domenica 18 dicembre 2011

XIX-XX secolo. Italia, Europa.

ALCUNI BUONI VOLUMI PER LE VOSTRE STRENNE...



Tutto un altro meridione



Sergio di Giacomo, Il sud del console Goodwin, Roma, Aracne, 2010






E’ pur vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”; resta il fatto che nel momento in cui ci si imbatte nelle descrizioni di chi ebbe incarichi di rappresentanza diplomatica nel Mezzogiorno borbonico per le maggiori potenze europee, non si può che rimarcare ulteriormente i limiti (pluricentenari) di una certa storiografia italica, prodiga nel rappresentare un sud miserevole e disperato che attendeva i garibaldini, come in “Noi credevamo” del regista Mario Martone. Le cose, come emerge nello studio di Sergio di Giacomo, stanno in modo diverso e sono spesso assai più complicate di come la vulgata vuole. Il lavoro è incentrato sull’analisi, compiuta con dall’autore con scrupolo e dettaglio, di un documento prezioso di metà ‘800, ossia un lungo rapporto che il console britannico in Sicilia James Goodwin inviò a Londra per descrivere cent’anni di storia dell’isola, ossia dal 1740 fino al 1840; il quadro che emerge dall’analisi lascia numerosi spunti di riflessione per chi volesse ulteriormente addentrarsi senza pregiudizi nella storia d’Italia nel XIX secolo. Sia pure fra ombre innegabili – e tuttavia con molte luci spesso oscurate successivamente – emerge il quadro di una Sicilia tutt’altro che immobile e in balìa di feudatari ignoranti o di un clero ingombrante e onnipresente (Goodwin, da protestante, avrebbe potuto largamente calcare la mano su quest’ultimo tema, che invece non è centrale). Emerge invece un’isola “a due velocità”, in cui la costa appare più dinamica della Sicilia centrale; le città marinare, soprattutto Catania e Messina, sono aperte ai traffici economici del Mediterraneo, tanto da indurre il console a compiere una seria riflessione se alla flotta britannica, militare e commerciale, non fosse convenuta una maggiore presenza in termini di investimenti e capitali proprio in queste città, anche a scapito di Malta; la presenza inglese è tutto meno che marginale nel primo trentennio dell’ottocento in quest’area, tanto da indurre il console a richiedere di poter realizzare un oratorio di confessione protestante nella cattolicissima Palermo, per assistere spiritualmente le migliaia di suoi connazionali che si stabilivano per periodi anche lunghi nel capoluogo dell’isola. Certo, non mancano i lati oscuri nella bilanciata indagine del diplomatico: la povertà drammatica dell’interno, un ceto contadino spesso miserabile, una nobiltà terriera non all’altezza del proprio compito storico. Eppure, nonostante questi sbilanciamenti, il quadro generale offerto da Goodwin attorno al 1850 è tutt’altro che pessimista, anzi il console si spinge a immaginare una Sicilia nell’ambito della sfera di influenza britannica. Ciò, come ben sappiamo non avverrà, eppure ancora successivamente al fatale 1860, nelle raccomandazioni della diplomazia estera britannica c’è quella, rivolta al Piemonte, di investire in un area strategica per le rotte commerciali mediterranee. Purtroppo sappiamo che le cose sono andate diversamente, ma non per questo è possibile ignorare le valutazioni acute e originali del console inglese, attuali più che mai come contraltare a una certa retorica da“centocinquantesimo”. Siamo grati al giovane autore per aver offerto alla comunità scientifica (e non solo) una ricerca documentata, ben curata e di lettura assai godibile.






Un Europa diversa



Stefano Bottoni, Un altro novecento, Roma, Carocci , 2011






Chi scrive, come altri colleghi, ha probabilmente sperimentato spesso la sovrana confusione di molti giovani universitari attorno alle più elementari conoscenze geografiche sull’Europa centro-orientale; ancora di recente, nel corso di un esame di storia contemporanea, a fronte della canonica domanda “ci descriva le componenti dell’Impero austro ungarico allo scoppio della prima guerra mondiale”, dopo aver ricevuto come risposta certa “Austria e Ungheria”, abbiamo sprofondare il candidato nelle foschie dei propri lontani ricordi di qualche gita a Praga o delle vacanze marine in Croazia. L’autore ci perdonerà questo divagare, ma nell’appassionante lettura del suo pregevole studio, spesso ci è venuto in mente quanto lontana, ed assieme vicina, è trascorsa la storia della Mitteleuropa nell’arco del XX secolo. Bottoni, in una sintesi piana e ben scritta, mette in rilievo le singolarità delle storie nazionali partendo dal termine del primo conflitto mondiale e dal “contagio” della rivoluzione russa, che fu profondo ma di breve durata, tanto che molta parte del centro Europa, sia pure con difficoltà, trovò una sua strada verso il parlamentarismo. Certamente l’intervallo fra le guerre mondiali non fu di pace sovrana in molte regioni che ebbero i confini disegnati a Versailles, e una guerra a bassa o a media intensità (conflitti civili o guerriglia fra stati) finì per coinvolgere a diverse riprese Polonia, Ucraina, la Finlandia e l’Ungheria. Nonostante questo alcune nazioni conobbero un benessere mai sperimentato prima, come la Cecoslovacchia o i paesi baltici; altrove le cose andarono diversamente, e i rancori etnici finirono per esplodere poi con brutalità nel secondo conflitto mondiale. Nel centro Europa, oltre alla declinazione genocida nei confronti delle comunità ebraiche, si conobbero sopraffazioni sanguinose fra popolazioni che avevano convissuto per generazioni; il redde rationem del 1945 fu comunque tragico per tutti gli attori, tanto che condividiamo la citazione riportata nel testo che “mentre alla fine della prima guerra mondiale vennero spostati i confini, alla fine della seconda vennero spostati i popoli”, e in alcuni casi presenze millenarie di enclavi etniche (tedesche e ungheresi soprattutto) furono dissolte in modo rapido e cruento. Anche per quanto concerne la stagione della cortina di ferro non mancano sorprese nello studio di Bottoni: nella grigia uniformità delle “democrazie popolari”, in realtà c’erano profonde differenze fra i comunismi d’importazione, intollerabili o quasi per i magiari o i polacchi e quelli endogeni che ridussero secolari diseguaglianze promuovendo riforme altrimenti impossibili, come in Bulgaria, Romania e soprattutto Jugoslavia. Le rivolte del 1956 (come sia pure diversamente quelle del 1968-69) erano comunque velleitarie: a ovest come a est, le grandi potenze non avevano la minima intenzione di modificare lo status quo di Yalta. Dopo un ventennio di stagnazione (ancora oggi rimpianta da molti in Europa centrale) il collasso dell’Urss provocò a catena una serie di rivolte nazionali e il “crollo del muro”, le cui impreviste conseguenze rappresentano ancora oggi uno dei più clamorosi fallimenti degli analisti atlantici. Diviso anche in questo caso tra il “velluto” della separazione cecoslovacca, il bastone del post comunismo rumeno, e il sangue delle tragiche guerre civili balcaniche, il centro Europa ha conosciuto nell’ultimo quindicennio uno sviluppo costante anche se diseguale, che ha portato alla ribalta argomenti nuovi e antichi: la robusta economia ceca, la straordinaria crescita polacca, la stagnazione ungherese, il fervore delle piccole repubbliche baltiche o l’inquietudine ucraina. Incredibilmente – ma neppure tanto – occorre tornare a guardare la mappa dell’Europa centrale del 1918 per capire cosa è il centro Europa oggi. Ed è quello che fa l’autore, a cui siamo grati per averci offerto una indagine finalmente equilibrata, senza fronzoli ideologici o tesi precostituite.






Nel cuore nero del Reich



Gianluca Falanga, L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler, Milano, Marco Tropea, 2011






Questo di Gianluca Falanga è davvero un bel libro. La parabola dei rapporti italo – tedeschi narrata dal punto di vista dell’ambasciata italiana a Berlino offre spunti di riflessione interessanti e innovativi. Il periodo preso in considerazione è quello del III Reich, dal 30 gennaio 1933 fino alla cruenta fine del regime hitleriano alla fine di aprile del 1945; in questo lasso di tempo si susseguirono nella importante sede diplomatica quattro ambasciatori, di diverso livello e capacità: il tecnico Vittorio Cerruti, il fine cucitore di rapporti Bernardo Attolico, l’incapace Dino Alfieri, e il fascista a oltranza Filippo Anfuso. Ognuno di questi lasciò la propria traccia nelle complesse relazioni con Adolf Hitler e la sua corte brutale, specchio dell’incapacità di Benito Mussolini di comprendere e di gestire in modo equilibrato le relazioni col nazismo; la sensazione che si ha nello scorrere il volume è soprattutto quella dell’ondivago atteggiamento del duce, che nel giro di un decennio passò da una iniziale, prudente diffidenza fino alla stesura di un patto demenziale, in cui l’unico acciaio era quello delle catene con cui la Germania stringeva l’Italia in un comune destino di morte e distruzione. Questa metamorfosi è ben rappresentata dal comportamento dei nostri rappresentanti a Berlino. Vittorio Cerruti comprese quasi subito la pericolosità del Fuehrer, e restò inorridito dalla vicenda della “notte dei lunghi coltelli”, tanto da risultare in breve sgradito alla diplomazia feroce di Joachim von Ribbentrop. Bernardo Attolico resse poi l’ambasciata in modo dignitoso e coraggioso nella stagione delle grandi crisi europee, e da quanto emerge dalla documentazione riportata da Falanga, fu un ostacolo decisivo allo scoppio della guerra europea già al momento dell’invasione nazista in Boemia e Moravia; lo sprezzante giudizio di Hitler, che definì “canaglia” colui che aveva scongiurato quella che poteva essere la prima guerra del III Reich, la dice lunga su come la nostra diplomazia berlinese avesse scelto di rischiare grosso perché il continente (e soprattutto l’Italia) non precipitasse nella catastrofe. Restano poi i due “ambasciatori di guerra”: Dino Alfieri, e Filippo Anfuso; il primo, fascista ottuso e fanatico, si distinse soprattutto per la propria boriosa incompetenza, monumento all’incomprensione fra due rapaci dittature impegnate, con diseguali risultati, in un conflitto di aggressione e sopraffazione ai danni del resto del continente; il fatto che Alfieri, convocato alla decisiva seduta del gran consiglio del 25 luglio non avesse nemmeno compreso di aver votato per la fine del regime, la dice lunga sul grado di insipienza del gerarca improvvisato diplomatico. Diverso, infine, il discorso per Anfuso, diplomatico di lungo corso e mussoliniano convinto, nonostante l’amicizia – quantomeno simulata – con Galeazzo Ciano. Unico fra gli ambasciatori italiani ad aderire al governo della RSI, ebbe l’ingrato compito di reggere, con distacco e fatalismo, la sede diplomatica in una Berlino semidistrutta dai bombardamenti alleati e priva di quasi tutto il personale, rimasto fedele al governo del re e quindi internato. Di lui, oltre che l’indefessa fede nel grigio duce lacustre, va sottolineata la sostanziale indifferenza nei confronti delle sofferenze delle centinaia di migliaia di nostri connazionali fatti prigionieri senza diritti e sfruttati come manodopera schiava fino al termine delle ostilità. Scampato al dies irae post 25 aprile e ad alcuni processi per collaborazionismo e complicità nell’assassinio dei fratelli Rosselli, il diplomatico catanese fu, con Giorgio Almirante, tra i fondatori del MSI. Il volume, privo di enfasi e sbavature, offre quindi uno sguardo inedito sull’Asse Roma-Berlino, ed è spunto importante per possibili nuove ricerche sul tema.






Quando eravamo moderni



Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ’80, Venezia, Marsilio, 2010






Era il “New gold dream: 81, 82, 83, 84” cantato da Jim Kerr dei Simple Minds; e quegli anni furono davvero irripetibili e formidabili (con buona pace di Mario Capanna), perché pacifici, finalmente deideologizzati, ricchi di entusiasmo, novità, nuove prospettive in ogni ambito: economico, politico, sociale e nei costumi. Chi oggi ha fra 40 anni e 50 anni, come l’autore di questo importante volume non può non rivedersi nei fatti e nelle interpretazioni di quel decennio; ci si lasci dire, che Gervasoni fa finalmente giustizia in modo leggibile, gustoso e ben scritto, di una invadente e uggiosa storiografia che negli ultimi anni ha cercato in ogni modo di imporre una lettura densa di indignato rigetto di quella stagione (si pensi ai terribili mattoni ideologici di Enrico Deraglio o di Paolo Flores d’Arcais), talvolta con iperboli talmente eccessive da risultare risibili per chi ebbe modo di vivere gli anni ’80. L’inizio del decennio, come indica con chiarezza l’autore, è segnata da un momento decisivo che nulla ha a che fare con la politica, ed è la vittoria italiana ai mondiali di calcio del 1982, vero punto di svolta di un paese che comprende di aver superato i plumbei anni ’70, i quali si erano protratti ben oltre il 1980 (si pensi alla strage di Bologna, e agli ultimi feroci rigurgiti brigatisti). Poi, improvvisamente, cambiò tutto; le ideologie omicide parevano consegnate al passato chiuso a doppia mandata, e il presente era denso di novità di opportunità, anche in ambito politico. Alcune formazioni sembrarono improvvisamente residuati di un passato remoto: il PCI berlingueriano, oggi rimpianto da molti, in realtà pareva davvero l’armadio della grisaglia, scantonato perfino dalle organizzazioni giovanili del partito, ben felici di aprirsi alla modernità del linguaggio e di uno stile di vita creativo e innovativo. Chi scrive, visse quel periodo all’interno dei giovani democristiani, dove in modo diverso queste pulsioni erano ben presenti e vive; tutto questo, si badi bene, non significò fine dell’impegno politico e sociale, come alcuni maestri rancorosi oggi vogliono dare a intendere. Anzi, ci fu l’esplosione del terzo settore, del volontariato, delle associazioni no profit specie in ambito cattolico (si pensi all’espansione conosciuta da CL e da MP). Semplicemente la declinazione più specificamente “ideologica” del conflitto sociale era defunta, scomparsa, sotterrata, sparita; i del decennio precedente parevano reduci di guerra, sopravvissuti a un mondo che stentavano a riconoscere. La politica cercava forme nuove di leadership, sia pure in modo ondivago, così come nuovi modelli di sviluppo industriale e commerciale; non tutto andò come si sperava, ma quel decennio vide l’espansione dei servizi e il declino della “classe operaia”, che non fu più capace di restare al centro della scena dopo la marcia dei 40.000 a Torino. Emergeva una nuova categoria imprenditoriale, forse rapace e piratesca, ma indubbiamente nuova rispetto a quella che aveva portato l’Italia al boom economico. Ci fu l’espansione (bulimica? Chi può dirlo…) della televisione ai danni degli altri media, tramite l’arrivo dirompente delle reti private di Silvio Berlusconi, le quali, bon grè, mal grè, segnarono un punto di svolta irreversibile nella storia del paese. Fu tutto rose e fiori? Certamente no. Ma tante disuguaglianze si erano accorciate, non c’era odio all’interno della stessa generazione, e bene fa Gervasoni a sottolineare il dimenticatissimo “movimento dell’85”, quando gli studenti superiori scesero in piazza per una scuola migliore senza l’ombra di bandiere, in modo colorato e “stilysh”, con la divisa di ordinanza di quel periodo: Monclair, Jeans e Timberland. Non c’erano pugni chiusi, non c’erano saluti romani, tutte cose ricomparse successivamente, e purtroppo rimaste all’ordine del giorno delle manifestazioni giovanili di questi ultimi quindici anni. Forse non poteva durare, e non durò. La caduta del muro di Berlino fu l’inizio della fine del “New gold dream”, e il ritorno a una realtà conflittuale e violenta, che colse impreparata una intera generazione. Divergiamo dall’autore solo sul punto conclusivo di quel decennio,che secondo noi non si situa nel 1990, ma poco dopo, nel 1991-92, con la crisi economica, gli attentati di mafia che costarono la vita ai giudici Falcone e Borsellino e l’esplosione di tangentopoli. Siamo grati a Marco Gervasoni per averci riportato in un periodo sereno delle nostre vite, scrollandoci via la “cenere sul capo” che tanti accademici malmostosi hanno voluto imporci in questi ultimi anni.