Sangue in piazza
Pino Casamassima, Piazza Loggia, Milano, Sperling&Kupfer,
2014
Le storie delle stragi italiane
hanno tutte un unico canovaccio, un elemento paradossale che in fondo lascia
sgomenti: le ricostruzioni, con il passare del tempo, invece che apparire
sempre più stringenti, precise e analitiche,
procedono al contrario, ossia si inizia con studi particolareggiati, a
cui seguono analisi sfumate, sino ad una specie di indistinto marasma generale,
in cui non si riesce più a capire chi ha
fatto cosa, e come. Casamassima cerca, con passione civile, documentazione
inedita, ed evidente fatica personale, di risalire la corrente e procedere in
senso contrario, riuscendo a raggiungere diversi punti fermi sui quali ancorare
i dati di fatto non contestabili e certi. Lo sforzo è però immane, non fosse
altro perché la traccia principale si fissa su vicende processuali, contorte,
discontinue e divergenti. Ad un certo punto l’unica cosa certa appare il
deflagrare della bomba e i poveri cadaveri sconciati rimasti sul selciato della
piazza bresciana, imperdonabilmente ripulita a poche ore dall’eccidio,
cancellando prove e tracce per le indagini successive. Poi entra in scena un
gruppo di sbandati, alcuni dei quali autentici “borderline” che vengono
sfruttati – alcuni anche abusati sessualmente – da Ermanno Buzzi, bon vivant
con l’hobby della ricettazione di opere d’arte e frequentatore degli ambienti
della destra radicale lombarda e veneta. Una improbabile compagnia che sa e non
sa, ma che poco c’entra con chi, di persona, aveva posizionato l’ordigno sotto
il loggiato, ossia qualcuno vicino alle frequentazioni di Silvio Ferrari,
giovane estremista di destra saltato in aria con una bomba, “l’altra bomba” di
cui poco si è scritto; una deflagrazione finalmente studiata con dovizia di
dettagli, avvenuta forse per dolo, forse per disattenzione, forse
volontariamente, per mettere in silenzio uno scomodo testimone di trame opache:
l’altro testimone scomodo, Ermanno Buzzi, finirà in modo cruento i suoi giorni
nel carcere di Novara, messo a tacere per sempre da “camerati” a loro volta
custodi di segreti inconfessabili. Ci sono anche altri attori, anche essi
specchio di un paese in cui alle fedeltà ufficiali, verso la nazione e la
repubblica, si sovrappongono le fedeltà di schieramento atlantico e di
vicinanza ai servizi e ai loro disegni non sempre intellegibili; il futuro
generale dei carabinieri Francesco Delfino lascia pesanti ombre sul suo
operato, non diversamente dalla variegata congerie di partigiani bianchi e
reduci neri come Carlo Fumagalli o Ezio Tartaglia. Dietro a queste storie, che
iniziano con chiarezza e terminano nella babele delle ipotesi, restano le
vittime, i feriti e i loro congiunti, da quaranta anni in attesa di una parola
definitiva da parte di una giustizia spesso incomprensibile: tribunali lontani fra loro, giudici in
conflitto, pubblici ministeri giunti a conclusioni perentorie e opposte a
distanza di decenni. Chiunque si occupi di storia del nostro paese in modo
scientifico deve quindi avere un debito di riconoscenza con Casamassima, perché
lascia un solido elemento di studio per chiunque, in futuro, vorrà avvicinarsi
a quel sanguinoso capitolo delle vicende nazionali. Purtroppo temiamo che ormai
solo la storia potrà rendere giustizia a quei poveri morti.
La violenza dei bianchi
Guido Panvini, Cattolici e violenza politica, Venezia,
Marsilio, 2014
Guido Panvini, già autore di
innovativi saggi sulla violenza politica nel nostro paese, si sofferma sulle
inquietudini all’interno del mondo cattolico nel decisivo quarto di secolo che
va dalla fine del secondo conflitto mondiale alla fine degli anni ‘70, stagione
influenzata prima dall’incrudirsi della guerra fredda e successivamente dalla
svolta epocale giunta con il Concilio vaticano II; queste ed altre cause contingenti
– la congiuntura politico economica del paese dopo gli anni del boom e le grandi turbolenze della società
occidentale che seguirono il 1968 – finirono per condurre elementi estremisti
(o “integristi” come precisa giustamente l’autore) nelle formazioni del
terrorismo nero e rosso, ossia a impugnare le armi per giungere alla
distruzione dello stato e delle sue istituzioni democratiche e imporre regimi
di colore opposto, ma ispirati a una visione distorta del proprio vissuto
religioso. Così Panvini torna sulle tracce delle reti clandestine armate vicine
alla DC studiate da Giacomo Pacini, nate alla vigilia delle decisive elezioni
politiche dell’aprile 1948 che successivamente, con forme e nomi diversi,
confluirono nella rete “stay behind”. L’analisi dell’autore si prolunga sino
alle ultime propaggini di questa zona d’ombra, ossia il movimento di azione
rivoluzionaria di Carlo Fumagalli, che ebbe mai chiarite implicazioni nella
stagione stragista; la ricerca conferma inoltre una presenza abbondante di cattolici
che intendevano la guerra al comunismo come un conflitto da combattere
necessariamente “armi in pugno”, sino alle estreme conseguenze. A nostro
parere, questa parte del volume forse, non spiega in modo adeguato le motivazioni
concrete di un certo anticomunismo viscerale e inscalfibile, ossia la violenza
sistematica che si riversò sul mondo cattolico in molte regioni italiane. Ci
pare un po’ semplicistico liquidare con un accenno in nota la questione
complessa e articolata dell’apparato comunista clandestino (che peraltro appare
successivamente nello studio come brodo di coltura del terrorismo rosso alla
fine degli anni ’60) specie considerando la sequenza di uccisioni di attivisti,
amministratori e sacerdoti avvenute in Emilia e Romagna fino alla vigilia delle
elezioni del 1948. Purtroppo senza citare questi episodi, e senza dettagliare,
ad esempio, la caotica situazione di Trieste e della Venezia Giulia, pare
davvero che una parte non trascurabile del mondo cattolico facesse la guerra ai
propri fantasmi ideologici. Così non fu, purtroppo. Di rilevante interesse
anche l’indagine sulla quantità (e la qualità) dei giovani che, ispirati dai
sacerdoti-guerriglieri sudamericani, decisero di iniziare la lotta armata
contro le istituzioni democratiche del nostro paese, nella convinzione che
l’Italia degli anni ’70 fosse una sorta di Bolivia di Hugo Banzer o di Brasile
di Castelo Branco; va sottolineato comunque che attivisti e sostenitori del
terrorismo rosso sostennero scelte radicali e violente sospinti da un
“integrismo” non diverso da quello ispiratore dei loro uguali-opposti delle
organizzazioni nere. Fatte salve le precedenti perplessità, lo studio di
Panvini contribuisce a colmare un vuoto, e a fare comprendere come le sfumature
siano state la regola, e non l’eccezione nella storia del nostro paese dal
dopoguerra a oggi.
L’altra parte
Giampaolo Beligni, Formato tessera, Roma, Robin edizioni,
2014
Nel fiume di pubblicazioni relative agli anni di piombo, la
memorialistica e la narrativa svolgono ancora oggi la parte da leone, eppure i
racconti di chi visse gli anni ’70 dalla parte delle forze dell’ordine sono a
tutt’oggi relativamente pochi; Beligni, che fu poliziotto a Milano nei momenti
peggiori di quella stagione non lieta del nostro paese, ci racconta in modo
piano e senza enfasi, la sua esperienza giovanile, con riflessioni non banali
su quei giorni e quel tempo drammatico. L’ambiente della questura milanese, gli
incontri e gli scontri con colleghi e superiori prima ancora che con la piazza,
sono forse il dato più originale dello scritto: una “inner story” che spiega
bene le motivazioni degli uomini della polizia, in un periodo in cui il solo
portare la divisa poteva essere ragione per diventare oggetto di violenza
indiscriminata. In questa storia non ci sono santi, non ci sono eroi – anche
chi potrebbe essere dipinto come tale viene invece tratteggiato con
disincantata umanità – e i fanatici, prevedibilmente, sono una ristretta
minoranza. Crediamo non sia una rappresentazione zuccherosa di quei giorni;
certamente la politica della violenza ideologica esacerbava gli animi, ma a
quanto dice l’autore, e non ci sono motivi per non credergli, davvero i
poliziotti che picchiavano per il gusto di picchiare, ossia che erano
“fascisti” nell’accezione della sinistra di piazza, erano davvero pochi. E
perlopiù isolati dal gruppo. Gli episodi narrati, le frequentazioni fuori dal
mondo di via Fatebenefratelli sono anch’esse di notevole interesse, con un
quadro che restituisce bene il grigiore diffuso e la cappa di piombo che pesava
sul capoluogo lombardo; l’intossicazione di quelle esistenze è probabilmente
l’altra sorpresa del volume, l’altro “non detto” di chi visse in uniforme la
seconda metà degli anni ’70. A nemmeno trent’anni, Beligni è un reduce,
sballottato da una questura all’altra, con lunghi soggiorni professionali in
una Sicilia che inizia a vivere i prodromi dell’aggressione sistematica della
mafia allo stato; varrebbe la pena chiedersi quanti altri giovani, senza nessun
tipo di assistenza psicologica, dopo essere sopravvissuti alle pallottole rosse
(e nere) si trovarono a dover affrontare un “dopo” senza gloria, senza onori, e
senza nessun tipo di riconoscimento, ne’ istituzionale, ne’ – va detto – da
parte dell’opinione pubblica e della memoria collettiva. Riteniamo che questo
sia un vulnus ancora aperto, solo parzialmente colmato, in tempi recenti,
dall’istituzione della giornata dedicata alle vittime del terrorismo. L’autore
ebbe vicende personali e familiari travagliate e infelici, riuscendo soltanto negli
ultimi anni, come, operatore in una comunità per tossicodipendenti, a trovare
una serenità non solo apparente ma sostanziale, che emerge soprattutto nelle
pagine conclusive del volume. “Formato tessera” è quindi un’opera per la quale
occorre essere grati a Beligni, e che potrebbe – e dovrebbe – essere di stimolo
per nuove e più approfondite ricerche sulla storia delle forze dell’ordine del
nostro paese.