sabato 26 aprile 2014

Repubblica sociale: immagini, luoghi, uniformi

Manifesti dei perdenti
Fascismo ultimo atto, l’immagine della Repubblica sociale italiana (a cura di Matteo Fochessati e Gianni Franzone), Genova, Il Canneto, 2014

L’immagine e la propaganda della RSI sono temi che hanno conosciuto negli ultimi trent’anni diverse occasioni di approfondimento, sia per quanto riguarda la cinematografia, la fotografia e l’illustrazione. Nonostante queste premesse, il volume in questione, che raccoglie le più significative immagini di una mostra svoltasi a Genova nello scorso inverno, porta all’attenzione del lettore una notevole mole di materiale inedito, e scarsamente conosciuto. I reperti più significativi provengono dalla singolare “Collezione Walson” un archivio privato che raccoglie manifesti di propaganda politica dalla fine dell’800 fino al 1945, e che ha attualmente sede nel polo museale di Nervi. Nell’analisi del materiale presente nel lavoro, l’attenzione scivola appunto su numerose inedite immagini propagandistiche fasciste e naziste presenti nella seconda parte del volume. Passando quindi oltre alle conosciute e odiose immagini dei due “numi tutelari” della propaganda repubblichina, ossia Gino Boccasile e Dante Coscia, ci troviamo di fronte a produzioni di tono minore, o addirittura localistico (manifesti a cura delle federazioni fasciste liguri, ad esempio), dallo stile particolarmente truce e minaccioso, unito a immagini crude di morte e distruzione; su tutti, però, ci sono parsi davvero memorabili nel tono e nella forma, i manifesti disegnati da un anonimo artista italiano, di chiara ispirazione germanica,  raccolti in una serie tematica intitolata “il soldato tedesco”, perfetta rappresentazione di come nazisti avessero un’idea del paese che occupavano totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti: si fatica infatti a immaginare come l’osservatore italiano potesse risultare favorevolmente impressionato dall’idea che i contadini italiani fossero protetti da un graduato della Wehrmacht in mimetica (dall’aspetto poco rassicurante), o che le famiglie fossero tutelate da giovani paracadutisti armati di panzerfaust, oppure – incredibilmente – che una processione religiosa si svolgesse in letizia sotto il cipiglio particolarmente aggrottato di un fante tedesco. Addirittura ci è parso ai limiti del puro “horror” l’ultimo manifesto della serie risalente ai primi del 1945, con la sagoma del volto di un milite in elmetto germanico, il cui sorriso sembra un sogghigno sgraziato, e la cui figura emerge grettamente scontornata da uno sfondo nero-pece. Ogni possibile tentativo propagandistico nei confronti dei cittadini dell’Italia occupata, evidentemente, era a quel punto del tutto fallito, e ai disegnatori pagati (lautamente) dai loro finanziatori con la svastica al braccio, restava solo l’autorappresentazione del proprio lutto e della propria sconfitta, ormai imminente.

Una valle in guerra
Tullio Ormezzoli, Tra fascismo e resistenza, Aosta, Le Chateau edizioni, 2013

La ricerca di Ormezzoli ha il pregio di raccogliere in una sintesi agile, ma comunque ricca di dettagli poco conosciuti, il biennio 1943-45 nella Valle d’Aosta, territorio che conobbe vicende singolari sia sul fronte resistenziale che su quello degli occupanti tedeschi e delle truppe della RSI. Terra di confine assai più del resto del Piemonte e quindi anche oggetto di interessi geopolitici estranei al resto della regione, Aosta e la sua provincia conobbero una resistenza che fu sempre legata alla tutela dell’indipendenza e degli interessi economici e sociali “della valle”, più che dalle dinamiche politiche del movimento di liberazione delle confinanti province di Torino e Vercelli. E’ ovvio che alcune dinamiche appaiono per forza di cose simili al resto della RSI, come l’isolamento civile dei fascisti, che pure avevano recuperato come prefetto e capo della provincia il conosciuto ex federale Cesare Augusto Carnazzi, uno iato destinato ad aumentare dopo la creazione del battaglione “Moschettieri delle Alpi” e successivamente della brigata nera “Emilio Piccot”, che non conobbero altro impiego se non quello di rastrellare senza tregua le valli alpine, e di presidiare il capoluogo con uffici di polizia “autonoma” destinati – come altrove – alla tortura sistematica dei prigionieri. I tedeschi, la cui presenza non fu particolarmente ingombrante fino all’autunno 1944, diventano invece protagonisti diretti degli eventi bellici nel momento in cui il confine con la Francia torna ad essere la linea del fronte, come nel giugno 1940. Da quel momento l’intera valle è immediata retrovia, e le caserme del capoluogo si riempiono di alpini germanici della 5° divisione Gebirgsjaeger, e italiani della RSI, giunti al seguito della Wehrmacht dopo un lungo periodo di addestramento in Germania. Saranno proprio i fanti piumati del 4° reggimento della divisione “Littorio” comandato dal tenente colonnello Armando de Felice che giocheranno, in accordo tacito con i tedeschi, ed esplicito con il CLN aostano, un ruolo fondamentale per evitare che l’occupazione delle truppe gaulliste potesse avvenire prima dell’arrivo delle avanguardie americane. Le pretese francesi successive alla fine delle ostilità, infatti, furono fortemente limitate dal “fait accompli”: gli americani erano giunti ad Aosta prima degli “Chasseurs des Alpes” transalpini, rallentati dai precisi tiri dell’artiglieria della “Littorio” dislocati sul Piccolo san Bernardo; sostanzialmente incorporati nel CVL (anche se in zona Cesarini…) gli alpini fino al 2 maggio del 1945, fecero finta di non sapere nulla della fine della guerra. Le prepotenze successive di una minoranza annessionista, riscossero, come noto, poco successo, e nello statuto autonomo la valle ha poi trovato definitiva stabilità per i successivi 70 anni. In conclusione il lavoro risulta quindi meritorio per chiunque volesse avvicinare senza pregiudizi una stagione particolarmente complessa di questa parte del paese.

Divise sbagliate
Luca Stefano Cristini, Le Forze Armate della RSI 1943-45, Rodengo Saiano, Soldier Publishing 2013.

Dedicarsi all’uniformologia dei reparti di Salò è da sempre croce e delizia di una nicchia di studiosi di storia militare, i quali cercano regole generali in un esercito nel quale – realmente – ogni milite aveva una “sua” divisa, in un tragico carnevale di gladi, fasci, nastrini, maglioni, utilizzati non tanto per gusto personale, come molte volte in passato si è sostenuto, ma per irreparabili carenze di equipaggiamento e approvvigionamento: i nazisti, veri padroni del nord occupato, dopo il totale saccheggio dei magazzini militari italiani (dai quali uscirono gli ubiqui completi mimetici di molti reparti di  Wehrmacht ed SS), lasciarono più meno gli stracci alle forze armate del grigio duce lacustre. Da qui la sensazione univoca nelle rappresentazioni visive d’epoca, di osservare più una rassegna di raffazzonati e imberbi fanatici, che efficienti e volitivi alfieri del “nuovo ordine europeo. Purtroppo nella parte centrale del volume di Cristini, ossia le tavole illustrate, la povertà degli elementi e gli errori rinvenuti, risultano davvero imbarazzanti; solo per citare qualche esempio: i fanti della divisione “Littorio” di certo non avevano le mostrine dei granatieri, come si riscontra nelle tavole, ma il semplice gladio sul bavero (solo i reparti alpini avevano fiamme verdi a tre punte); i soldati della divisione “San Marco” indossano improbabili giacche grigio azzurre invece del grigio verde di ordinaza; la legione M “Tagliamento” non risulta in alcun modo che avesse un nastro da polso nero, di stile tedesco, con il nome del reparto ricamato, così come nessun reparto in camicia nera e fez (una rarità riservata a quelle unità che derivavano direttamente dai reparti pre armistiziali rimasti alleati ai nazisti) aveva il teschio sul copricapo, come negli anni ’20; alcuni figuranti con riproduzioni attuali di divise d’epoca, si inventano comandanti di brigata nera vestiti tutti come Alessandro Pavolini con maglione nero, zip e nastrini delle decorazioni, quando invece sappiamo che per motivi pratici e carenze organizzative, nessuno si attenne alle direttive del lunatico segretario del partito fascista; qualcosa di meglio si osserva nelle tavole riguardanti i paracadutisti del reggimento “Folgore” e della “X Mas”, ma davvero ci si aspettava qualcosa di meglio da un’opera che, quantomeno, poteva e doveva fare tesoro di decine di pubblicazioni precedenti. Il lavoro, in conclusione, è viziato da un approccio un po’ troppo, con figuranti in divisa che probabilmente sono gli stessi appassionati di “reenacting” i quali ci paiono gli unici possibili fruitori del volume.