martedì 29 dicembre 2009

Vom Kriege

Adolf Hitler senza veli
Helmut Heiber (a cura di), I verbali di Hitler (2 voll.), Gorizia, LEG, 2009

Si tratta della prima edizione italiana di un volume già edito in Germania, e che purtroppo con incredibile ritardo viene ora tradotto grazie alla Libreria Editrice Goriziana, che mette così a disposizione degli studiosi di storia una documentazione fondamentale per affrontare la “grand strategy” nazista durante la seconda guerra mondiale.
I due tomi raccolgono i verbali stenografici delle riunioni militari presiedute da Adolf Hitler nel periodo dal 1942 al 1945, e la stessa genesi di questi documenti la dice lunga su come venisse condotta la guerra dai tedeschi; fu il Führer infatti a chiedere di verbalizzare integralmente le sue parole per essere certo che i suoi ordini venissero eseguiti e non “interpretati”. Questo ci permette oggi di poter osservare senza possibilità di equivoci non solo la ferocia di Hitler, ma anche la sua sconcertante pochezza di conoscenze militari, mai in alcun modo contrastata da uno stuolo di generali e gerarchi in genere invece impegnati ad assecondare i madornali errori e le manie ideologiche del loro capo.
Da un certo punto di vista non escono altro che conferme dell’atmosfera opprimente e sinistra che regnava all’interno dell’alto comando delle forze armate, ben descritta non molti anni fa da Bernd Freytag von Loringhoven nel suo “Nel Bunker di Hitler” (Torino, Einaudi, 2006). Come faccia il generale Fabio Mini, nella sua introduzione all’edizione italiana del volume, a trovare qualsiasi traccia di razionalità nelle parole del Führer e del suo staff, ci appare misterioso. Discutibili inoltre i giudizi del curatore Helmut Heiber, i quali in molti casi fanno trasparire simpatie nostalgiche (Heiber era un giovane ufficiale della Luftwaffe): l’armistizio italiano è un “tradimento”, quello rumeno “un voltafaccia”, i sovietici sono “le orde bolsceviche” e così via. Piuttosto irritanti inoltre le frequenti imprecisioni nella traduzione italiana dei termini militari (ma anche i toponimi sono spesso bistrattati): i “cacciatori paracadutisti” (Fallschirmjaeger) altro non sono che i “paracadutisti”, le “divisioni campali” della Luftwaffe (Feld-division) altro non sono che “divisioni” tout court, i “cannoni d’assalto” (Sturmgeschutz) sono i “semoventi”, e il “reparto ultrapesante cacciatori di carro” (sic!) altro non è che lo Schwere Jagdpanzer Abteilung. In realtà bene si sarebbe fatto ad utilizzare ovunque le espressioni tedesche, come nel caso della conosciutissima “Panzer-Lehr Division” tradotta malamente con “divisione corazzata di addestramento” che poco o nulla significa in italiano.
A margine di un opera così corposa e complessa segnaliamo comunque alcuni dettagli che bene rendono la mentalità di Adolf Hitler: gli italiani, dopo l’armistizio, semplicemente scompaiono così come l’”amico” Mussolini; inutile poi sottolineare che nelle riunioni del 1942-43 le forze armate italiane sono state oggetto dei lazzi e dei frizzi dei comandanti dell’OKW e dello stesso leader del nazismo. Quando nell’ottobre 1944 il Führer scopre che ci sono ancora degli aviatori italiani (evidentemente della RSI) i quali hanno abbattuto alcuni aerei americani, mostra tutto il suo stupore, tanto che il rappresentante della Luftwaffe Eckardt Christian si affretta ridicolmente ad aggiungere che “… hanno capisquadriglia tedeschi”, tanto da suscitare l’irata risposta di Hitler, il quale evidentemente sui “suoi” aerei non voleva piloti che non fossero “Reichsdeutsche”. Concetto ben espresso alla vigilia della fine, quando ormai nel bunker di Berlino viene a sapere che fra i suoi ultimi difensori ci sono i francesi delle SS, sui quali l’editoria neonazista europea ha creato una mitologia a tutt’oggi dura a morire, il suo giudizio su questi uomini è inequivocabile: “non mi servono a nulla 300 francesi!”. Questa la riconoscenza del leader del nazismo nei confronti di fanatici venuti a morire per un capo che li disprezzava senza se e senza ma.

Luce sull’intelligence
Aldo Giannuli, Come funzionano i servizi segreti, Milano, Ponte alle Grazie, 2009

Questa indagine di Aldo Giannuli ha il non irrilevante pregio di essere redatta in modo leggibile, documentato e soprattutto privo di cascami ideologici. L’autore ha – per forza di cose – una sua personale opinione sul complesso mondo dei “servizi riservati” (per usare una definizione di Francesco Cossiga), ma in ogni modo cerca di condurre per mano il lettore perché sia quest’ultimo a farsi un’idea di cosa sia “buono” e “cattivo” in un ambito in cui queste due qualità rivelano caleidoscopiche sfaccettature.
Così, “sine ira et studio”; l’autore, dopo una breve premessa storica, ci spiega cosa siano i servizi segreti dell’età contemporanea, con una veloce carrellata delle principali caratteristiche degli stessi, partendo davvero dall’ABC, in modo tutt’altro che banale (si veda ad esempio la spiegazione di cosa sia una “informazione” e del suo uso ai fini della difesa dello stato). Anche la descrizione di cos’è l’ “intelligence” parte da elementi semplici sino a condurre alle più complesse conclusioni, come quella – in apparenza sconcertante – che gli agenti dei servizi operano in un limbo al di sopra e (talvolta) al di fuori della legge, giustificati dal fatto che quanto fanno è in nome e per conto dei fini della difesa dello stato: concetto in apparenza limpido e lineare, ma in realtà tutt’altro che univoco. Già da queste premesse appare evidente che chi si voglia avvicinare senza pregiudizi all’argomento debba avere alcune conoscenze di base di storia militare, e Giannuli con correttezza, ammette che le rare indagini scientifiche sul mondo dei servizi siano stati patrimonio quasi esclusivo di studiosi di cose militari; il fatto che questa disciplina abbia sempre conosciuto scarsa fortuna nel nostro paese, ahimè, la dice lunga sulle ragioni per cui dell’intelligence si è sempre parlato in termini cupi e oscuri, oppure, al contrario, con le sgargianti tinte dei James Bond “de’ noartri”.
In realtà l’uomo dei servizi è (ed è stato) in genere di un grigiore burocratico deprimente: un po’ più di un poliziotto ma un po’ meno di un funzionario di qualche ministero, pagato (se spia o confidente) e spremuto come un limone finché in grado di fornire elementi utili all’agenzia che lo utilizza, e di seguito gettato alle ortiche, se non peggio. Se componente integrale dei servizi è destinato a carriere incolori, al seguito di cordate interne non diverse da quelle che esistono in qualsiasi ministero della nostra Italia repubblicana, e come tale soggetto a passare da polvere ad altari (e viceversa) con rapidità fulminea. Insomma un mondo chiuso, autoreferenziale, e proprio per questo spesso oggetto e soggetto di inquinamenti, infiltrazioni e contaminazioni di ogni tipo e colore.
E’ questo semmai uno dei punti in cui dissentiamo da alcune delle analisi dell’autore, come quella di un’analisi della guerra fredda nel nostro paese un po’ troppo univoca; in estrema sintesi, “i servizi manipolati dalla CIA contro il PCI” di cui parla Giannuli sono una parte di una storia assai più complessa, in cui c’erano canali informativi, finanziari e fedeltà doppie in maniera ben radicata pure dal versante del più importante partito comunista dell’Europa occidentale, come hanno dimostrato “ad abundantiam” (e spesso in un silenzio assordante) il compianto Victor Zaslavsky e Salvatore Sechi. L’idea che il PCI post Togliattiano avesse tagliato i ponti con il mondo di Oltrecortina è infatti una leggenda: rapporti e legami vi furono anche in piena epoca berlingueriana, fino alla caduta del muro di Berlino.
La conclusione del volume è forse la più interessante di tutto lo studio: cosa fanno oggi i servizi? Scopriamo che – in senso lato – fanno veramente di tutto, per conto di stati sovrani, per potentati economici, e per lobby politico-finanziarie. Guerra politica ed economica si sovrappongono, sino a rendere faticoso il confine fra l’una e l’altra. I fini e i mezzi della lotta comprendono uno spionaggio tecnologico sistematico i cui attori – senza troppe difficoltà – sono professionisti che passano da operazioni coperte per conto di una nazione ai danni di un’altra, ad agire come “consulenti” per multinazionali decise a conquistare mercati economici e finanziari.
Scandalizzarsi di tutto questo sarebbe come scandalizzarsi della storia del mondo. E per questo motivo siamo grati allo studio di Giannuli e alla serenità con cui questo ricercatore ha affrontato lo spinoso argomento delle “spie”.

Sulle guerre
Nicola Labanca (a cura di), Guerre vecchie, Guerre nuove, Milano, Bruno Mondadori, 2009

Nicola Labanca è uno dei più autorevoli studiosi di storia militare, neglettissima disciplina (come anche Giannuli sottolinea nel suo volume dianzi commentato) che però è indispensabile per la comprensione di numerosi aspetti della realtà contemporanea. In veste di autore e curatore, lo studioso fiorentino ci propone una rassegna di alcuni fra i più importanti interventi degli ultimi anni sul tema della guerra, o meglio “delle guerre”, e della loro evoluzione nel corso degli ultimi cinquant’anni. Le guerre “vecchie”, Clausewitziane, sono diverse dai conflitti “nuovi”, dell’epoca post-bipolare? E se sì, in cosa? Sono domande che hanno provocato uno straordinario dibattito dentro e fuori dal mondo accademico di tutta Europa, e assai meno in Italia, come sottolinea Labanca. Questo, ovviamente, al netto dei pochi addetti ai lavori che si sono confrontati fra loro in una sorta di “cenacolo di iniziati”, ossia coloro che ritengono che la storia della guerra sia dignitosa come la storia delle riforme agrarie a Roccacannuccia, affermazione che parrebbe banale, ma che invece non lo è affatto, vista la massa di studi sulle più marginali manifestazioni dell’ingegno umano e la scarsità di riflessioni sugli eventi bellici che hanno segnato la nostra epoca.
I saggi presentati nel testo, inediti sino ad oggi in italiano, hanno come filo conduttore le riflessioni che una decina di anni fa la studiosa Mary Kaldor aveva espresso nel suo classico “Le nuove guerre” (Roma, Carocci, 1999) – altre sue riflessioni, anche autocritiche, sono presenti nel volume curato da Labanca – le quali rappresentavano un’evoluzione dei conflitti post-guerra fredda nel senso di un coinvolgimento totalitario della popolazione civile, che era passata da “vittima collaterale” a oggetto primario dell’azione bellica prima e politica poi.
Fra i vari interventi riportati nel volume, ci sono parsi particolarmente incisivi quelli di Lawrence Freedman, Vojtech Mastny, e Norman Friedman, tutti incentrati sull’evoluzione delle strategie nucleari americane e sovietiche. Nei saggi in questione, si fa il punto pressoché definitivo sulle direttrici del confronto fra le due superpotenze. Ora, se le linee della politica USA in merito di guerra atomica erano già conosciute, almeno a grandi linee, quelle dell’URSS dall’era staliniana a quella di Breznev, tema affrontato da Mastny, ci sono risultate in gran parte nuove e di straordinario interesse. Sapere a distanza di quasi un cinquantennio che la crisi di Cuba fu tutto sommato una scaramuccia in confronto al confronto berlinese del 1961, apre nuovi cantieri di studio. Inquietante, e degno davvero dell’interesse degli studiosi italiani per il presente ed il futuro, è poi la “summa teorica” degli alti gradi dell’Armata rossa, i quali per un quarto di secolo si baloccarono e si esercitarono sul campo in dozzine di manovre militari per simulare un’offensiva risolutiva in occidente, capace di portare l’esercito sovietico in una settimana sulle sponde dell’Atlantico, tagliando in due l’Europa, ridotta più o meno a un cumulo di macerie atomizzate dall’uso tattico delle testate nucleari (un paio delle quali destinate a trasformare in crateri Verona e Vicenza). Una disciplina confermata “ad abundantiam” in manuali e direttive distribuite a tutti i paesi del patto di Varsavia dagli anni ’50 ai ’70 inoltrati. Alla faccia degli guerrafondai americani…
Degni di interesse inoltre gli studi dedicati a tutte le guerre non convenzionali, che oggi come non mai necessitano di interpretazioni nuove per comprendere tutti i legami che il passato riverbera sul presente, piuttosto che i “cluster”, le cesure che chiudono un’era e ne aprono un’altra. In questo, a parer nostro, forse sta il limite dell’analisi della Kaldor, specie per quello che concerne la sua indagine sulle guerre ex iugoslave. Secondo noi il peso del passato in quel conflitto, ossia quello della seconda guerra mondiale, ci è sempre parso uno degli elementi dominanti di tutto il tragico scenario balcanico, cosa che invece la studiosa inglese pare mettere in secondo piano rispetto agli altri fattori (economici, geografici e politici). Se i croati decisero di armarsi nell’estate del 1991 al grido di “ricordatevi di Bleiburg”, forse il passato che non passa non è un elemento folkloristico, ma una parte essenziale dell’eccesso di violenza di quella guerra civile europea, così vicina e così già dimenticata.