Paolo Graziano, Neopopulismi,
Il Mulino, Bologna, 2019
E’ ormai prassi comune utilizzare
la definizione “populismo” con accezione negativa nel discorso pubblico e nei
media (particolarmente in Italia); eppure non mancherebbero studi sociologici,
storici e politologici che dovrebbero quantomeno consigliare maggiore cautela
per comprendere un fenomeno diffuso in tutte le maggiori democrazie
occidentali, e che ha un successo politico crescente in tutta Europa. Paolo
Graziano, in questo agile e denso volume, ci offre non soltanto un quadro delle
caratteristiche che distinguono i vari populismi, facendo notare come non
esista solo un modello “di destra” (rappresentato da Orban piuttosto che dalla
Lega) di questa modalità di rappresentanza politica, ma anche diverse
esperienze “di sinistra” (come Podemos o Syriza) che hanno conosciuto e
conoscono un notevole sviluppo in tutto il continente. L’autore inoltre riesce
a smontare molti dei pregiudizi che ruotano attorno al termine “populismo”,
osservando, come si legge nel sottotitolo dello studio, quanto sia probabile la
lunga durata, se non la stabilizzazione di questa forma-partito nel presente e
nel futuro. Purtroppo lo snodo centrale delle analisi di Graziano, ossia le
risposte alla crisi della rappresentanza democratica, sono ancora oggi,
soprattutto in Italia, le grandi assenti dal dibattito politico. Più facile offrire
al pubblico commenti denigratori, demonizzando a ogni livello un’esperienza che
nulla ha a che fare con i totalitarismi del XX secolo, e che, anzi, ha aumentato ovunque il livello di
partecipazione nella politica attiva, spesso anche da parte di molti cittadini
che fino a quel momento erano rimasti “alla finestra” non riconoscendosi in
alcun partito tradizionale. In tanti fra gli analisti più meno autorevoli che
quotidianamente ci propongono analisi sussiegose sul presente e sul futuro del
nostro paese, dovrebbero avvicinarsi alla lettura, semplice ed esaustiva, di
Graziano. Magari riuscirebbero a uscire da una spirale di retorica sterile per
rappresentare, finalmente un quadro veritiero del paese, ammesso che questo sia
di qualche interesse per molti narcisi del giornalismo italiano.
Istvan Deak, Europa a processo,
Il Mulino, Bologna, 2019
Questo studio di insieme, tanto
approfondito quanto di semplice lettura, è stato pubblicato nella nostra lingua
con inspiegabile ritardo (l’edizione in lingua inglese è del 2015) e con un
titolo che purtroppo non rispecchia il doppio senso dell’originale, “Europe on trial”, che può significare
assieme “Europa a processo” o “L’Europa alla prova”. Deak offre al lettore un
saggio di storia comparata che dovrebbe essere tenuto in considerazione da
chiunque voglia avvicinarsi a una lettura imparziale dei collaborazionismi
europei, della loro ascesa e caduta, e di come la giustizia post bellica ha
punito chi aveva creduto, fino alle estreme conseguenze, al nuovo ordine
hitleriano. Spesso, anzi quasi sempre, si è giudicato il collaborazionismo
italiano come una sorta di evento unico, senza guardare come esperienze simili
si svilupparono nel corso dell’occupazione tedesca. Allo stesso modo, poco si è
indagato su come le nazioni democratiche (o meno democratiche, o sotto il
tallone sovietico) giudicarono nel dopoguerra i fedeli del vangelo nazista. Si
scoprono così (finalmente), nuove chiavi di lettura: il nazionalismo
anticomunista presente in numerosi stati del centro Europa, che fece giudicare
la Wehrmacht un male minore rispetto all’Armata rossa, l’autentico furore
antisemita dei seguaci del Fuehrer (e non solo) in Olanda, Belgio e Francia. La
confusa sovrapposizione di lotte etniche e movimento antinazista nei Balcani.
La giustizia insurrezionale e sommaria fu un tratto distintivo di ogni nazione
del continente, prendendo poi una via ideologica al di là della cortina di
ferro, fino alla completa dissoluzione di ogni parvenza di movimento
democratico, mentre sotto l’ombrello statunitense, la collaborazione divenne
col passare degli anni, un peccato veniale, tollerabile e tollerato
praticamente ovunque, dalla Danimarca fino all’Italia. Senza contare, come
argutamente argomenta Deak, i tanti voltagabbana, fanatici nazisti prima e
fanatici comunisti poi, che in Ungheria come in Romania, misero al servizio dei
nuovi padroni i loro servizi di poliziotti senza scrupoli. Una lettura
illuminante, che finalmente riesce a spostare la messa a fuoco delle analisi
sulla cosiddetta “mancata epurazione” italiana, con esperienze analoghe del
resto d’Europa.
Giovanni Cecini, I generali di
Mussolini, Newton Compton, Roma, 2019
L’autore offre un quadro
d’insieme dei vertici delle forze armate fasciste, riunendo le biografie dei
maggiori esponenti di esercito, marina e aviazione del periodo fascista;
percorsi che in apparenza possono apparire disomogenei, ma che in realtà, a
nostro parere, hanno un comune denominatore, ossia l’acquiescenza verso il
regime di Mussolini, con uno specchio non troppo ampio di distinzioni. Nel
dopoguerra molti degli alti ufficiali le cui storie sono tratteggiate nel
volume, hanno cercato in ogni modo di scrollarsi di dosso l’etichetta del
“generale fascista”: da Pietro Badoglio a Giovanni Messe, passando da Federico
Baistrocchi al “repubblichino” Rodolfo Graziani, nessuno rivendicò la propria
piena adesione alle scelte del fascismo, dalle guerre coloniali al catastrofico
conflitto mondiale. Salvo i caduti in guerra o coloro che scomparvero
prematuramente, tutti, dal 1945 in avanti, aggiustarono le proprie biografie,
con memoriali o veri e propri romanzi, per affermare una propria distanza dalle
malefatte del ventennio. In realtà, come Cecini descrive “ad abundantiam”, la
scelta di Mussolini di investire fin dagli anni ‘20 enormi quantità di denaro
pubblico (sperperato poi in mille rivoli, con un micidiale sistema di
inefficienze e di corruttele di ogni genere) nelle nostre forze armate, fu una
autentica manna dal cielo per chi si trovava ai vertici dell’esercito. Si
costruirono dal nulla prodigiose carriere militari per coloro che navigavano
attorno al “cerchio magico” del duce, destinate a sciogliersi come neve al sole
ai primi seri rovesci successivi al giugno 1940. Non per questo, onestamente, i
“generali di Mussolini” erano tutti degli incompetenti; di certo pochi avevano
studiato seriamente i modelli emergenti nelle tattiche e nelle strategie delle
forze armate del continente, e nessuno, fatto salvo Italo Balbo, aveva toccato
con mano il modello statunitense della produzione in serie degli armamenti e
della mobilitazione di massa per la macchina bellica. Forse, insomma, nessuno
era fascista nel cuore e nell’animo, diversi confidavano in onori e prebende a
buon mercato, e solo una ristretta minoranza comprese la follia dell’intervento
in guerra, che avrebbe poi segnato la fine del “cursus honorum” di ciascuno dei
protagonisti dello studio.
Paolo Morando, Prima di piazza
Fontana, Laterza, Bari, 2019
Nel confuso ginepraio del
terrorismo nero in Italia, è difficile trovare un bandolo della matassa nel
susseguirsi di attentati, stragi, complotti riusciti e mal riusciti, ai danni
del popolo italiano e della democrazia. Paolo Morando, in questo pregevole
studio, punta le luci sulle “altre bombe”, quelle dimenticate del 25 aprile
1969, esplose in Fiera e alla stazione centrale di Milano, che precedettero di
pochi mesi l’eccidio di piazza Fontana. Eppure, paradossalmente, sono le uniche
per le quali esistono i colpevoli e sono state acclarate in modo definitivo le
responsabilità di Franco Freda, Giovanni Ventura e della cellula veneta del
movimento neonazista “Ordine Nuovo”. Certo, non provocarono morti, però il
perverso meccanismo fatto di fanatici di destra, burattinai appartenenti alle
istituzioni, poco accorti investigatori della polizia, capri espiatori a buon
mercato, come gli anarchici del capoluogo lombardo, era già scattato come in
una prova generale, stringendo il cappio attorno agli innocenti e facendo
sparire le tracce dei veri colpevoli. I nomi che rinveniamo nel volume sono gli
stessi che si ritrovano nelle decine di lavori sulla strage della banca
nazionale del lavoro: da Pietro Valpreda a Giuseppe Pinelli, da Luigi Calabresi
ad Antonino Allegra, oltre ovviamente ai già citati protagonisti del terrore
nero. Surreali le udienze ai processi che si celebrarono nei primi anni ’70,
nei quali, a differenza di quelli per la strage di piazza Fontana, non si ebbe
nemmeno la magra soddisfazione di vedere, al banco degli imputati, gli innocenti
di sinistra assieme ai colpevoli di destra. Tutto il castello di menzogne finì
per crollare sulla testa di chi aveva letteralmente fabbricato le prove per
incastrare gli anarchici, mentre le colpe, quelle vere, furono individuate solo
dopo decenni. Unico appunto che si può a fare a questo comunque istruttivo
lavoro di indagine, è il tono, forse troppo conciliante, per il mondo
dell’estremismo di sinistra, che era tutt’altro che pacifico e innocuo. Così
come il modo con cui è tratteggiato l’operato del commissario Luigi Calabresi
ci è parso talvolta inutilmente severo e tagliente. Questo a nostro modesto
avviso.
Mario Avagliano, Marco Palmieri, Dopoguerra,
Il Mulino, Bologna, 2019
Prosegue il meritorio lavoro di
rilettura dell’Italia a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta svolto da
Avagliano e Palmieri, i quali, tassello dopo tassello, svolgono un meritorio
lavoro di divulgazione colta per chiunque voglia avvicinarsi alla storia
recente del paese; gli autori si soffermano in questo studio sull’immediato
dopoguerra, centrando, a nostro parere, quella che è la chiave di lettura del
periodo, ossia la sovrapposizione di storie destinate spesso a incrociarsi e
sovrapporsi in modo magmatico. Se un errore, madornale, è stato fatto in
passato negli studi sul biennio tra il 1945 e il 1947, è sempre stato quello di
cercare una “reductio ad unum” di vicende impossibili da sintetizzare, e che
forse andavano viste e valutate singolarmente. Così come era impossibile il dialogo
fra i monarchici e i repubblicani, era impervio il rapporto fra il nord reduce
dalla guerra civile e il sud che non aveva conosciuto la resistenza, e i reduci
della prigionia inglese o francese erano destinati a non capire il sacrificio
personale di chi aveva subito l’internamento, militare o politico, nel sistema
concentrazionario nazista. Ogni singolo italiano conosceva un dolore familiare
diverso da quello degli altri, in una generale incomprensione collettiva
mediata in modo assai parziale dalle forze politiche che emergevano sullo scenario
di un paese distrutto e diviso. La voglia di giustizia espressa prima
sommariamente e poi in maniera sempre più blanda per vie istituzionali nei
confronti dei protagonisti dell’ultimo feroce scampolo di fascismo, si
scontrava con la volontà diffusa di normalità, se non di vero e proprio
divertimento. Lo scontro ideologico fu durissimo, e spesso cruento, ma si ha l’impressione
che la reale volontà di fare un “ribaltone” antidemocratico da parte delle
sinistre, fosse patrimonio di una fazione motivata, ideologicamente preparata e
oggettivamente capace di fare ricorso alle armi per instaurare un regime
comunista nel paese, ma conscia di essere minoritaria anche all’interno del
mondo operaio e contadino. Tutti, sia pure in modo diverso, volevano guardare
avanti, compresi gli ultimi nostalgici di Mussolini e gli orfani del re in
esilio dopo il referendum perso (o pareggiato?).