Manifesti dei perdenti
Fascismo ultimo atto,
l’immagine della Repubblica sociale italiana (a cura di Matteo Fochessati e
Gianni Franzone), Genova, Il Canneto, 2014
L’immagine e la propaganda della
RSI sono temi che hanno conosciuto negli ultimi trent’anni diverse occasioni di
approfondimento, sia per quanto riguarda la cinematografia, la fotografia e
l’illustrazione. Nonostante queste premesse, il volume in questione, che
raccoglie le più significative immagini di una mostra svoltasi a Genova nello
scorso inverno, porta all’attenzione del lettore una notevole mole di materiale
inedito, e scarsamente conosciuto. I reperti più significativi provengono dalla
singolare “Collezione Walson” un archivio privato che raccoglie manifesti di
propaganda politica dalla fine dell’800 fino al 1945, e che ha attualmente sede
nel polo museale di Nervi. Nell’analisi del materiale presente nel lavoro,
l’attenzione scivola appunto su numerose inedite immagini propagandistiche fasciste
e naziste presenti nella seconda parte del volume. Passando quindi oltre alle
conosciute e odiose immagini dei due “numi tutelari” della propaganda
repubblichina, ossia Gino Boccasile e Dante Coscia, ci troviamo di fronte a
produzioni di tono minore, o addirittura localistico (manifesti a cura delle
federazioni fasciste liguri, ad esempio), dallo stile particolarmente truce e
minaccioso, unito a immagini crude di morte e distruzione; su tutti, però, ci
sono parsi davvero memorabili nel tono e nella forma, i manifesti disegnati da
un anonimo artista italiano, di chiara ispirazione germanica, raccolti in una serie tematica intitolata “il
soldato tedesco”, perfetta rappresentazione di come nazisti avessero un’idea
del paese che occupavano totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti: si fatica
infatti a immaginare come l’osservatore italiano potesse risultare favorevolmente
impressionato dall’idea che i contadini italiani fossero protetti da un graduato
della Wehrmacht in mimetica (dall’aspetto poco rassicurante), o che le famiglie
fossero tutelate da giovani paracadutisti armati di panzerfaust, oppure –
incredibilmente – che una processione religiosa si svolgesse in letizia sotto
il cipiglio particolarmente aggrottato di un fante tedesco. Addirittura ci è parso
ai limiti del puro “horror” l’ultimo manifesto della serie risalente ai primi
del 1945, con la sagoma del volto di un milite in elmetto germanico, il cui
sorriso sembra un sogghigno sgraziato, e la cui figura emerge grettamente scontornata
da uno sfondo nero-pece. Ogni possibile tentativo propagandistico nei confronti
dei cittadini dell’Italia occupata, evidentemente, era a quel punto del tutto
fallito, e ai disegnatori pagati (lautamente) dai loro finanziatori con la
svastica al braccio, restava solo l’autorappresentazione del proprio lutto e
della propria sconfitta, ormai imminente.
Una valle in guerra
Tullio Ormezzoli, Tra fascismo
e resistenza, Aosta, Le Chateau edizioni, 2013
La ricerca di Ormezzoli ha il
pregio di raccogliere in una sintesi agile, ma comunque ricca di dettagli poco
conosciuti, il biennio 1943-45 nella Valle d’Aosta, territorio che conobbe
vicende singolari sia sul fronte resistenziale che su quello degli occupanti
tedeschi e delle truppe della RSI. Terra di confine assai più del resto del
Piemonte e quindi anche oggetto di interessi geopolitici estranei al resto della
regione, Aosta e la sua provincia conobbero una resistenza che fu sempre legata
alla tutela dell’indipendenza e degli interessi economici e sociali “della
valle”, più che dalle dinamiche politiche del movimento di liberazione delle
confinanti province di Torino e Vercelli. E’ ovvio che alcune dinamiche
appaiono per forza di cose simili al resto della RSI, come l’isolamento civile
dei fascisti, che pure avevano recuperato come prefetto e capo della provincia
il conosciuto ex federale Cesare Augusto Carnazzi, uno iato destinato ad
aumentare dopo la creazione del battaglione “Moschettieri delle Alpi” e
successivamente della brigata nera “Emilio Piccot”, che non conobbero altro
impiego se non quello di rastrellare senza tregua le valli alpine, e di
presidiare il capoluogo con uffici di polizia “autonoma” destinati – come
altrove – alla tortura sistematica dei prigionieri. I tedeschi, la cui presenza
non fu particolarmente ingombrante fino all’autunno 1944, diventano invece
protagonisti diretti degli eventi bellici nel momento in cui il confine con la
Francia torna ad essere la linea del fronte, come nel giugno 1940. Da quel
momento l’intera valle è immediata retrovia, e le caserme del capoluogo si
riempiono di alpini germanici della 5° divisione Gebirgsjaeger, e italiani
della RSI, giunti al seguito della Wehrmacht dopo un lungo periodo di
addestramento in Germania. Saranno proprio i fanti piumati del 4° reggimento
della divisione “Littorio” comandato dal tenente colonnello Armando de Felice
che giocheranno, in accordo tacito con i tedeschi, ed esplicito con il CLN
aostano, un ruolo fondamentale per evitare che l’occupazione delle truppe
gaulliste potesse avvenire prima dell’arrivo delle avanguardie americane. Le
pretese francesi successive alla fine delle ostilità, infatti, furono fortemente
limitate dal “fait accompli”: gli americani erano giunti ad Aosta prima degli
“Chasseurs des Alpes” transalpini, rallentati dai precisi tiri dell’artiglieria
della “Littorio” dislocati sul Piccolo san Bernardo; sostanzialmente incorporati
nel CVL (anche se in zona Cesarini…) gli alpini fino al 2 maggio del 1945,
fecero finta di non sapere nulla della fine della guerra. Le prepotenze
successive di una minoranza annessionista, riscossero, come noto, poco
successo, e nello statuto autonomo la valle ha poi trovato definitiva stabilità
per i successivi 70 anni. In conclusione il lavoro risulta quindi meritorio per
chiunque volesse avvicinare senza pregiudizi una stagione particolarmente
complessa di questa parte del paese.
Divise sbagliate
Luca Stefano Cristini, Le
Forze Armate della RSI 1943-45, Rodengo Saiano, Soldier Publishing 2013.
Dedicarsi all’uniformologia dei
reparti di Salò è da sempre croce e delizia di una nicchia di studiosi di
storia militare, i quali cercano regole generali in un esercito nel quale – realmente
– ogni milite aveva una “sua” divisa, in un tragico carnevale di gladi, fasci,
nastrini, maglioni, utilizzati non tanto per gusto personale, come molte volte
in passato si è sostenuto, ma per irreparabili carenze di equipaggiamento e
approvvigionamento: i nazisti, veri padroni del nord occupato, dopo il totale
saccheggio dei magazzini militari italiani (dai quali uscirono gli ubiqui
completi mimetici di molti reparti di
Wehrmacht ed SS), lasciarono più meno gli stracci alle forze armate del
grigio duce lacustre. Da qui la sensazione univoca nelle rappresentazioni
visive d’epoca, di osservare più una rassegna di raffazzonati e imberbi
fanatici, che efficienti e volitivi alfieri del “nuovo ordine europeo.
Purtroppo nella parte centrale del volume di Cristini, ossia le tavole
illustrate, la povertà degli elementi e gli errori rinvenuti, risultano davvero
imbarazzanti; solo per citare qualche esempio: i fanti della divisione
“Littorio” di certo non avevano le mostrine dei granatieri, come si riscontra
nelle tavole, ma il semplice gladio sul bavero (solo i reparti alpini avevano
fiamme verdi a tre punte); i soldati della divisione “San Marco” indossano
improbabili giacche grigio azzurre invece del grigio verde di ordinaza; la
legione M “Tagliamento” non risulta in alcun modo che avesse un nastro da polso
nero, di stile tedesco, con il nome del reparto ricamato, così come nessun
reparto in camicia nera e fez (una rarità riservata a quelle unità che
derivavano direttamente dai reparti pre armistiziali rimasti alleati ai
nazisti) aveva il teschio sul copricapo, come negli anni ’20; alcuni figuranti
con riproduzioni attuali di divise d’epoca, si inventano comandanti di brigata
nera vestiti tutti come Alessandro Pavolini con maglione nero, zip e nastrini
delle decorazioni, quando invece sappiamo che per motivi pratici e carenze
organizzative, nessuno si attenne alle direttive del lunatico segretario del
partito fascista; qualcosa di meglio si osserva nelle tavole riguardanti i
paracadutisti del reggimento “Folgore” e della “X Mas”, ma davvero ci si
aspettava qualcosa di meglio da un’opera che, quantomeno, poteva e doveva fare
tesoro di decine di pubblicazioni precedenti. Il lavoro, in conclusione, è
viziato da un approccio un po’ troppo, con figuranti in divisa che
probabilmente sono gli stessi appassionati di “reenacting” i quali ci paiono
gli unici possibili fruitori del volume.