultime vanno sempre e comunque giudicate “in toto” come una guerra senza tregua contro l’invasore, senza esprimere alcun tipo di giudizio di tipo militare, sociale, civile? E’ possibile, al contrario, fare distinzioni fra atti condotti in modo utile coerente e coraggioso, e terribili errori che produssero conseguenze atroci non solo per i patrioti ma per cittadini inermi?
Peter Tompkins, agente britannico che a Roma conduceva assieme ai gappisti la lotta contro i tedeschi, riguardo all’attentato di via Rasella commentava: “un’azione maledettamente ben riuscita. Ma nel posto e nel momento sbagliato”.
Ci auguriamo che questi possano essere spunti per una discussione fra studiosi e non per polemiche ideologiche. E siamo grati a Paoletti per la sua ennesima, valorosa prova di “outrider” della ricerca storica.

martedì 28 aprile 2009

Immagini dei perdenti in camicia nera

Reporter di una sconfitta imminente
Attilio Viziano, Ricordi di un corrispondente di guerra, Milano, Marvia, 2008

Alcune delle immagini di Attilio Viziano, classe 1923, erano già state pubblicate in altri volumi di storia della RSI, o addirittura in testate giornalistiche di Salò, per la loro qualità e per gli scritti (non privi di verve) del giovane giornalista ligure. Il “corpus” fotografico era invece sinora rimasto inedito, e il volume edito da Marvia raccoglie oltre trecento degli scatti in possesso di Viziano. E’ una documentazione di notevole importanza, per qualità e quantità, che copre circa un anno della storia di Salò, dalla tarda primavera del 1944 sino a quella del 1945.
Viziano, appartenente all’aeronautica della RSI, viene inserito nella compagnia operativa di propaganda (COP) delle forze armate salotine e compie un corso di preparazione presso l’Istituto Luce a Venezia, dopodiché, ai primi di settembre del 1944, è inviato assieme ad una ventina di colleghi a Heuberg, in Germania, dove è in fase di istruzione la divisione bersaglieri Italia. Sono foto interessanti, anche per osservare come si presentava il Reich nell’ultimo anno di guerra; quello che salta immediatamente all’occhio è che a fronte di città pesantemente bombardate, la campagna e i piccoli borghi agricoli ci appaiono pressoché intatti. Arrivato a Heuberg, nonostante il reporter cerchi in ogni modo di selezionare con cura i soggetti, l’apparenza complessiva dei soldati è sconfortante: baraccamenti deprimenti, equipaggiamenti e abbigliamento eterogeneo se non zingaresco, espressioni di gente assente o comunque poco convinta. Il reportage su una celebrazione italo-tedesca (forse l’11 novembre 1944) nello sfondo di un grigiore autunnale, vorrebbe essere marziale, ma ci appare cupo e triste, lasciando intravedere pure scampoli di irrisione da parte dei civili (soprattutto bambini: donne, uomini e vecchi sono quasi assenti, evidentemente tutti inseriti nell’ingranaggio bellico nazista) che ridono e scherzano al passaggio dei “soldati gallina”.
Tornato in Italia nell’ultimo inverno di guerra, Viziano si reca presso i posti avanzati tenuti dalla divisione Monterosa sulle Alpi occidentali. Le foto sono prevalentemente dedicate a soggetti militareschi, mentre manca del tutto la popolazione civile; pochissime foto sono dedicate ai borghi della montagna piemontese, che ci appaiono semideserti, animati solo dai militari di Salò.
Di notevole interesse una ventina di immagini che Viziano dedica alle giornate milanesi di Benito Mussolini del dicembre 1944; impietosi i primi piani dello smagrito duce e dei suoi ultimi fedeli in divisa (Barracu, Pavolini, Romano) e altrettanto sconfortante un campo lungo che fa emergere come la gente si sia raccolta tutta attorno al duce, che saluta dal tettuccio di un carro armato. In via Cordusio la folla si dirada, sino a lasciare ampi spazi di strada deserta, qua e là punteggiata di camicie nere e tedeschi curiosi di quell’ultimo e inatteso spettacolo. Poi ancora guerra. Fotografie del raggruppamento Cacciatori degli Appennini impegnato nelle Langhe contro i partigiani (non un volto sorridente, nemmeno nei primi piani più curati) e infine gli NP della X Mas sul fiume Senio, i quali, ai primi di aprile del 1945, più che impegnarsi in improbabili offensive, paiono cercare riparo dal diluvio di fuoco che proviene dall’8° armata britannica, ormai pronta all’offensiva finale.
I ricordi di Viziano, perlopiù sereni e non faziosi, corredano le fotografie del volume, che è di notevole importanza (non solo iconografica) per la ricostruzione dell’ultimo anno di guerra.

Giornalista, fotografo, fascista
Antonio Lombardi, Dalle Alpi a Heuberg, Genova, Effepi, 2006

Recensiamo, con colpevole ritardo dovuto alla non conoscenza di questo volume, la raccolta delle circa duecento fotografie – quasi tutte inedite – che il giornalista Carlo Crudo (anch’egli facente parte della compagnia operativa di propaganda delle forze armate della RSI) aveva scattato nel biennio 1943-45. E’ un percorso del tutto simile a quello di Viziano - i due si fotografano vicendevolmente in Germania - se non per la vicenda umana del protagonista. Crudo, trentacinquenne, è un fascista senza compromessi, che dopo l’armistizio si è immediatamente messo a disposizione delle autorità di Salò; dai primi del 1944 è direttore del foglio fascista aostano “La Provincia alpina” e assieme sottufficiale del battaglione autonomo Moschettieri delle Alpi, costantemente impegnato in azioni antipartigiane.
Le foto sono di qualità inferiore rispetto a quelle del suo collega ligure, ma non per questo meno interessanti. Per quel che concerne la parte relativa al campo di addestramento di Heuberg, anzi, sono forse addirittura più eloquenti dello stato di assoluta penuria che caratterizzava l’equipaggiamento di questi soldati. In alcuni scatti vengono ripresi insieme dozzine di militari vestiti con le uniformi più disparate (perfino da marinai), spesso senza armamento individuale. Incredibile la differenza con gli scatti ufficiali della visita di Mussolini, avvenuta qualche settimana prima. Gli uomini inquadrati, perso ogni residuale entusiasmo, appaiono consci del fatto di essere merce di scambio fra la RSI ed il Reich, che li vorrebbe destinati immediatamente all’antiaerea come ausiliari.
Al rientro in Italia, dopo alcuni reportage dedicati ai danni provocati dai bombardamenti alleati, Crudo viene inviato a documentare l’attività delle SS italiane in Piemonte, probabilmente nell’autunno 1944. Le truppe con le mostrine nere (talvolta del tutto in divisa tedesca, elmetto compreso: si tratta forse del battaglione Debiça) sono ritratte mentre passano attraverso borghi e campagne deserte. Non si vedono civili, ma solo militari nazisti. Le ultime foto sono curiose: Crudo è impegnato a lanciare con un mortaio dei proiettili caricati con dei volantini, probabilmente destinati alle formazioni partigiane piemontesi. Non conosciamo l’esito di questa, invero ingenua, azione di propaganda che conclude l’album del direttore de “La provincia alpina”.
Come nel caso del precedente volume, si tratta di documentazione preziosa per comprendere fatti ed episodi sino ad oggi scarsamente documentati dal punto di vista visivo.

Propaganda e quotidianità nella repubblica di Mussolini
Roberto Chiarini, Marco Cuzzi (a cura di), Vivere al tempo della Repubblica sociale italiana, Brescia, Massetti Rodella editori, 2007

Anche in questo caso redigiamo una recensione “ritardataria”, dovuta forse – oltre che a nostre innegabili lacune – alla scarsa pubblicità data a questa pubblicazione, che riserva invece vari motivi di interesse. Si tratta di documenti, foto e manifesti facenti parte di una mostra tenutasi a Salò nel 2004, in occasione del convegno per il debutto dell’attività del Centro studi e documentazione sul periodo storico della RSI. I testi che corredano le immagini sono di due studiosi di provate capacità come Roberto Chiarini e Marco Cuzzi, i quali hanno avuto il grande pregio – precisato in premessa – di non soffermarsi sui temi che in quel tempo infelice furono “… illuminati dai riflettori della politica e dai circuiti delle azioni militari …” (p. 7), restando invece al quotidiano, e alle immagini che del quotidiano offrono i documenti del vivere civile e i manifesti dell’apparato propagandistico salotino.
Se diverse illustrazioni erano conosciute, altre ci sono risultate inedite, come la selezione di alcune strisce di fumetti editi a Salò, o addirittura stupefacenti (il programma dell’ippodromo di San Siro con le corse dell’aprile 1945 e gli appunti di qualche solerte scommettitore). Poco di nuovo nelle rappresentazioni dei nemici dell’Asse, argomento che se da un lato dimostra una propaganda basata su stereotipi ormai frusti (l’ignoranza degli statunitensi, la prepotenza dei britannici, la bestialità sovietica e la cupidigia ebraica), dall’altro fa riflettere come sia pure nelle ristrettezze del Garda, il dicastero di Fernando Mezzasoma avesse nell’ottica mussoliniana un ruolo ancor più centrale che nel ventennio precedente: non possedendo nulla di solido con cui convincere gli italiani, evidentemente il duce si aggrappava ai manifesti e alle vignette di alcune fra le migliori firme della grafica italiana, da Boccasile a De Seta.
Non si può infine non restare allibiti di fronte al diagramma di sconcertante complicazione (p. 134), redatto per far capire ai gerarchi di Salò quanto i direttori delle testate del nord Italia polemizzassero fra loro invece di concentrarsi – comunque inutilmente – a fornire le notizie del Micup (già Minculpop) ai recalcitranti sudditi della repubblica gardesana.

La legione dei plebei
Carlo Rivolta, Arditi del 1944, Pavia, Maro, 2008.

Carlo Rivolta, reduce della legione Ettore Muti, ha speso buona della propria esistenza (è scomparso nel 2008) a cercare di dimostrare, tramite documenti, narrazioni autobiografiche e testimonianze, che il proprio reparto era sostanzialmente diverso da come la storiografia l’aveva dipinto per cinquant’anni. Compito invero improbo, sui cui risultati lasciamo il lettore a decidere.
L’ultima fatica di questo autore è un curioso volume, nel quale sono raccolti, in modo spesso confuso e non sempre comprensibile dai non addetti ai lavori, una serie di carte, ritagli di giornali e fotografie d’epoca, nonché intere pagine di elenchi telefonici milanesi del 1944-45. L’insieme di questo bric-a-brac ci è apparso comunque interessante: diversi documenti interni – comunicazioni, ordini del giorno, ordini di servizio – offrono uno spaccato del reparto più apertamente “plebeo” della Milano repubblichina. Una formazione che, stando alla rassegna stampa raccolta da Rivolta, appare incredibilmente sovrarappresentata sulla stampa del capoluogo lombardo (e non solo) rispetto al suo peso reale, sempre attorno a 1.200 unità, ed inoltre mai utilizzato dalle SS a livello superiore di quello di compagnia. Di notevole rilievo, almeno a nostro avviso, quanto l’autore è riuscito a raccogliere in merito alla morte del comandante della Muti, lo squadrista Franco Colombo, fucilato sul lago di Como dopo aver fatto parte con elementi dei servizi segreti americani e regi ad un tentativo di “recupero” del duce.
Incommentabili, infine, le foto raccolte nelle ultime pagine, dove si può osservare un meeting di “renactor” giapponesi i quali hanno deciso di ricostruire minuziosamente uniformi ed equipaggiamento del reparto al fine di ritrovarsi nei giorni festivi a simulare rastrellamenti e azioni antipartigiane, assieme ad amici e colleghi in divisa da paracadutisti nazisti o da brigatisti neri. Lasciamo al lettore ogni considerazione su cosa provocherebbe una “reunion” di questo genere nel nostro paese. Indubbiamente il mondo è bello (o brutto) perché è vario.

mercoledì 18 febbraio 2009

Confini orientali

Dagli ai preti…
Massimiliano Ferrara, Ante Pavelic, il duce croato, Udine, Kappavu, 2008.

Massimiliano Ferrara, dottore di ricerca in storia ed istituzioni dei paesi extraeuropei, collaboratore della rivista “Limes”, dedica alla vicenda del movimento Ustascia e al suo capo, Ante Pavelic, un volume con buone intenzioni e risultati alterni. Tramite una raccolta di documenti inediti provenienti dall’archivio centrale dello stato e in particolare dal fondo “fuoriusciti croati”, l’autore fa ben comprendere come il ministero dell’Interno fascista negli anni ’30 avesse in ogni modo favorito l’aggregazione degli esuli croati più radicali attorno al Poglavnik, il duce Ustascia e il più deciso fra gli oppositori dei Karageorgevic a condurre con metodi terroristici la lotta politica. Appare da quanto sopra riportato del tutto evidente un coinvolgimento, quantomeno indiretto, del regime e delle sue strutture poliziesche nell’appoggio all’attentato che costò la vita al re Alessandro I a Marsiglia nel 1934.
Queste interessanti scoperte, comprese quelle legate all’agiata vita di Pavelic a Siena alla fine degli anni ’30, purtroppo faticano a bilanciare una scadente seconda parte dello studio. Basata quasi unicamente sui datati studi di Giacomo Scotti, la vicenda della Croazia indipendente del 1941-45 è tratteggiata in modo superficiale e spesso impreciso, specie nell’analisi delle formazioni militari (pp. 179-181). Il tono si abbassa ancor più nel finale, nel quale l’autore, dando fondo ad una rassegna di pregiudizi anticlericali, presenta come certezza il pieno appoggio del Vaticano (tutto intero, ovviamente) ai criminali di guerra in fuga dalla Jugoslavia. La tesi, invero non particolarmente originale, è suffragata more solito dalla faziosa raccolta di documenti presente nel volume di Marco Aurelio Rivelli, L’arcivescovo del genocidio, (Milano, Kaos, 1999), lavoro piuttosto datato che evidentemente continua ad essere una ingiustificata fonte di studio sul quel fosco periodo. Il livello generale della produzione di quest’ultimo autore è peraltro ben esemplificato da alcune righe, riportate da Ferrara senza alcuna riserva: “… La Santa Sede aiutò a fuggire duecento ustascia e cinquemila delinquenti nazisti (sic, n.d.a.), l’aristocrazia del crimine, fra i quali il dottor Mengele, Walter Rauff, Adolf Eichmann, Erich Priebke, Franz Stangl …” (p. 208).
Come sia possibile che un promettente studioso come Ferrara si rassegni a prendere come oro colato affermazioni apodittiche come quelle sopra riportate è mistero doloroso. Ancor più misterioso ci appare l’entusiasmo del direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo, che presenta nell’introduzione queste presunte scoperte come la “… chiara dimostrazione della collaborazione fra Vaticano e regime ustascia …” (p. IX). Addirittura.

La Jugoslavia sotto il giogo italiano
Francesco Caccamo, Luciano Monzali (a cura di), L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-43), Firenze, Le Lettere, 2008

Il volume raccoglie le ricerche di alcuni studiosi di storia dei Balcani nel periodo a cavallo fra la fine degli anni ’30 e la conclusione della 2° guerra mondiale.
Nel primo saggio Massimo Bucarelli si occupa con compiutezza dell’ondivaga politica estera del regime, dovuta non solo alle alterne decisioni del duce, ma anche a orientamenti spesso assai diversi del corpo diplomatico italiano, diviso fra nazionalisti che ritenevano il “regno dei croati, degli sloveni e dei serbi” un artificio nato sui tavoli di Versailles, e personale più equilibrato che vedeva il fragile stato dei Karageorgevic come un naturale alleato dell’Italia all’interno dei Balcani. La Croazia indipendente è oggetto delle precise analisi di Luciano Monzali, il quale conferma la spaccatura fra i militari del regio esercito, dai vertici alla base inclini a non tollerare le atrocità del governo di Ante Pavelic, e gli esponenti del governo civile, più attenti agli umori politici romani, o decisamente fascisti di convinzione (specie l’ambasciatore a Zagabria Raffaele Casertano, poi aderente alla RSI come larga parte dei prefetti e dei segretari federali inviati nelle zone occupate).
Francesco Caccamo, nell’esaminare l’occupazione del Montenegro rileva lo “stato confusionale” della politica estera del regime anche in territori, come quello della piccola nazione balcanica, in cui una maggiore accortezza diplomatica avrebbe potuto evitare la catastrofe della insurrezione generale avvenuta nell’estate 1941. Marco Cuzzi presenta una sintesi aggiornata dei suoi fondamentali studi sulla “Slovenia italiana”, approfondendo alcuni temi in genere ignorati o sottovalutati da altri studiosi, come il peso che ebbe l’orientamento del clero durante l’occupazione e i numerosi e partecipati movimenti nazionalisti che combatterono al fianco delle forze armate regie durante una sanguinosa guerra civile destinata a protrarsi ben oltre la dissoluzione del nostro esercito nel settembre 1943.
Luca Micheletta, nella sua esposizione delle vicende della “grande Albania” ampliata sino al Kossovo, dimostra ancora una volta l’insipienza e l’arroganza dei proconsoli mussoliniani inviati nei Balcani. Andrea Ungari descrive una ulteriore variabile presente in questo scacchiere, ossia la “diplomazia parallela” di casa Savoia, i cui obiettivi spesso non coincidevano con quelli del duce: la vicenda di Aimone di Savoia-Aosta, re (senza corona) della Croazia, è in questo senso esemplare. Anna Millo affronta senza stiracchiature agiografiche o ideologiche il tema della protezione offerta agli ebrei da parte delle autorità civili e militari italiane 1941-43, mentre Maria Teresa Giusti compie una carrellata sulle tendenze storiografiche inerenti la nostra occupazione nei Balcani.
In conclusione ci troviamo di fronte a un volume che non può mancare nella biblioteca degli studiosi più attenti alla storia della Jugoslavia nel corso del secondo conflitto mondiale.

Alpini di Salò nel Goriziano
Carlo Cucut, Penne nere sul confine orientale, Milano, Marvia, 2008

Il reggimento alpini “Tagliamento”, comandato dal colonnello Ermacora Zuliani, fu uno dei reparti della RSI sui cui maggiormente gravò il peso della lotta antipartigiana fra il 1943 ed il 1945 nella parte orientale del Friuli. Il lavoro di Carlo Cucut, già autore di una opera d’insieme sulle forze armate di Salò, porta alla luce le vicende di questa formazione, avvalendosi di documenti e testimonianze in gran parte inedite, come il diario storico del reparto e i ricordi di diversi reduci dell’unità. Completa lo studio una ricca appendice fotografica, composta da materiale anch’esso mai in precedenza pubblicato e di grande interesse iconografico.
Accanto a questi indubbi lati positivi, il lavoro presenta le consuete carenze presenti in tutte le agiografie dei reparti della RSI, mancanze che non sono legate a quanto viene presentato (come il dettaglio della composizione dei presidi del reggimento nel corso del 1944) ma in quello che non viene narrato: le rappresaglie, le fucilazioni (che pure ci furono) e le conseguenze che ebbe la guerriglia senza tregua del “Tagliamento” sui civili sloveni. C’è poi la rappresentazione di comodo della Venezia Giulia di allora, dipinta come l’estrema propaggine dell’Italia di Mussolini e antemurale della Jugoslavia titina, quando è cosa nota che il duce governava (e neppure troppo) sino ai dintorni di Treviso. La Gorizia-Görz-Gorica attorno a cui si svolge la storia del reggimento era invece uno dei capoluoghi dell’Adriatisches Küstenland, zona di operazioni con un governatore nazista, il gauleiter Friedrich Reiner ed un feroce capo della polizia, Odilo Globocnik, già protagonista indiscusso dello sterminio degli ebrei polacchi.
Quest’ultimo era l’autorità suprema a cui rispondeva Zuliani, così come tutti i comandanti delle altre formazioni collaborazioniste italiane (i reggimenti della milizia difesa territoriale ed i battaglioni della X Mas) e straniere (le compagnie dello “Slovensko domobranstvo”, i battaglioni cetnici e le unità cosacche). L’autore inoltre non aggiunge che le varie modifiche apportate al nome del reparto (pp. 50-52) non mutarono l’unica definizione tedesca, ossia “Friaulaner frewilligen regiment Tagliamento”, con l’accento calcato sul “friaulaner” a garanzia di una identità che non contraddicesse l’avvento del Reich sulle coste dell’Adriatico.
Cucut, infine, tratteggia in poche righe (avrebbe meritato più spazio) la stupefacente conclusione della storia del reggimento: gli uomini del “Tagliamento” il 27 aprile 1945 si tolgono i gladi dalle mostrine, li sostituiscono con coccarde tricolori, ed entrano, colonnello in testa, nella VIII brigata “Osoppo” contribuendo a difendere Cividale prima dai cosacchi e dai tedeschi in ritirata e poi dalle truppe dell’esercito di liberazione jugoslavo.
Una pagina che andrebbe meglio studiata e che parla a volumi di come a far semplici cose che semplici non sono si rischia di far torto alla storia.

Stay behind senza pregiudizi
Giacomo Pacini, Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (1945-1991), Civitavecchia, Prospettiva editrice, 2008.

La vicenda narrata da Giacomo Pacini inizia idealmente nello stesso periodo e nello stesso luogo in cui si conclude il lavoro analizzato in precedenza. L’autore, infatti, narra sine ira et studio la nascita, lo sviluppo e la ramificazione, specie nella Venezia Giulia (ma anche altrove nel nord Italia) delle organizzazioni paramilitari destinate a confluire nell’organizzazione “Stay Behind”. Basandosi su una corposa bibliografia ed una documentazione in gran parte inedita (relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta, testimonianze di uomini politici e numerosi atti processuali), lo studioso descrive con mano sicura la complessa gestazione che portò alla nascita dei servizi segreti postbellici e soprattutto la difficile organizzazione delle strutture informative nella provincia di Trieste, territorio il cui ritorno all’Italia era tutt’altro che scontato all’inizio degli anni ’50.
Il confine fra guerra fredda e guerra “calda” in questa tormentata area ebbe a lungo confini incerti, tanto che le varie associazioni più o meno clandestine, come i circoli “sportivi” triestini o la organizzazione “O” (diretta e naturale filiazione della “Osoppo” del 1943-45) ebbero rapporti con le forze armate e quelle di polizia sotto la supervisione ed il diretto controllo e finanziamento del governo di Roma. Con il trascorrere del tempo alcune di queste formazioni furono infiltrate da elementi di estrema destra, i quali inquinarono fortemente l’attività delle stesse tramite appoggi eterodiretti: uomini dei servizi civili e militari, reti spionistiche straniere legate agli Stati uniti, elementi vicini alla massoneria deviata.
Di grande interesse anche il capitolo dedicato alle organizzazioni paramilitari legate alla Democrazia Cristiana, come il “Movimento di avanguardia cattolica italiana” (MACI), di cui ancora oggi poco o nulla è conosciuto, ma che ebbe una ramificazione ed uno sviluppo, almeno in Lombardia, di proporzioni sconcertanti. Il 18 aprile 1948 fu la data in cui raggiunse lo zenit operativo, che prevedeva in caso di insurrezione comunista anche l’uso delle armi, ma almeno fino alla fine degli anni ’50 il MACI non smobilitò mai per intero.
In conclusione bene fa l’autore a precisare un concetto che a noi è sempre parso limpido, ma che diversi studiosi fanno ancora fatica a digerire: durante la guerra fra l’occidente e l’oriente il nostro paese fu indossato come un guanto da entità politiche e militari di colore ideologico opposto che si scontrarono in modo tutt’altro che incruento. Trovare il discrimine fra “i buoni” e i “cattivi” in questo scenario è impresa improba. Pacini si ferma infatti sulla soglia dei giudizi morali, lasciandoli doverosamente alla coscienza del lettore; lo studioso però non si scorda di dire che molta della “leggenda nera” su Gladio e dintorni non ha avuto alcun riscontro giudiziario in oltre quindici anni di indagini serrate, volte a dimostrare i legami diretti fra questa struttura e il terrorismo neofascista. Forse perché lo scontro, in fondo, era fra una sia pure imperfetta e sbilenca democrazia, e una ideologia che di democrazia prevedeva solo una forma “popolare”, sperimentata tragicamente al di là della cortina di ferro.
Non si può quindi che essere grati all’Autore per aver svolto con coscienza un compito complesso e difficile, aprendo le porte ad una stagione di studi che potrebbe (finalmente) essere meno condizionata dai teoremi ideologici di quanto non lo sia stata sino ad ora.