giovedì 21 giugno 2012

Occupazione, militanza, violenza (1943-45)

Violenze inspiegabili?
Toni Rovatti, Leoni vegetariani, Bologna, Clueb, 2011

Chi scrive era presente quando Toni Rovatti presentò il suo precedente volume, inerente l’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema, presso la facoltà di scienze politiche di Bologna. Già all’epoca ci si permise di far rilevare all’autrice (fra qualche ironia di altri colleghi) che il problema della violenza bellica nel corso dell’occupazione tedesca, se non affrontato anche su basi storico-militari, appariva di difficile interpretazione complessiva. Purtroppo nel leggere questo lavoro, non possiamo non constatare che ci troviamo al punto di partenza: la ricerca sulla violenza nella RSI, affrontata in modo diligente su materiale inedito, è ben svolta e assai dettagliata. Peccato che l’assoluta assenza di canoni interpretativi di ambito militare, finisca per condurre a interpretazioni discutibili, se non a veri e propri errori di ricostruzione.
La periodizzazione della violenza di Salò in varie fasi (instaurazione, consolidamento e collasso dell’apparato mussoliniano) è a parer nostro convincente, così come la chiave di lettura dell’uso della crudeltà come metodo prevalente per la dimostrazione della vitalità (catalettica) dell’ultimo fascismo. Quando però si scende nei dettagli delle singole vicende, non si tiene conto delle acquisizioni degli ultimi dieci – quindici anni di studi sulle forze armate della RSI: la presentazione delle formazioni fasciste come “insieme di bande autonome” non è discutibile, ma semplicemente sbagliata; sorprende in bibliografia la carenza a rimandi bibliografici su GNR, Brigate Nere di pubblicazione recente e l’assenza di alcuni studi fondamentali, come quelli di Sergio Corbatti e Marco Nava sulle SS italiane e sulla legione “Muti”. La verità è che non uno solo dei reparti polizieschi citati nel volume per efferatezze di ogni tipo, era “autonomo”, ma tutti dipendevano, sia pure con modalità diverse, dall’alto comando della polizia e delle SS in Italia.
Anche sulla descrizione dei tribunali della RSI, elemento centrale secondo l’autrice per dimostrare la totale assenza della benché minima legalità nella repubblica di Mussolini, ci sono motivi di perplessità. Se nelle sentenze dei tribunali speciali effettivamente troviamo un simulacro di giustizia in stile pavoliniano, i tribunali militari erano costruiti invece sulla falsariga di quelli del regio esercito, i quali avevano imperversato in Jugoslavia durante la nostra occupazione (cosa anche questa ampiamente illustrata da Tone Ferenc, Marco Cuzzi, Gianni Oliva ed altri) ed applicavano il codice penale militare di guerra, come nel 1941-43. Di conseguenza l’argomento di discussione può essere la nostra giustizia militare “en bloc”, non una possibile distinzione tra prima e dopo 8 settembre, perché questa appare davvero capziosa: fucilavamo i cosiddetti “banditi” e prendevamo “ostaggi” sia prima che dopo l’armistizio, cosa riprovevole e incivile, ma identica nell’esercito di Roatta come in quello di Graziani.
In quanto alla giustizia post-bellica, ci si lasci dire che anche qui troviamo mezze verità: se le corti di assise straordinarie furono un sostanziale fallimento, ciò non fu causa di presunti o veri sabotaggi per salvare i fascisti colpevoli di crimini di guerra, ma per la debolezza insita nelle CAS stesse, le quali applicavano codici raffazzonati con reati retroattivi. Per non dire che esisteva un vizio di fondo: i militari della RSI erano stati considerati prigionieri di guerra dagli alleati, e quindi era ben difficile condannarli per tradimento o collaborazionismo se era già stata riconosciuta loro la qualifica di belligeranti legittimi (altra questione che appartiene alla negletta categoria degli studi militari…). Toni Rovatti, in conclusione, ci lascia un lavoro con diversi spunti di interesse, purtroppo annegati in un mare di luoghi comuni che credevamo superati da anni. Evidentemente la storia sociale e quella militare continuano ad avere una comunicazione faticosa. Almeno in una delle due direzioni.

Padri scomodi
Riccardo Facchini, Eugenio Facchini era mio padre, Bologna, Minerva, 2012

In questo volume siamo dalle parti della narrazione di storia familiare più che nell’ambito della ricerca vera e propria. L’autore infatti è il figlio di Eugenio Facchini, figura centrale del GUF bolognese e della rivista “L’Architrave” nel periodo 1940-43, successivamente federale del capoluogo nella RSI fino alla sua uccisione il 26 gennaio 1944 da parte di un gruppo di gappisti. La messe di dettagli, documenti e fotografie che Riccardo Facchini mette a disposizione degli studiosi è, a parer nostro, di estremo rilievo storico. Ci ha colpito soprattutto il vasto materiale iconografico inedito del periodo più intenso del GUF bolognese, con foto che ritraggono Facchini da solo o con amici, diversi dei quali dopo l’armistizio prenderanno strade politiche e umane affatto diverse dal giovane avvocato di Lavezzola, che andava a fare il gratuito patrocinio dei fiocinini comacchiesi presi in flagrante dalle guardie vallive.
Forse lo snodo dell’intero volume è tutto qui: una generazione trovò nell’ambito delle associazioni universitarie fasciste bolognesi il modo per mettersi in luce nel mondo accademico, artistico e delle scienze. Da quel mondo uscirono uomini politici, giornalisti, scultori, scrittori, pittori, registri che divennero noti nell’Italia democratica e repubblicana. E bene fa l’autore, (che ammette i limiti del suo approccio da non-storico) a citare il volume “I redenti” di Mirella Serri, nel quale sono indagate impietosamente le biografie, oggetto di laboriosi make-up, di tanti giovani “gufini” che erano cresciuti intellettualmente all’ombra del littorio, salvo passare, a guerra finita, a ben diversi lidi politici. Cosa che non ebbe il tempo di fare Eugenio Facchini, forse il più intellettualmente interessante di quella compagine, ma evidentemente troppo ingenuo per comprendere le contorsioni ideologiche di alcuni suoi compagni di studi.
Cosa sarebbe potuto diventare il segretario del GUF di Bologna se la sua vita non si fosse interrotta tragicamente ai primi del 1944? Difficile dirlo; nella rassegna di articoli de “L’Architrave” (compreso quello di critica feroce alla corruzione imperversante nel PNF, che costò a Facchini l’allontanamento da Bologna e sei mesi sul fronte russo) c’è davvero un po’ di tutto, come nelle lettere ai familiari spedite durante l’esperienza bellica. Difficile, leggendo questi scritti eterogenei, farsi un’idea sui valori politici del padre dell’autore: senz’altro, assieme a pensieri di tipo vagamente rivoluzionario e alla devozione per Don Bosco, troviamo bordate antidemocratiche e talvolta razziste (elemento peraltro presente in decine di scritti coevi: memorabili le intemerate antisemite di Giorgio Bocca). Quello che ci pare chiaro è che si trattava di una persona “pulita” e ben lontana dagli istinti vendicativi e sanguinari dei suoi successori al fascio bolognese, che comunque gli intitolarono la locale brigata nera.
Resta in fondo alla lettura, interessante e dettagliata, un senso di incompiutezza. Forse se Eugenio Facchini non avesse accettato di incontrare Mussolini nell’inverno 1943, sarebbe rimasto fuori dai giochi abbastanza da capire i torti e le ragioni delle parti in causa. Evidentemente non seppe dire di no al grigio duce lacustre, e mise la propria vita (coscientemente, come si legge nelle lettere ai familiari) nel turbine della guerra civile, pagandone un conto irreparabile, e secondo noi, largamente sproporzionato rispetto alle sue responsabilità.
Siamo grati a Riccardo Facchini per aver offerto agli studiosi questo suo scampolo di vita familiare, che senz’altro non deve essere stato semplice o indolore da ripercorrere.

Donne in divisa
Giuseppe Ravasio, Ausiliarie nella RSI 1944-45, Milano, Greco&Greco, 2012

Il tema della militanza femminile nella RSI è ormai da tempo uscito dall’ambito delle commemorazioni nostalgiche, approdando ad una dimensione scientifica che ha saputo offrire agli studiosi studi di notevole levatura, come quelli di Marino Vigano, Dianella Gagliani o Marisa Fraddosio. Questo volume di Giuseppe Ravasio, in teoria, poco aggiunge a quanto scritto negli scorsi anni, anche se, spigolando fra le pagine non mancano motivi di interesse; l’autore, infatti, ripercorre la vicenda del servizio ausiliario femminile (SAF) tramite lunghe interviste ad anziane reduci di quell’esperienza, che narrano le proprie vicende giovanili e l’adesione alla militanza attiva per la repubblica di Mussolini.
Alcune di queste ex-ausiliare già in passato avevano esposto in altri saggi e testate giornalistiche di area post-fascista la propria giovanile esperienza in camicia nera o grigioverde, in termini sostanzialmente analoghi a quanto abbiamo trovato nelle pagine di Ravasio. Anzi, potendo quindi traguardare le narrazioni con scritti di dieci, venti o trenta anni fa, si individua un singolare effetto “rewind”: si ritrovano non solo le stesse vicende, ma le stesse parole, come una specie di nastro magnetico che viene sistematicamente riportato all’inizio, fatto partire e poi nuovamente fermato al termine dell’intervista.
Quello che ci appare degno di nota, non è quindi l’atteggiamento con cui le ex-ausiliarie giudicano il proprio passato (è davvero piuttosto ingenua la domanda che Ravasio pone a tutte le intervistate, ossia se quella esperienza andava in qualche modo ridimensionata, rivista, o se era da rivendicare in pieno), in quanto la visione positiva ed “eroica” dei mesi trascorsi nelle forze armate di Mussolini è punto centrale della autocelebrazione dei reduci della RSI. E’ invece stupefacente la capacità di ripetere, come una sorta di “lettura omerica” la propria storia personale con gli stessi endecasillabi, buttati a memoria evidentemente in tempi lontani, visto che da decenni sono identici, e da allora mai più modificati o ritoccati in nessun dettaglio, come un nastro mandato in “loop” infinite volte. Il click del registratore della propria memoria, coincide, in quasi tutti i casi con le vicende immediatamente successive all’insurrezione partigiana, alla sconfitta e alla prigionia.
Il “dopo” di queste donne, appare ai loro stessi occhi come un insignificante appendice di sessant’anni aggiunti ai sei mesi di quelle Termopili che furono il fulcro di tutta una esistenza, ed è forse questa la differenza fondamentale fra le narrazioni delle donne partigiane e le donne fasciste, con le prime che vedono quel pezzo del proprio passato come una naturale integrazione con tutto quello che è avvenuto successivamente nell’Italia democratica, in termini di militanza sociale, politica e umana, e le seconde che hanno sempre considerato la repubblica come una sorta di governo abusivo di un paese nel quale sono vissute sempre come “straniere in patria”.
E’ una dimensione che avevamo già trovato quando, vent’anni fa, avevamo a nostra volta, intervistato molti ex combattenti della RSI. Non immaginavamo di ritrovarla così intatta e identica ancora oggi. Evidentemente non avevamo tutti i torti, quando, in conclusione a uno dei nostri primi lavori, ritenevamo che una generazione di italiani e italiane, era destinata a restare irreconciliata con sé stessa e con la propria nazione.
Questo volume di Giuseppe Ravasio, ci conferma in abbondanza quella nostra giovanile riflessione, aggiungendo la sgradevole sensazione che forse, la comunità civile del paese poteva fare qualcosa di più per evitare questo esito così deprimente e irrimediabile.