giovedì 30 ottobre 2014

sangue e piombo

Sangue in piazza
Pino Casamassima, Piazza Loggia, Milano, Sperling&Kupfer, 2014

Le storie delle stragi italiane hanno tutte un unico canovaccio, un elemento paradossale che in fondo lascia sgomenti: le ricostruzioni, con il passare del tempo, invece che apparire sempre più stringenti, precise e analitiche,  procedono al contrario, ossia si inizia con studi particolareggiati, a cui seguono analisi sfumate, sino ad una specie di indistinto marasma generale, in cui non si riesce più a capire  chi ha fatto cosa, e come. Casamassima cerca, con passione civile, documentazione inedita, ed evidente fatica personale, di risalire la corrente e procedere in senso contrario, riuscendo a raggiungere diversi punti fermi sui quali ancorare i dati di fatto non contestabili e certi. Lo sforzo è però immane, non fosse altro perché la traccia principale si fissa su vicende processuali, contorte, discontinue e divergenti. Ad un certo punto l’unica cosa certa appare il deflagrare della bomba e i poveri cadaveri sconciati rimasti sul selciato della piazza bresciana, imperdonabilmente ripulita a poche ore dall’eccidio, cancellando prove e tracce per le indagini successive. Poi entra in scena un gruppo di sbandati, alcuni dei quali autentici “borderline” che vengono sfruttati – alcuni anche abusati sessualmente – da Ermanno Buzzi, bon vivant con l’hobby della ricettazione di opere d’arte e frequentatore degli ambienti della destra radicale lombarda e veneta. Una improbabile compagnia che sa e non sa, ma che poco c’entra con chi, di persona, aveva posizionato l’ordigno sotto il loggiato, ossia qualcuno vicino alle frequentazioni di Silvio Ferrari, giovane estremista di destra saltato in aria con una bomba, “l’altra bomba” di cui poco si è scritto; una deflagrazione finalmente studiata con dovizia di dettagli, avvenuta forse per dolo, forse per disattenzione, forse volontariamente, per mettere in silenzio uno scomodo testimone di trame opache: l’altro testimone scomodo, Ermanno Buzzi, finirà in modo cruento i suoi giorni nel carcere di Novara, messo a tacere per sempre da “camerati” a loro volta custodi di segreti inconfessabili. Ci sono anche altri attori, anche essi specchio di un paese in cui alle fedeltà ufficiali, verso la nazione e la repubblica, si sovrappongono le fedeltà di schieramento atlantico e di vicinanza ai servizi e ai loro disegni non sempre intellegibili; il futuro generale dei carabinieri Francesco Delfino lascia pesanti ombre sul suo operato, non diversamente dalla variegata congerie di partigiani bianchi e reduci neri come Carlo Fumagalli o Ezio Tartaglia. Dietro a queste storie, che iniziano con chiarezza e terminano nella babele delle ipotesi, restano le vittime, i feriti e i loro congiunti, da quaranta anni in attesa di una parola definitiva da parte di una giustizia spesso incomprensibile:  tribunali lontani fra loro, giudici in conflitto, pubblici ministeri giunti a conclusioni perentorie e opposte a distanza di decenni. Chiunque si occupi di storia del nostro paese in modo scientifico deve quindi avere un debito di riconoscenza con Casamassima, perché lascia un solido elemento di studio per chiunque, in futuro, vorrà avvicinarsi a quel sanguinoso capitolo delle vicende nazionali. Purtroppo temiamo che ormai solo la storia potrà rendere giustizia a quei poveri morti.

La violenza dei bianchi
Guido Panvini, Cattolici e violenza politica, Venezia, Marsilio, 2014

Guido Panvini, già autore di innovativi saggi sulla violenza politica nel nostro paese, si sofferma sulle inquietudini all’interno del mondo cattolico nel decisivo quarto di secolo che va dalla fine del secondo conflitto mondiale alla fine degli anni ‘70, stagione influenzata prima dall’incrudirsi della guerra fredda e successivamente dalla svolta epocale giunta con il Concilio vaticano II; queste ed altre cause contingenti – la congiuntura politico economica del paese dopo gli anni del boom  e le grandi turbolenze della società occidentale che seguirono il 1968 – finirono per condurre elementi estremisti (o “integristi” come precisa giustamente l’autore) nelle formazioni del terrorismo nero e rosso, ossia a impugnare le armi per giungere alla distruzione dello stato e delle sue istituzioni democratiche e imporre regimi di colore opposto, ma ispirati a una visione distorta del proprio vissuto religioso. Così Panvini torna sulle tracce delle reti clandestine armate vicine alla DC studiate da Giacomo Pacini, nate alla vigilia delle decisive elezioni politiche dell’aprile 1948 che successivamente, con forme e nomi diversi, confluirono nella rete “stay behind”. L’analisi dell’autore si prolunga sino alle ultime propaggini di questa zona d’ombra, ossia il movimento di azione rivoluzionaria di Carlo Fumagalli, che ebbe mai chiarite implicazioni nella stagione stragista; la ricerca conferma inoltre una presenza abbondante di cattolici che intendevano la guerra al comunismo come un conflitto da combattere necessariamente “armi in pugno”, sino alle estreme conseguenze. A nostro parere, questa parte del volume forse, non spiega in modo adeguato le motivazioni concrete di un certo anticomunismo viscerale e inscalfibile, ossia la violenza sistematica che si riversò sul mondo cattolico in molte regioni italiane. Ci pare un po’ semplicistico liquidare con un accenno in nota la questione complessa e articolata dell’apparato comunista clandestino (che peraltro appare successivamente nello studio come brodo di coltura del terrorismo rosso alla fine degli anni ’60) specie considerando la sequenza di uccisioni di attivisti, amministratori e sacerdoti avvenute in Emilia e Romagna fino alla vigilia delle elezioni del 1948. Purtroppo senza citare questi episodi, e senza dettagliare, ad esempio, la caotica situazione di Trieste e della Venezia Giulia, pare davvero che una parte non trascurabile del mondo cattolico facesse la guerra ai propri fantasmi ideologici. Così non fu, purtroppo. Di rilevante interesse anche l’indagine sulla quantità (e la qualità) dei giovani che, ispirati dai sacerdoti-guerriglieri sudamericani, decisero di iniziare la lotta armata contro le istituzioni democratiche del nostro paese, nella convinzione che l’Italia degli anni ’70 fosse una sorta di Bolivia di Hugo Banzer o di Brasile di Castelo Branco; va sottolineato comunque che attivisti e sostenitori del terrorismo rosso sostennero scelte radicali e violente sospinti da un “integrismo” non diverso da quello ispiratore dei loro uguali-opposti delle organizzazioni nere. Fatte salve le precedenti perplessità, lo studio di Panvini contribuisce a colmare un vuoto, e a fare comprendere come le sfumature siano state la regola, e non l’eccezione nella storia del nostro paese dal dopoguerra a oggi. 

L’altra parte
Giampaolo Beligni, Formato tessera, Roma, Robin edizioni, 2014

Nel fiume di pubblicazioni relative agli anni di piombo, la memorialistica e la narrativa svolgono ancora oggi la parte da leone, eppure i racconti di chi visse gli anni ’70 dalla parte delle forze dell’ordine sono a tutt’oggi relativamente pochi; Beligni, che fu poliziotto a Milano nei momenti peggiori di quella stagione non lieta del nostro paese, ci racconta in modo piano e senza enfasi, la sua esperienza giovanile, con riflessioni non banali su quei giorni e quel tempo drammatico. L’ambiente della questura milanese, gli incontri e gli scontri con colleghi e superiori prima ancora che con la piazza, sono forse il dato più originale dello scritto: una “inner story” che spiega bene le motivazioni degli uomini della polizia, in un periodo in cui il solo portare la divisa poteva essere ragione per diventare oggetto di violenza indiscriminata. In questa storia non ci sono santi, non ci sono eroi – anche chi potrebbe essere dipinto come tale viene invece tratteggiato con disincantata umanità – e i fanatici, prevedibilmente, sono una ristretta minoranza. Crediamo non sia una rappresentazione zuccherosa di quei giorni; certamente la politica della violenza ideologica esacerbava gli animi, ma a quanto dice l’autore, e non ci sono motivi per non credergli, davvero i poliziotti che picchiavano per il gusto di picchiare, ossia che erano “fascisti” nell’accezione della sinistra di piazza, erano davvero pochi. E perlopiù isolati dal gruppo. Gli episodi narrati, le frequentazioni fuori dal mondo di via Fatebenefratelli sono anch’esse di notevole interesse, con un quadro che restituisce bene il grigiore diffuso e la cappa di piombo che pesava sul capoluogo lombardo; l’intossicazione di quelle esistenze è probabilmente l’altra sorpresa del volume, l’altro “non detto” di chi visse in uniforme la seconda metà degli anni ’70. A nemmeno trent’anni, Beligni è un reduce, sballottato da una questura all’altra, con lunghi soggiorni professionali in una Sicilia che inizia a vivere i prodromi dell’aggressione sistematica della mafia allo stato; varrebbe la pena chiedersi quanti altri giovani, senza nessun tipo di assistenza psicologica, dopo essere sopravvissuti alle pallottole rosse (e nere) si trovarono a dover affrontare un “dopo” senza gloria, senza onori, e senza nessun tipo di riconoscimento, ne’ istituzionale, ne’ – va detto – da parte dell’opinione pubblica e della memoria collettiva. Riteniamo che questo sia un vulnus ancora aperto, solo parzialmente colmato, in tempi recenti, dall’istituzione della giornata dedicata alle vittime del terrorismo. L’autore ebbe vicende personali e familiari travagliate e infelici, riuscendo soltanto negli ultimi anni, come, operatore in una comunità per tossicodipendenti, a trovare una serenità non solo apparente ma sostanziale, che emerge soprattutto nelle pagine conclusive del volume. “Formato tessera” è quindi un’opera per la quale occorre essere grati a Beligni, e che potrebbe – e dovrebbe – essere di stimolo per nuove e più approfondite ricerche sulla storia delle forze dell’ordine del nostro paese.




lunedì 28 luglio 2014

Retroscena del xx secolo

Nicola Guerra, I volontari italiani nelle Waffen SS, Chieti, Solfanelli, 2014

Quali erano le motivazioni di chi, al momento delle scelte successive all’armistizio, fece la scelta radicale e definitiva di proseguire la guerra assieme ai nazisti? Nicola Guerra approfondisce questo argomento con una indagine basata su decine di interviste a reduci italiani delle Waffen SS, offrendo al lettore una panoramica di notevole interesse memorialistico, autentico spaccato di “casi devianti” rispetto al generale sentimento antigermanico presente nel regio esercito.
Va chiarito che l’oggetto dello studio non riguarda la militanza per l’ultimo fascismo (che in qualche caso nemmeno ci fu) ma in modo specifico l’adesione ad un corpo militare tedesco, con il conseguente cambiamento di status personale, da soldato dell’esercito italiano a volontario straniero in una formazione del III Reich; questa condizione era in realtà meno sui generis di quanto si potrebbe ritenere, visto che alle soglie del 1944 le SS erano in pieno “boom” di arruolamenti in tutta Europa, con decine di migliaia di volontari provenienti dal Baltico alla Bosnia e dall’Olanda all’Ucraina, tanto che, come noto, prima della fine della guerra i non-tedeschi finirono per essere una presenza fondamentale nei magri reggimenti che difendevano i confini sempre più angusti del Reich.
In realtà dalla lettura emerge un dato curioso, ossia la non facile definizione del “quid” che ha portato gli intervistati a scegliere Hitler piuttosto che Mussolini. Per molti, infatti, il quadro motivazionale non appare diverso dai volontari di Salò: il “tradimento” dell’8 settembre, la voglia di vendicarsi e rivalersi sui presunti sabotatori dell’Asse, il proseguimento della guerra secondo i fini – assolutamente chiari – della propaganda nazifascista, ossia la sconfitta del cosiddetto sistema “demo-pluto-giudaico” (espressione che torna sulle labbra di diversi ex militi). Poi, andando a scendere nel dettaglio, si scopre qualcosa di più; si scelsero i tedeschi perché “facevano sul serio” (motivo ricorrente),  o perché “c’era cameratismo e non esistevano differenze di trattamento fra soldati e ufficiali” (altro elemento che si rinviene spesso) e infine, in un paio di casi davvero emblematici, si decide di indossare il Feldgrau perché si è stati maltrattati nel regio esercito, specie per episodi di “nonnismo”, e si vuole godere della rivalsa di spedire in vagoni piombati in Germania i propri (presunti) persecutori. Il lavoro, davvero articolato, è meritevole di grande attenzione, in quanto il tema delle scelte in momenti critici della nostra storia, rivela ancora oggi diversi punti oscuri.
  
Giacomo Pacini, Le altre gladio, Torino, Einaudi, 2014

Pacini prosegue con questo volume la sua attenta indagine, scevra di pregiudizi ideologici, sulla nascita e lo sviluppo delle reti segrete anticomuniste in Italia; se dovessimo sottolineare un pregio nella lettura dello studio, è proprio il tono dello scrivere, pacato e lontano dall’enfasi con cui altri ricercatori si sono avvicinati al tema. Questo perché, a parere nostro, un certo tipo di storiografia permeata di ideologismo indignato sta lentamente tramontando, e nel frattempo, grazie ai lavori di studiosi come Victor Zaslavsky e Salvatore Sechi, molto sappiamo (finalmente) su come e quanto il partito comunista italiano appariva minaccioso non solo politicamente ma anche militarmente per l’Italia inquadrata nello scacchiere atlantico.
Osservando la naturale evoluzione delle formazioni partigiane bianche nel Friuli, così come in Lombardia e altrove, le conferme alla teoria – anche nostra – del “continuum” fra guerra e dopoguerra nei mesi successivi al maggio 1945 e almeno fino alla primavera del 1948, ci paiono di difficile smentita. La guerra in Europa, specie nelle zone di confine fra le fragili democrazie occidentali e i paesi già sotto la cortina di ferro, non era finita con la firma su un foglio a Reims, ma proseguiva, sotto altre forme e modalità. Questo era chiaro non soltanto per chi viveva “sul campo” una conflittualità quotidiana e uno stillicidio di violenze politiche, ma anche per chi nelle strutture militari di intelligence rimaste integre al termine del conflitto, aveva compreso la portata delle nuove sfide geopolitiche. Così, in un misto fra spontaneismo, azioni coordinate talvolta con successo e spesso con esiti imprevisti  o fallimentari, la rete segreta “stay behind”  prese forza in tutto il nord Italia, prendendo nomi diversi a seconda delle aree del paese: “organizzazione O”, “Stella alpina” in Friuli, o il “Movimento di avanguardia cattolica (MACI)” in Lombardia. L’autore, correttamente, non trascura di sottolineare le derive – che ci furono, gravi e sanguinose – verso l’estremismo di destra, osservando però come i vertici dell’organizzazione fecero di tutto per evitare che l’eterodirezione fosse un dato sistematico di “Gladio”. Certamente la velenosa miscela di fascisti fanatici, funzionari dei servizi deviati, elementi stranieri tutt’altro che estranei a ingerenze politiche, ci fu; non fu però il tratto distintivo della rete segreta e clandestina. Poi si può obiettare che questo fosse in contrasto con la democrazia nel nostro paese, ma a questo punto occorre essere chiari: era possibile qualcosa di diverso durante quaranta anni di guerra fredda?
Pacini (secondo noi per fortuna) si ferma sulla soglia dei giudizi morali, lasciandoli al lettore, e semmai sottolinea come nonostante per due decenni si sia indagato sul versante politico e giudiziario sulla rete “stay behind”, non si è potuto trovare un nesso causa-effetto fra questa e terrorismo di destra. Forse perché lo scontro era comunque fra le strutture clandestine di una democrazia parlamentare, sia pure sbilenca e imperfetta, e quelle che tiravano acqua al mulino delle democrazie popolari del patto di Varsavia.

Massimiliano Griner, La zona grigia, Milano, Chiarelettere, 2014

Massimiliano Griner sfoglia un album di foto ingiallite, che in diversi avrebbero voluto fare in modo che non fosse più riaperto, e ci propone in lettura scritti e vicende del mondo intellettuale nel quale crebbe e trovò il proprio liquido amniotico il terrorismo rosso; a dire il vero gli avvocati (e purtroppo i magistrati) ispirati da Saint-Just più che da Beccaria, i giornalisti abbeverati alla prosa epilettica del giovane Mussolini, gli intellettuali amanti del sangue (altrui) sono una presenza storica in un paese in cui da cent’anni si legge Sorel e lo si chiama Marx, anche se i picchi di questa ubriacatura collettiva si riduce agli ’70 del secolo scorso. E così nell’album polveroso si rileggono nomi noti e meno noti dell’Italia di allora e di oggi, tutti uniti dal fiero rigetto delle regole democratiche, dall’odio di classe eletto a regola elementare delle relazioni sociali e dalla equidistanza demenziale fra  istituzioni (senz’altro perfettibili e non immuni da inceppi sostanziali)  e l’arcipelago dei gruppuscoli partoriti dalle formazioni della sinistra extraparlamentare, i quali avevano messo in pratica quello che scrivevano in tanti e che cantava Paolo Pietrangeli, ossia “picchiare col martello e affossare il sistema”.
Pagina dopo pagina, li ritroviamo tutti i nomi di coloro che sottoscrissero gli appelli all’uso della forza, e che esprimevano la soddisfazione, nemmeno troppo malcelata, ogni qualvolta venivano massacrati esponenti politici, giornalisti, giudici, dirigenti d’azienda, in quanto rappresentanti del “nemico di classe”, nella visione lunatica e distorta di quella che era la realtà del nostro paese. Una larga maggioranza dei cattivi allievi di pessimi maestri, troveranno una ricollocazione negli anni del riflusso, allontanandosi dalle proprie ubbie giovanili, alcuni in modo talmente abile e raffinato da poter ricomparire, qualche lustro dopo, come opinionisti di successo nella seconda repubblica; tutti ritornati a galla, tutti perdonati, tutti rientrati nel grande meccanismo della società della comunicazione,  e solo di tanto in tanto importunati dall’ira dei congiunti delle vittime di allora, a cui in genere hanno rivolto talvolta pensieri di presunta commozione e più spesso espressioni di scocciato distacco.
E’ doveroso ringraziare l’autore per aver riaperto l’album dell’orrore, non fosse altro perché i cascami di quella stagione di inutile furore continuano evidentemente ad essere affascinanti per alcuni “maitre a pensèr” contemporanei, i quali, come Roberto Saviano, ritengono che Cesare Battisti sia un colto intellettuale, perseguitato dalla giustizia per alcuni veniali peccati di gioventù.   

Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina, Milano, Adelphi, 2014

L’autore, pur non essendo un ricercatore storico di professione, ci offre quello che, probabilmente, è il lavoro definitivo sulle circostanze che portarono all’uccisione di Giovanni Gentile; una indagine ampia e documentata, nella quale tutto è attraversato da una sgradevole sensazione, ossia che grattando poco sotto le versioni ufficiali (plurale, perché di “versioni ufficiali” ce ne furono diverse in momenti successivi) emergano fatti ed elementi ignorati o poco approfonditi per settanta anni, quasi che andasse bene a tutti la superficiale conoscenza di quello che fu invece un evento traumatico per la cultura del nostro paese. La “ghirlanda” che da il titolo al volume, è un album di pensieri e fotografie dell’italianista John Purves, curiosa figura a cavallo fra l’accademia e i servizi segreti britannici, il quale nel suo lungo soggiorno fiorentino, ebbe a che fare con l’intellighenzia della città gigliata, legando a sé i personaggi che comunque ebbero un ruolo nella cruenta fine del filosofo di Castelvetrano. Poco alla volta, in una analisi articolata e ricca di dettagli inediti (ad esempio la poco edificante vicenda dei reperti “taroccati” raccolti sulla scena del delitto), si capisce quanto facesse comodo a tutti, fascisti e antifascisti, tedeschi, inglesi e italiani, la scomparsa di Gentile dalla scena politica e sociale dell’Italia attraversata dal conflitto mondiale.
Mecacci non si esprime in modo definitivo sugli autori materiali e sui mandanti dell’esecuzione, facendo semmai comprendere come molti fatti assodati in realtà non lo siano per nulla: il numero dei “gappisti” (ammesso che fossero tali) del commando, chi prese le decisioni operative, chi partecipò offrendo la propria disponibilità a nascondere gli autori dell’azione, immaginando che così facendo avrebbe risciacquato la propria immagine pubblica per presentarsi in modo (più o meno) immacolato per il dopoguerra ormai prossimo. In un gioco di specchi in cui non sempre è semplice districarsi, ci sono però rimaste impresse alcune immagini significative, presenti nell’appendice fotografica, su tutte il corteo funebre di Giovanni Gentile; dietro al feretro c’è una sola autorità in camicia nera: Alessandro Pavolini. Gli altri sono in grisaglia, compresa la sparutissima pattuglia governativa, in rappresentanza del decaduto duce di Salò; non un milite, non un truce fascista della banda Carità, ma semmai un folto gruppo di carabinieri, che – osservando i volti – preferirebbero probabilmente essere altrove.
Insomma “triste, solitario y final”, un congedo nell’indifferenza praticamente totale di una città i cui abitanti, come altrove nell’Italia occupata, cercavano soprattutto di mettere assieme pranzo e cena.


martedì 17 giugno 2014

Ai lettori


Cari tutti, 

l'intenzione di chi scrive è sempre stata quella di rispettare con precisione gli impegni nei confronti di chi, ormai da otto anni segue con attenzione la nostra pagina di recensioni e di commenti sugli indirizzi della ricerca storica, giunta con questa alla cinquantesima uscita.

Ci siamo però resi conto che gli impegni extra-lavorativi finiscono per lasciare uno spazio sempre più risicato alla lettura e all'analisi delle uscite editoriali più recenti; l'aggiornamento della pagina, nell'ultimo anno, è finito per diventare sempre più spesso una corsa contro il tempo e contro la scadenza bimestrale che - anche se presa solo come appuntamento con noi stessi - è comunque una periodizzazione conosciuta da tutti coloro che negli anni si sono avvicinati al blog.

Inoltre, a nostro parere, dallo scorso aprile ad oggi non è stato possibile individuare un numero di volumi che potesse giustificare un uscita su alcun argomento, per non dire che quanto letto non poteva essere oggetto di alcuna recensione da parte nostra, in quanto osservato davvero di volata. Di ciò ce ne scusiamo, ma come si diceva, davvero non è più possibile continuare a mantenere uno scadenziario così ravvicinato.

Si è quindi deciso, a partire da questo mese, di far passare la periodizzazione da bimestrale a trimestrale; conseguentemente il prossimo aggiornamento del blog avverrà alla fine del prossimo luglio, così come i successivi saranno a ottobre e gennaio 2015.

Confidiamo nella pazienza e nella comprensione di chi, in modo affezionato, ci segue e ci incoraggia, ma davvero non è più possibile proseguire con un ritmo che era divenuto insostenibile e finiva per produrre analisi non sempre accurate e approfondite dei testi presentati. Da parte nostra resta l'impegno a offrire sempre recensioni puntuali e commenti documentati su studi e discussioni sulla storia del XX secolo.

Ringraziamo tutti, dandoci appuntamento quindi alla fine del prossimo mese.

OS

sabato 26 aprile 2014

Repubblica sociale: immagini, luoghi, uniformi

Manifesti dei perdenti
Fascismo ultimo atto, l’immagine della Repubblica sociale italiana (a cura di Matteo Fochessati e Gianni Franzone), Genova, Il Canneto, 2014

L’immagine e la propaganda della RSI sono temi che hanno conosciuto negli ultimi trent’anni diverse occasioni di approfondimento, sia per quanto riguarda la cinematografia, la fotografia e l’illustrazione. Nonostante queste premesse, il volume in questione, che raccoglie le più significative immagini di una mostra svoltasi a Genova nello scorso inverno, porta all’attenzione del lettore una notevole mole di materiale inedito, e scarsamente conosciuto. I reperti più significativi provengono dalla singolare “Collezione Walson” un archivio privato che raccoglie manifesti di propaganda politica dalla fine dell’800 fino al 1945, e che ha attualmente sede nel polo museale di Nervi. Nell’analisi del materiale presente nel lavoro, l’attenzione scivola appunto su numerose inedite immagini propagandistiche fasciste e naziste presenti nella seconda parte del volume. Passando quindi oltre alle conosciute e odiose immagini dei due “numi tutelari” della propaganda repubblichina, ossia Gino Boccasile e Dante Coscia, ci troviamo di fronte a produzioni di tono minore, o addirittura localistico (manifesti a cura delle federazioni fasciste liguri, ad esempio), dallo stile particolarmente truce e minaccioso, unito a immagini crude di morte e distruzione; su tutti, però, ci sono parsi davvero memorabili nel tono e nella forma, i manifesti disegnati da un anonimo artista italiano, di chiara ispirazione germanica,  raccolti in una serie tematica intitolata “il soldato tedesco”, perfetta rappresentazione di come nazisti avessero un’idea del paese che occupavano totalmente sconnessa dalla realtà dei fatti: si fatica infatti a immaginare come l’osservatore italiano potesse risultare favorevolmente impressionato dall’idea che i contadini italiani fossero protetti da un graduato della Wehrmacht in mimetica (dall’aspetto poco rassicurante), o che le famiglie fossero tutelate da giovani paracadutisti armati di panzerfaust, oppure – incredibilmente – che una processione religiosa si svolgesse in letizia sotto il cipiglio particolarmente aggrottato di un fante tedesco. Addirittura ci è parso ai limiti del puro “horror” l’ultimo manifesto della serie risalente ai primi del 1945, con la sagoma del volto di un milite in elmetto germanico, il cui sorriso sembra un sogghigno sgraziato, e la cui figura emerge grettamente scontornata da uno sfondo nero-pece. Ogni possibile tentativo propagandistico nei confronti dei cittadini dell’Italia occupata, evidentemente, era a quel punto del tutto fallito, e ai disegnatori pagati (lautamente) dai loro finanziatori con la svastica al braccio, restava solo l’autorappresentazione del proprio lutto e della propria sconfitta, ormai imminente.

Una valle in guerra
Tullio Ormezzoli, Tra fascismo e resistenza, Aosta, Le Chateau edizioni, 2013

La ricerca di Ormezzoli ha il pregio di raccogliere in una sintesi agile, ma comunque ricca di dettagli poco conosciuti, il biennio 1943-45 nella Valle d’Aosta, territorio che conobbe vicende singolari sia sul fronte resistenziale che su quello degli occupanti tedeschi e delle truppe della RSI. Terra di confine assai più del resto del Piemonte e quindi anche oggetto di interessi geopolitici estranei al resto della regione, Aosta e la sua provincia conobbero una resistenza che fu sempre legata alla tutela dell’indipendenza e degli interessi economici e sociali “della valle”, più che dalle dinamiche politiche del movimento di liberazione delle confinanti province di Torino e Vercelli. E’ ovvio che alcune dinamiche appaiono per forza di cose simili al resto della RSI, come l’isolamento civile dei fascisti, che pure avevano recuperato come prefetto e capo della provincia il conosciuto ex federale Cesare Augusto Carnazzi, uno iato destinato ad aumentare dopo la creazione del battaglione “Moschettieri delle Alpi” e successivamente della brigata nera “Emilio Piccot”, che non conobbero altro impiego se non quello di rastrellare senza tregua le valli alpine, e di presidiare il capoluogo con uffici di polizia “autonoma” destinati – come altrove – alla tortura sistematica dei prigionieri. I tedeschi, la cui presenza non fu particolarmente ingombrante fino all’autunno 1944, diventano invece protagonisti diretti degli eventi bellici nel momento in cui il confine con la Francia torna ad essere la linea del fronte, come nel giugno 1940. Da quel momento l’intera valle è immediata retrovia, e le caserme del capoluogo si riempiono di alpini germanici della 5° divisione Gebirgsjaeger, e italiani della RSI, giunti al seguito della Wehrmacht dopo un lungo periodo di addestramento in Germania. Saranno proprio i fanti piumati del 4° reggimento della divisione “Littorio” comandato dal tenente colonnello Armando de Felice che giocheranno, in accordo tacito con i tedeschi, ed esplicito con il CLN aostano, un ruolo fondamentale per evitare che l’occupazione delle truppe gaulliste potesse avvenire prima dell’arrivo delle avanguardie americane. Le pretese francesi successive alla fine delle ostilità, infatti, furono fortemente limitate dal “fait accompli”: gli americani erano giunti ad Aosta prima degli “Chasseurs des Alpes” transalpini, rallentati dai precisi tiri dell’artiglieria della “Littorio” dislocati sul Piccolo san Bernardo; sostanzialmente incorporati nel CVL (anche se in zona Cesarini…) gli alpini fino al 2 maggio del 1945, fecero finta di non sapere nulla della fine della guerra. Le prepotenze successive di una minoranza annessionista, riscossero, come noto, poco successo, e nello statuto autonomo la valle ha poi trovato definitiva stabilità per i successivi 70 anni. In conclusione il lavoro risulta quindi meritorio per chiunque volesse avvicinare senza pregiudizi una stagione particolarmente complessa di questa parte del paese.

Divise sbagliate
Luca Stefano Cristini, Le Forze Armate della RSI 1943-45, Rodengo Saiano, Soldier Publishing 2013.

Dedicarsi all’uniformologia dei reparti di Salò è da sempre croce e delizia di una nicchia di studiosi di storia militare, i quali cercano regole generali in un esercito nel quale – realmente – ogni milite aveva una “sua” divisa, in un tragico carnevale di gladi, fasci, nastrini, maglioni, utilizzati non tanto per gusto personale, come molte volte in passato si è sostenuto, ma per irreparabili carenze di equipaggiamento e approvvigionamento: i nazisti, veri padroni del nord occupato, dopo il totale saccheggio dei magazzini militari italiani (dai quali uscirono gli ubiqui completi mimetici di molti reparti di  Wehrmacht ed SS), lasciarono più meno gli stracci alle forze armate del grigio duce lacustre. Da qui la sensazione univoca nelle rappresentazioni visive d’epoca, di osservare più una rassegna di raffazzonati e imberbi fanatici, che efficienti e volitivi alfieri del “nuovo ordine europeo. Purtroppo nella parte centrale del volume di Cristini, ossia le tavole illustrate, la povertà degli elementi e gli errori rinvenuti, risultano davvero imbarazzanti; solo per citare qualche esempio: i fanti della divisione “Littorio” di certo non avevano le mostrine dei granatieri, come si riscontra nelle tavole, ma il semplice gladio sul bavero (solo i reparti alpini avevano fiamme verdi a tre punte); i soldati della divisione “San Marco” indossano improbabili giacche grigio azzurre invece del grigio verde di ordinaza; la legione M “Tagliamento” non risulta in alcun modo che avesse un nastro da polso nero, di stile tedesco, con il nome del reparto ricamato, così come nessun reparto in camicia nera e fez (una rarità riservata a quelle unità che derivavano direttamente dai reparti pre armistiziali rimasti alleati ai nazisti) aveva il teschio sul copricapo, come negli anni ’20; alcuni figuranti con riproduzioni attuali di divise d’epoca, si inventano comandanti di brigata nera vestiti tutti come Alessandro Pavolini con maglione nero, zip e nastrini delle decorazioni, quando invece sappiamo che per motivi pratici e carenze organizzative, nessuno si attenne alle direttive del lunatico segretario del partito fascista; qualcosa di meglio si osserva nelle tavole riguardanti i paracadutisti del reggimento “Folgore” e della “X Mas”, ma davvero ci si aspettava qualcosa di meglio da un’opera che, quantomeno, poteva e doveva fare tesoro di decine di pubblicazioni precedenti. Il lavoro, in conclusione, è viziato da un approccio un po’ troppo, con figuranti in divisa che probabilmente sono gli stessi appassionati di “reenacting” i quali ci paiono gli unici possibili fruitori del volume.   


giovedì 27 febbraio 2014

Atti, convegni e raccolte sul XX secolo

Propaganda del novecento
War and propaganda in the XX Century (a cura di Maria Fernanda Rollo, Ana Paula Pires, Noemia Malva Novais), Lisboa, IHC, 2013.

Il volume  in questione raccoglie gli atti di un convegno internazionale svoltosi lo scorso ottobre a Lisbona, incentrato sullo sviluppo esponenziale della propaganda come strumento bellico avvenuto nel XX secolo principalmente in Europa, ma con un occhio di riguardo anche alle lotte per l’emancipazione delle colonie africane; nella raccolta di studi, alcuni aspetti ci sono sembrati particolarmente innovativi: l’analisi su come le nazioni in guerra svilupparono azioni informative (o disinformative) negli stati neutrali sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale, argomento che ci ha stupito soprattutto per la mole di energie che venne spesa da tutte le parti in causa per dipingere favorevolmente la propria immagine nei confronti di chi non appoggiava apertamente alcun contendente, ma rappresentava comunque un interlocutore politico ed economico. L’obiettivo delle analisi è focalizzato soprattutto sulla penisola iberica, ma non per questo l’esperienza di Spagna e Portogallo ci pare eccessiva, considerando il peso che ebbero le scelte di campo di entrambi i paesi, soprattutto nella fase conclusiva dell’ultima guerra mondiale. In seconda battuta alcuni aspetti della propaganda per il fronte interno rivelano nuove sfaccettature, come l’importanza nella creazione della “mitologia degli eroi”, obiettivo raggiunto da alcune nazioni impegnate nello sforzo bellico o totalmente fallito da altre, indipendentemente dall’esito favorevole o meno del conflitto, così come la speculare necessità di disumanizzare il nemico interno ed esterno (ci si permetta in merito di segnalare l’intervento del nostro Federico Ciavattone sulla costruzione dell’immagine del “fuorilegge” nella RSI). Anche passando oltre alla pure interessante sezione dedicata allo sforzo artistico e di design in favore delle nazioni impegnate in guerra, ci si lasci concludere con un sincero apprezzamento per la spassionata indagine sui conflitti sanguinosi che coinvolsero il Portogallo in Angola e Mozambico, corredati da una interessante appendice iconografica sui materiali propagandistici dei fronti indipendentisti e delle forze armate portoghesi. Possiamo solo augurarci che, prima o poi, anche il nostro paese possa affrontare in modo equilibrato e allo stesso tempo indipendente e critico la stagione che ci coinvolse come potenza occupante nel continente africano. Purtroppo, almeno per ora, questo tipo di indagine è confinato a studi che, ancora oggi, risultano settoriali, e non dello stesso ampio respiro che abbiamo riscontrato in questa opera collettanea davvero di gran pregio.

Il martirio a oriente
La Chiesa cattolica dell’Europa centro-orientale di fronte al comunismo (a cura di Andrai Fejerdy), Roma, Viella, 2013.

Le storie esplorate in questo lavoro collettaneo, meritoriamente edito grazie al Pontificio istituto ecclesiastico ungherese e al Ministero per le risorse umane magiaro, sono straordinariamente dolorose e allo stesso tempo misconosciute. La coesistenza (perché di convivenza non si può parlare) fra le dittature comuniste e la chiesa cattolica, è ricostruita in un mosaico tragico e spesso sanguinoso, dalle rive del mar Baltico a quelle dell’Adriatico; ognuna delle nazioni europee che non ebbero dalla geografia un aiuto sufficiente per ripararsi dalle ideologie omicide, ha lasciato alle generazioni successive un pegno di autentico martirio per mantenere e tramandare la propria fedeltà a usi e costumi di una civiltà millenaria. La riflessione che ci è sovvenuta leggendo i saggi proposti nel volume è, almeno per quanto ci riguarda, un “mea culpa” senza attenuanti; la nostra generazione di studiosi avrebbe dovuto già decenni fa squarciare il velo del tempio del conformismo, maschera grottesca che nulla a che fare con il rispetto per l’equidistanza e l’obiettività, e raccontare per filo e per segno le cose per come andarono a est della cortina di ferro: le dittature marxiste furono costruite su un odioso e sistematico sistema distruttivo dei culti e delle tradizioni che univano nazioni diverse, ma strettamente legate a vicende comuni, al fine di imporre un ordine nuovo basato sulla persecuzione delle libertà civili e religiose. In Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Jugoslavia il clero cattolico (e non solo) fu sottoposto a vessazioni e umiliazioni, secondo un copione tanto simile da apparire studiato a tavolino da regie che non erano occulte e neppure troppo raffinate; requisizioni di beni e immobili, processi farsa, carcere e uccisioni, ridussero a un silenzio pressoché tombale l’azione pubblica dei pastori, mentre i fedeli furono in ogni modo mortificati. Se un errore venne commesso da parte dei vertici delle chiese che si trovavano dalla parte sbagliata dei confini costruiti a Yalta, esso fu l’ottimismo con cui si considerò, per tutti gli anni ’50, il comunismo, ossia un periodo transitorio, e non un giogo feroce destinato a durare per lustri. L’Ostpolitik vaticana divenne una necessità impossibile da procrastinare, anche se contristò uomini di chiesa dalla schiena diritta e dalla fede non vacillante, i quali lasciarono testimonianze di fedeltà ai valori cristiani degne di riflessione anche per gli scettici fedeli della fortunata, sazia e disperata Europa occidentale. Non si può che esprimere gratitudine per tutti gli autori coinvolti (fra i quali ci si lasci segnalare Stefano Bottoni, che ci lascia una ulteriore prova di padronanza delle vicende magiare e rumene) i quali, in modo piano e documentato, ci lasciano un affresco di dolorosa perseveranza.

Tra complessità e luoghi comuni
Religione e politica in Italia dal Risorgimento al Concilio vaticano II (a cura di Sara Alimenti e Francesca Chiaretto), Torino, Aragno, 2013

Gli atti di questo convegno, organizzato dalla fondazione Luigi Salvatorelli, risentono in modo significativo della particolare temperie del periodo, l’ultimo scorcio del 2008, in cui era al culmine la stagione di polemiche fra le forze politiche laiche e la Conferenza episcopale italiana, nella quale Angelo Bagnasco aveva appena sostituito Camillo Ruini. La raccolta ha quindi un duplice valore: quello legato agli interventi dei partecipanti ai lavori svoltisi a Marsciano, diversi dei quali di notevole interesse storico, e la testimonianza –trasversale e generalizzata – di una non lieta temperie di polemica intellettuale spesso ancorata su cliché tardo ottocenteschi, poco rispettosi delle diverse sensibilità pure presenti all’interno del mondo accademico. La ricostruzione del complesso itinerario relazionale fra il Vaticano, il mondo cattolico, quello laico e il governo del paese, risulta quindi accidentata e conflittuale a seconda di chi ha affrontato i vari temi oggetto dello studio; la laicizzazione della scuola voluta dopo l’unità d’Italia è osservata come una conquista sociale quando rappresentò pure una dolorosa cesura col passato in molte regioni italiane, così come il “declino” di questa particolare declinazione educativa è letto come una sorta di retrocessione della civiltà del paese, senza attenzione ai risultati ultimi, ossia l’effettiva funzionalità dei percorsi scolastici. La dicotomia fra interpretazioni ci è apparsa davvero eccessiva nell’analisi della stagione a cavallo fra regime fascista, resistenza e dopoguerra; gli interventi sono uniformi e animati in modo prevalente da polemica anticlericale spesso spicciola e faziosa: la chiesa al fianco della dittatura, assente nella stagione della resistenza (da partecipanti ai lavori abbiamo cercato, a quanto pare piuttosto inutilmente, di dimostrare come senza l’apporto maggioritario del clero, in ben poche località del nord Italia il movimento di liberazione avrebbe potuto sopravvivere alla persecuzione nazista e fascista) e dalla parte sbagliata nel dopoguerra, se non addirittura connivente con le mafie. I rilievi qui esposti, sia chiaro, non intendono sminuire il valore degli studi presenti nell’opera. Ci si limita a constatare come l’intera intonazione della raccolta sia una sintesi degli errori dalla chiesa cattolica del nostro paese, senza però riflessioni critiche sulle forze interlocutrici, che pure ebbero un peso rilevante nell’incrudirsi delle relazioni fra le parti, specie nel XX secolo. Ci si lasci infine dire che se ancora oggi è fonte di irritazione per certo mondo intellettuale “l’anticomunismo” del mondo cattolico nel secondo dopoguerra, a parer nostro significa che c’è ancora una china assai lunga da risalire per ristabilire torti e ragioni di quella scelta di campo, che fu tanto inequivocabile quanto necessaria, in assenza di parti politiche che potessero rappresentare in ambito progressista, qualcosa di minimamente simile al riformismo nato e sviluppatosi in quasi tutto il resto dell’Europa occidentale.