domenica 14 ottobre 2007

buoni e cattivi

Ingiustizie italiane (recensione di Paolo Gheda)
Dianella Gagliani (a cura), Il difficile rientro. Il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra, Clueb, Bologna 2004, 224 pp.

Il volume curato da Dianella Gagliani si collega espressamente ad una precedente collettanea dedicata alla “cattedra negata” (che si era concentrata sul giuramento di fedeltà dei professori al fascismo). Rispetto al primo lavoro, il filo rosso che raccorda i presenti interventi è quello del razzismo. Se nella lentezza della reintegrazione dei docenti rimossi per le leggi razziali si può rinvenire la preoccupazione di non coinvolgere i docenti subentrati nella cattedra, secondo Pier Ugo Calzolari “ben più distintamente vi si coglie il desiderio di chiudere sbrigativamente i conti con la stagione dell'obbrobrio razzista” (p. 7).
Secondo la curatrice, se è vero che la sconfitta del fascismo costituì “la premessa per l'affermarsi di una cultura della tolleranza e dell'inclusione” (p. 11), tale inversione non risultò immediata anche in ambito dell'alta cultura e dell'insegnamento superiore. Le stesse modalità di reintegro del personale ebraico epurato da parte del regime non avvenne secondo una logica di recupero totale degli incarichi e delle qualifiche ma in forma soprannumeraria e con la condivisione di corsi e direzioni di istituti con i docenti subentrati a seguito delle leggi razziali. Si trattò quindi di un ritorno “in sordina” da parte dei docenti ebrei, che non fu pubblicizzato da alcuna cerimonia o convegno, palesando nella autorità repubblicane una mentalità tesa piuttosto a ridicolizzare l’impatto del fascismo sull’alta cultura (p. 12). In effetti, però, resta oggi dimostrata l'interazione che legava negli anni Trenta, il personale docente delle università alla politica attraverso vari organismi quali enti, comitati, consorzi, constatazione che di fatto nega l'isolamento totale dell'Università dal regime (p. 14). In questo senso appare particolarmente esemplare l'autodifesa del Rettore di Bologna Ghigi che in sostanza giustificò la sua adesione al regime dinanzi alla commissione di epurazione sottolineando i vantaggi di cui l'Ateneo aveva goduto. Il nodo più significativo fu il fatto che nel 1938 con la promulgazione delle leggi razziali non ci si rese conto del danno culturale per gli atenei accettando di cacciare i docenti ebrei (p. 15). Si trattò della perdita di circa 400 elementi tra professori ordinari, assistenti e i liberi docenti. Per il particolare caso di Bologna la ricerca di Simona Salustri ha sinora identificato docenti allontanati dall'ateneo bolognese, ma un dato ancora più impressionante è quello rilevato da Gian Paolo Brizzi, relativo ai 436 studenti ebrei cacciati di cui solo sei rientrarono alla fine della guerra.
Secondo Roberto Finzi il tema del ritorno nella cultura ebraica del secondo dopoguerra è un nodo che a lungo si presenta come “irrisolto e irresolubile per chi ne è uscito vivo ma mai indenne” (p. 22). Sotto questo punto di vista va considerato il fatto che gli accademici di origine ebraica espulsi dalle università italiane abbandonarono immediatamente l'idea di trovare una nuova collocazione lavorativa nella penisola, come attestano le figure di Modigliani e Segrè. Un atteggiamento che non mutò all'indomani della caduta del fascismo nell'Italia liberata, quando “le cose procedettero in maniera tale da scoraggiare molte dal tornare, anche in assenza di quei motivi “ragionevoli” che potevano indurre gli specialisti di determinati settori a rimanere là dove erano emigrati” (p. 24). Nel complicato panorama post bellico vi fu secondo Finzi una sottovalutazione grave della persecuzione quasi una sua rimozione (p. 30), e tutto ciò lo induce a formulare l'idea di una gestione dei perseguitati durante la defascistizzazione il più possibile indolore, una formula di autoassoluzione nelle quali l'antisemitismo era del tutto attribuito al passato regime e gli italiani della Repubblica se ne sentivano estranei. Anche per questo l'epurazione ebbe breve vita. Quindi, secondo questa lettura, la sottovalutazione della persecuzione degli ebrei e la mancata epurazione successiva sono solo un aspetto di un più ampio problema italiano di relazione con la cultura ebraica. La convinzione di Finzi è che le leggi razziste ebbero anche nella cultura italiana “radici solide, antiche e più recenti” (p. 32), forse collegate anche ad una componente antigiudaica del cattolicesimo. Vi fu però anche la concomitante mancanza di un ricambio organizzativo nella struttura universitaria post bellica in Italia: “La perdita secca per la ricerca italiana originata dai provvedimenti “a difesa della razza” del 1938 divenne danno definitivo per come si operò nel 1945” (p. 38). Successivamente si registrò un ulteriore irrigidimento di queste norme nel senso della inammissibilità di un ricorso contro il trasferimento volto a tutelare la cattedra dei subentrati (p. 41). Circa l'iter accademico degli epurati, il decreto ministeriale non riconobbe sostanzialmente il diritto agli anni di carriera durante la forzata lontananza dall'insegnamento; un professore straordinario, ad esempio, avrebbe potuto chiedere di essere sottoposto a giudizio per la nomina ordinaria ma nel caso non si fosse avvalso di tale facoltà il giudizio sarebbe stato quindi effettuato dopo tre anni di effettivo insegnamento; tutto ciò secondo Finzi attesta una mentalità per cui non si era affermato un diritto ma una semplice facoltà; tra procedure complicate e linguaggi poco chiari degli articoli di legge, il bilancio fu, a suo avviso, che paradossalmente “sulle spalle dei docenti reintegrati - la maggior parte di" razza ebraica" – si caricava il peso dei problemi e delle disfunzioni venutesi a creare a seguito della loro persecuzione [...] chi aveva fruito delle "risorse aggiuntive" create dalla legislazione razzista manteneva intatto il suo ruolo e il suo potere” (p. 44).
Secondo Fabio Levi il ritorno degli ebrei nelle università italiane dopo la guerra fu un percorso “misto di ostacoli e pieno di ombre” (p. 53); per chi decise di non ritornare in Italia, una motivazione poté essere costituita dal fatto che “il ritorno a casa avrebbe comportato un distacco ulteriore, da un rifugio dimostratosi spesso accogliente e ospitale” (p. 54) sebbene per gli ebrei l'Italia non costituì mai la “terra straniera” e non fu come la Germania per gli ebrei tedeschi. Inoltre, il sollievo della liberazione non poté cancellare l'angoscia per gli ultimi anni del fascismo, soprattutto il dato psicologico generale per cui nella percezione ebraica il lavoro aveva subito, durante la tragedia delle persecuzioni, un inevitabile ridimensionamento. Permaneva inoltre la difficoltà di convivenza tra chi veniva integrato nei ruoli accademici e chi sette anni prima aveva contribuito in molti casi alla sua estromissione (p. 55), o per lo meno l’interruzione a livello disciplinare dei contatti e dei rapporti con i colleghi in qualche modo aveva rallentato le esperienze didattiche dei docenti epurati rispetto a quelli rimasti in cattedra; questo problema si riflesse anche nella leva accademica, considerato che i più giovani trovarono grandi difficoltà a integrarsi dopo la liberazione venendo spesso considerati dei veri e propri intrusi. Si trattò così di una rottura nella vita e nelle carriere “irrimediabile”. Inoltre, secondo Levi, la subalternità dei docenti ebrei nel dopoguerra e la loro totale assenza da determinate cattedre contribuì a un generale depauperamento scientifico. In sostanza, vi fu una netta sottovalutazione all'interno dell'antifascismo della politica antisemita del regime e delle conseguenze che esso aveva avuto per il paese (p. 68).
Parallelamente alla lettura italiana, Lutz Klinkhammer propone una riflessione sul caso tedesco della reintegrazione. In un clima assai più rigido di quello italiano l'unica alternativa permessa ai docenti ebrei alla persecuzione e, dopo il 1941, alla deportazione, fu l'emigrazione. L'autore passa in rassegna i vari provvedimenti emanati dal governo nazista volti a limitare, fino a escludere completamente, la presenza ebraica all'interno delle università. Vi furono 790 accademici esclusi che si videro costretti a emigrare e solo 85 avrebbero deciso di rientrare alla fine della guerra.
Per Francesca Pelini le leggi razziali furono utilizzate dal regime come veicolo ideologico per intensificare il processo di fascistizzazione della società (p. 87). L’autrice porta poi il caso interessante di alcuni docenti cacciati che chiesero e ottennero il reintegro dal regime interpretando le norme sulla razza. Il reintegro nei ruoli dopo la guerra trovò invece resistenze anche da parte del Ministero, come ad esempio nel caso della negazione del reinserimento per chi aveva acquisito nel frattempo una cittadinanza straniera (p. 103).
Simona Salustri affronta nel dettaglio il caso bolognese, proponendo gli esiti di una vasta ricerca all’interno dell’Alma Mater e negli archivi di Stato volta a verificare gli spostamenti di tutti i docenti dell’ateneo colpiti dalle leggi del 1938, partendo dalla importante fonte costituita dal “Censimento del personale di razza ebraica” compilato dall’amministrazione universitaria bolognese (p. 113). L’elenco ricavato dalla ricerca è nuovo e aggiornato grazie anche all’utilizzo di criteri interpretativi, quali quello dell’esclusione dei docenti emeriti, a cui Bottai stesso non revocò il titolo onorifico, facendone espungere semplicemente i nominativi dagli annuari accademici (p. 117), o la verifica effettuata anche sui lettori universitari (p. 118). La Salustri si occupa quindi delle forme di reintegrazione nell’ateneo felsineo (p. 119s), nonché delle problematiche – spesso drammatiche – connesse a questi rientri (come il ritrasferimento delle famiglie dei cattedratici provenienti dall’estero), e non meno gravi sotto il profilo lavorativo, quali l’estromissioni di fatto dai precedenti livelli di responsabilità in università, come esemplifica il caso del direttore della Clinica pediatrica Maurizio Pincherle (p. 127), che attraverso uno sdoppiamento odi cattedra fu in sostanza allontanato dai suoi precedenti compiti operativi. In questa e in altre simili vicende toccate ai docenti cacciati dal regime pare di vedere però più che una forma di antisemitismo sommerso il prevalere della mentalità delle enclaves accademiche che dopo sette anni si erano ormai richiuse su posizioni protezionistiche rispetto al potere accademico in loro mano dal 1938 in avanti. La stessa Salustri parla esplicitamente del fatto che i perseguitati furono in realtà considerati al loro ritorno in Italia come degli “usurpatori” (p. 135). Sotto queste pressioni vi fu anche chi rinunciò volontariamente all’insegnamento, come il docente di puericultura Riccardo Fuà (p. 138). La Salustri, inoltre, dedica opportunamente attenzione a una categoria sinora trascurata dalla storiografia, ovvero quella degli assistenti, che nella maggior parte dei casi, non ebbero alcuna comunicazione ufficiale di reintegro, oltre a essere già stati liquidati nel 1938 senza diritti di quiescenza: per essi “era difficile alla fine del conflitto pensare di poter tornare alla situazione precedente le leggi razziali” (p. 141). In sostanza, anche la Salustri conferma il dato che la cacciata del Trentotto costituì una perdita culturale per l’accademia italiana a titolo definitivo (p. 146).
Riccardo Bonavita scende nel dettaglio della sofferta esperienza di rientro di due figure accomunate da “una ingiustizia strana e indecifrabile”, Santorre Debenedetti e Attilio Momigliano (p. 149s), mentre Gianni Sofri propone una memoria e una riflessione sul discusso tema dei docenti che decisero nel 1931 di non obbedire al regime e, non firmando il cosiddetto “giuramento dei professori” (p. 159 e ss.).
Infine, in uno dei contributi più interessanti, Gian Paolo Brizzi affronta un altro versante del problema dell’incidenza delle leggi razziali fasciste sul quadro universitario italiano e in particolare bolognese, ovvero il caso degli studenti ebrei, un aspetto “né minore, né trascurabile” dell’antisemitismo del regime (p. 166). Con un taglio interpretativo attento alla questione della mobilità studentesca, la cosiddetta “peregrinatio accademica” Brizzi. Se l’Alma Mater si distinse negli anni Venti e Trenta per la presenza di studenti stranieri (tra le più alte in Italia eccezion fatta per l’allora Regia Università (appunto) per Stranieri di Perugia (regificata nel 1925), facendosi anche “rimproverare” per questo dalle autorità fasciste (p. 167), il dato più originale è che a seguito del censimento effettuato per disposizioni ministeriali nel 1938 il 75 per cento di tale gruppo di studenti straniero aveva origini ebraiche, a duplice testimonianza della fuga per via dell’antisemitismo dagli altri atenei in Europa e conseguentemente nella presenza nell’ateneo felsineo a quella data di “alcune condizioni favorevoli”, su tutto la peculiare liberalità dei GUF bolognesi a non limitare il proprio impegno alla “glorificazione” del Duce, ma piuttosto a ispirare “principi di tolleranza, contrari comunque agli eccessi razzisti della propaganda tedesca di quegli anni” (p. 169); gli stessi studenti ebrei risultano in molti casi iscritti ai GUF (p. 171), in un clima di integrazione politica ed etnica pari a pochi altri casi in Italia (si pensi ancora alla “Stranieri” di Perugia). Un quadro che però mutò repentinamente e radicalmente con la promulgazione delle leggi razziali, quando i GUF felsinei si convertirono alle posizioni antigiudaiche più dure del regime e il corpo docente assunse posizioni “farisaiche” (p. 172). Gli effetti di questo radicale mutamento di scenari per gli studenti ebrei sono registrati da Brizzi in una gradualità di decisioni da essi prese: chi era prossimo al conseguimento dei titoli affrettò il più possibile la conclusione degli studi mentre per gli iscritti ai primi anni si presentò la drammatica alternativa se trasferirsi per continuare gli studi o abbandonare: alla fine, meno del 10 per cento degli studenti ebrei dell’ateneo bolognese riprese gli studi dopo la guerra (p. 176).
Conclude il volume l’appendice documentaria che raduna sistematicamente gli esiti della ricerca di Simona Salustri sull’intero corpo docente bolognese di origini ebraiche, all’atto dell’applicazione delle leggi razziali, accompagnando i nominativi con dettagliati profili biografici (p. 179 e ss.).


Martiri della carità (A.R.)
Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, Napoli, Ancora del Mediterraneo, 2006, 285 pp.

Il volume dello studioso toscano esamina per la prima volta in modo documentato, un episodio dell’occupazione tedesca in Lucchesia sino ad oggi solo parzialmente illuminato da indagini scientifiche: la deportazione e il successivo massacro dei monaci della certosa di Farneta e di molti civili che in essa avevano trovato rifugio, avvenuto nel settembre 1944 ai Pioppeti di Camaiore e successivamente alle foce del fiume Frigido, presso Massa. Settanta morti, molti dei quali erano sacerdoti che pagarono l’esercizio della carità cristiana nei confronti dei perseguitati: ebrei, partigiani, oppositori del regime di Salò.
La precisa connotazione antireligiosa dell’azione è una semplice constatazione delle parole dei carnefici (i professionisti del massacro appartenenti, more solito, alla 16° divisione SS Reichsfürer), che al momento dell’irruzione sacrilega nella certosa insultano e scherniscono i monaci per la loro opera di conforto alle vittime della persecuzione (si vedano le pp. 117-130 del volume, con le vivide testimonianze di chi era presente ai fatti). Non mancano poi quegli atti di violenza e tortura specificamente contra christianos che di lì a poco avranno tragica replica sull’Appennino bolognese, a Sperticano come a San Martino, dove le chiese verranno bruciate e i sacerdoti passati per le armi assieme al proprio gregge: ai frati, fatti vestire per spregio in abito civile, infatti, viene bruciata la barba, fra le risate dei militi dalle mostrine con le rune che urlano “dì al tuo Dio di farla ricrescere!” (p. 147); forse fra questi nazisti ci sono dei veterani dei reggimenti Totenkopf o degli Einsatzkommando (lo è senz’altro il capo dell’ufficio operazioni della divisione, Helmut Looss, presente all’atto dell’irruzione e della deportazione dei frati), i quali tormentavano nella stessa maniera gli ebrei ortodossi in Bielorussia e in Ucraina. Il martirio, come detto, avverrà in due fasi, prima nei pressi di Camaiore e poi, dopo un ulteriore trasferimento dei prigionieri al carcere Malaspina di Massa, alle foci del fiume Frigido. Una vicenda feroce, nella quale sono sinistramente coinvolti (come avevamo ipotizzato in alcuni studi su Lucca nella RSI, e come Fulvetti dimostra con ampia documentazione) alcuni elementi della 36° brigata nera Lucca, usati dalle SS come lo saranno di lì a poco i loro camerati carraresi della 35° brigata nera di Giulio Lodovici: spie, guide nei rastrellamenti, guardie e torturatori.
Nel dopoguerra ci sarà una giustizia frettolosa e una sentenza indecente per questi fatti, complice la disastrosa condotta dei giudici italiani. Eduard Florin, sergente della Reichsfürer e primo responsabile dei fatti, viene infatti fortunosamente individuato dalla commissione alleata che indaga sui crimini di guerra, e consegnato alle autorità italiane che lo processano nel 1947, poco dopo le condanne (miti) ai fascisti lucchesi. Come si legge nella precise pagine di Fulvetti, uno dei rari casi in cui, prima delle “archiviazioni provvisorie” di palazzo Cesi, si riesce a portare alla sbarra un criminale nazista si conclude con una incredibile assoluzione, dovuta a reticenze dei testimoni e a disinvolte interpretazioni dei giudici militari italiani; poco consola il fatto che, sessant’anni dopo, il diretto superiore di Florin, Hermann Langer sia stato condannato all’ergastolo.
La storiografia resistenziale della Toscana, si è spesso dimostrata poco attenta alle storie dei preti; senza la tenacia di Fulvetti, ancora oggi si avrebbero solo notizie superficiali sui fatti di Farneta, evento invece assai interessante, che mette in discussione uno dei più rigidi postulati di Roberto Battaglia, ossia la presunta contrapposizione fra basso e “alto” clero nell’appoggio alla lotta di liberazione (l’autore si sofferma specificamente su questo argomento a pp. 216-220). Questo schematismo ideologico ha ostacolato per molto tempo una analisi seria del ruolo della Chiesa nella guerra civile; forse perché la storiografia marxista non è mai riuscita ad appropriarsi di un concetto secondo noi invece assai semplice: in quei tempi difficili i sacerdoti cercarono soprattutto di essere bravi preti, indipendentemente dal loro ruolo all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, e spesso pagando in prima persona. Come i monaci della certosa lucchese.

I buoni (pochi) e i cattivi nell’occupazione italiana della Jugoslavia (A. R.)
H. James Burgwyn, L’impero sull’adriatico, Gorizia, LEG, 2006, 414 pp.

Il nostro giudizio sarà di parte, ma la precisa, documentata e, soprattutto, distaccata indagine di Burgwyn sull’occupazione italiana della Jugoslavia fra il 1941 ed il 1943, se non avesse altri meriti (e ne ha) andrebbe letta solo per le righe che lo storico statunitense dedica, a p. 84 del volume, alla figura di monsignor Alojzije Stepinac, vescovo di Zagabria nel corso della guerra, in seguito vittima di un processo farsa durante il regime di Tito e morto in carcere nel 1960:

“…Uomo devoto e austero, era profondamente addolorato per le deportazioni e gli eccidi chi si compivano di fronte a lui (…). In una lettera a Pavelic fece sapere di ritenere Jasenovac una ferita aperta nell’anima croata. Nel maggio dello stesso anno, parlando nella sua cattedrale, criticò apertamente il regime sostenendo che esso non aveva il diritto negare la vita, in quanto dono di Dio…”

Burgwyn è tutto meno che un reazionario clericale, o un agiografo degli ustasci. Nelle pagine successive metterà in luce le non lievi responsabilità di alcuni ordini religiosi nella persecuzione di ebrei, serbi e zingari. Egli ha però avuto il pregio di esprimere un giudizio non avvelenato dall’ideologia sul vescovo di Zagabria. La beatificazione di Stepinac, ricordiamo, suscitò invece dal 1998 in avanti i sacri furori del laicismo nostrano, e una articolata produzione saggistica, tanto feroce nella vis polemica quanto mediocre dal punto di vista scientifico; non mancarono di dare il loro contributo denigratorio, purtroppo, anche alcuni storici di valore, fra i quali ricordiamo il recentemente scomparso Gaetano Arfè, il quale scrisse cose migliori di quelle pubblicate su La rivista del Manifesto nel dicembre 2000, quando in un articolo denso di anticlericalismo militante, sostenne che Stepinac era un “primate ustascia” (sic!) : alla faccia del costruire le interpretazioni sulle fonti documentate e non sulle opinioni.
In generale il volume desta interesse non solo per la puntuale descrizione dei due anni e mezzo che ci videro occupanti sgraditi (in contrapposizione – e finalmente lo si sottolinea apertis verbis – ai tedeschi, sempre occupanti, ma inizialmente accolti dai croati nel plauso generale, pp. 57-58) ma anche per la serena constatazione della difficoltà a trovare i buoni in quel teatro bellico. Sulle nostre responsabilità si trovano annotazioni che confermano quanto già detto da altri studiosi (su tutti Tone Ferenc, Mario Cuzzi, Filippo Focardi, Teodoro Sala e Davide Rodogno): fummo occupanti cialtroni e sanguinari (gravi, come da noi sottolineato in passato, le responsabilità delle formazioni della MVSN, p. 359), prepotenti senza averne i mezzi, in balìa di una confusa suddivisione dei poteri: amministrazione civile contro militari in Slovenia, militari contro l’amministrazione civile in Dalmazia, diplomatici fascisti contro i militari in Croazia, tutti contro tutti nella grottesca e tragica “guerra diplomatica” fra Montenegro ed Albania, regioni che in teoria dovevano entrambe essere sotto il nostro diretto controllo civile e militare.
Non migliori però appaiono gli altri attori delle guerre civili jugoslave, i quali in maggioranza non brillavano per mitezza e civiltà.
Del governo di Ante Pavelic, Burgwyn non può che illustrare la coerenza genocida, sottolineandone pure il progressivo distacco dal popolo croato, che divenne pressoché totale nella fase finale della guerra.
I cetnici di Mihailovic ebbero l’indubbio pregio di essere stati i primi ad opporsi alla Wehrmacht e agli ustascia, quando ancora il patto Molotov-Ribbentrop regolava i rapporti fra nazisti e comunisti. In seguito le formazioni cetniche, che specie in Montenegro ed Erzegovina avevano un notevole seguito fra le popolazioni contadine, si resero disponibili ad alleanze, tattiche e strategiche, con gli italiani, unici a proteggere gli ortodossi (e gli ebrei) dalla furia omicida degli uomini di Pavelic.
In questo già sanguinoso contesto Tito conduceva una guerra di liberazione nazionale senza troppi riguardi per i civili, e Burgwyn sottolinea correttamente come la brutalità dei comunisti finì per spingere una larga parte della popolazione montenegrina verso i cetnici, così come in Slovenia (in misura minore) verso le formazioni collaborazioniste anticomuniste (pp. 128-140). In quest’ultima area il nazionalismo straccione dei proconsoli fascisti e l’irresponsabile “pugno di ferro” dei vertici militari produsse un odio forsennato verso gli italiani che superò in pochi mesi ogni possibile ritrosia – che pure esisteva fra popolazioni di radicato sentimento religioso (pp. 144-145) – nei confronti dei partigiani.
Lo studioso americano, correttamente, constata come il salto di qualità delle forze armate titine avvenne solo nella tarda estate del 1942, quando, dopo alcuni consistenti rovesci militari, i vertici dell’esercito di liberazione jugoslavo compresero che gli eccessi ideologici andavano superati in nome dell’ideale di una guerra nazionale contro tutti gli occupanti e i loro collaboratori (pp. 226-227). Insomma, paradossalmente, per il comunista Josip Broz, la svolta avvenne solo dopo aver constatato che la guerra ideologica non produceva i risultati sperati. Ulteriore tempo per riorganizzare le fila, Tito lo ottenne con spregiudicate azioni negoziali condotte direttamente con l’avversario principale, ossia la Wehrmacht, al fine condiviso di “regolare i conti” con i nazionalisti montenegrini (pp. 268-269): fatto che in genere gli agiografi (anche nostrani) hanno preferito espellere dalle narrazioni più politicamente orientate.
In modo non meno paradossale, l’esercito italiano dette lustro alla propria fama quanto più si allontanò dal paradigma fascista della legge di Roma, che tanto entusiasmava invece gli amministratori civili delle nostre zone di occupazione (i quali, non casualmente, finirono tutti per diventare prefetti o ministri a Salò). Il sistematico sabotaggio della persecuzione antisemita croata e nazista, è merito talvolta sottovalutato dalla storiografia italiana sull’argomento. Sapere che ci furono generali come Paride Negri, comandante della divisione Murge, i quali ebbero a dire di fronte a commensali nazisti che “la deportazione degli ebrei è contraria all’onore dell’esercito italiano” (p. 239) getta un raggio di sole in un panorama di ferale e generalizzata disumanità.
In conclusione troviamo assai significative le righe conclusive del volume:

“… Non vi è dubbio che se un tribunale internazionale avrebbe giudicato Roatta colpevole di crimini di guerra, una corte di ebrei o di serbi ortodossi molto probabilmente avrebbe fatto cadere le accuse a suo carico. Dalla debacle jugoslava, Roatta emerge – caso più unico che raro – con la duplice reputazione di persecutore e salvatore…” (p. 367).

Se assieme si possa essere “persecutori e salvatori” è materia su cui gli studiosi scientifici dovrebbero iniziare ad interrogarsi senza pregiudizi ideologici.