sabato 8 dicembre 2007

fascisti, antifascisti e morti ammazzati

Tonache insanguinate
R. Beretta, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Casale Monferrato, Piemme, 2007 (3° edizione).

Il tema dei sacerdoti uccisi nel nostro paese – e soprattutto in Emilia Romagna – nel biennio 1945-1947, non è mai stato oggetto di analisi serene e documentate. Lo specchio delle indagini è andato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, dalla polemica giornalistica di ambito neofascista (il fazioso classico dei fratelli Pisanò, Il triangolo della morte, Milano, Mursia, 1993) alla drastica sottovalutazione di colore politico opposto (su tutti il documentato Mirco Dondi, La lunga liberazione, Roma, Editori riuniti, 1999).
Nel mezzo si trova il “pensiero debole” (e l’ancor più debole storiografia scientifica) di ispirazione cattolica, che ha lasciato spesso spazio a volumi che potremo definire volenterosi ma nulla più; nella generale mediocrità, spicca, a distanza di tempo, l’analisi di uno studioso serio come don Lorenzo Bedeschi che nel suo L’Emilia ammazza i preti (Bologna, ABES, 1951) aveva tentato una prima messa a punto dell’argomento, con l’unico difetto di essere ancora troppo vicina ai fatti in questione e quindi priva di quei supporti (carte e testimonianze attendibili) che ne potevano fare un sicuro punto di riferimento per studi scientifici successivi, comunque mai arrivati.
Il lavoro di Roberto Beretta, di taglio giornalistico, ma con buone basi in termini di documenti, bibliografia e testimonianze, traccia sine ira et studio le vicende di 130 sacerdoti che ebbero in comune la sorte di essere uccisi da partigiani nel periodo 1944-47. Ora, anche escludendo le vicende relative alla Venezia Giulia, dove solo in Istria furono uccisi una cinquantina di preti (tutti figli di un Dio minore, e sui quali, prima o poi, confidiamo che qualcuno possa scrivere cose diverse dalla bolsa agiografia destrorsa o dal giustificazionismo a oltranza di una certa storiografia “di confine”), restano ottanta morti ammazzati in abito talare, sui quali solo l’appassionata indagine del giornalista di "Avvenire" inizia a gettare un po’ di luce. Ci ha fatto specie constatare come in molti casi Beretta abbia incontrato il fastidio degli interlocutori, e registriamo con doloroso stupore l’atteggiamento di alcuni sacerdoti (pp. 198-199) i quali di un loro confratello morto ammazzato sessant’anni prima non hanno saputo dire niente più che un requiescat, riattaccando il telefono in faccia al giornalista.
Sappiamo bene che sui preti uccisi dai partigiani nel 1944-45, oltre al disinteresse, molta storiografia ha messo sottotraccia una risposta buona per tutte le stagioni, ossia “che in fondo se lo meritavano”: chi scrive rammenta ad esempio gli impietosi commenti di Carlo Francovich nel suo La Resistenza a Firenze (Firenze, La nuova Italia, 1962) di fronte all’uccisione del pievano di Cercina don Adolfo Nannini avvenuto nel maggio del 1944; questi, dalle indagini di Beretta, pare non fosse esattamente una spia al servizio dei nazisti. Sui sacerdoti uccisi dopo il 25 aprile, e talvolta fino alle soglie del 1948, confidiamo che qualcuno esca dalle proprie gabbie politiche per spiegare le ragioni di un accanimento anticlericale che portò in modo cruento nella tomba tre sacerdoti in Piemonte, tre fra Lombardia e Veneto e ben venti nella sola Emilia Romagna.

Un vademecum per la storia militare di Salò
P. Battistelli, A. Molinari, Le forze armate della RSI, Milano, Hobby&Work, 2007

Il volume di Battistelli e Molinari è un agile e preciso vademecum per chiunque si voglia avvicinare al complesso tema delle forze armate di Salò. Di questo lavoro non possiamo che dire, da studiosi di storia militare, ogni bene possibile. La narrazione è sintetica e rigorosa, avulsa da qualsiasi colorazione ideologica; la genesi, l’evoluzione e la fine dell’esercito, della (quasi inesistente) marina e della (scarsa) aviazione dell’ultimo Mussolini ci è apparsa davvero priva di difetti evidenti. Lo studio dei due ricercatori consente, in molti casi, di mettere in soffitta alcune indigeste pizze di taglio neofascista, tanto datate e imprecise quanto improvvisamente citate anche in studi di serie pretese. E’ ovvio che il dettaglio dell’analisi non scende fino al livello di compagnia o di plotone, ma per una ricerca che non ha pretesa di essere un’“opera omnia”, i contenuti esposti bastano e avanzano.
In conclusione una avvertenza: mancano le note. Ciò appare un peccato men che veniale, visto che il lavoro archivistico e bibliografico traspare in ogni singola pagina, in tutte le tabelle e nelle statistiche presenti nel volume. Chi scrive, a beneficio del lettore, aggiunge che molta parte del lavoro deriva con tutta evidenza dalle decennali indagini di Pierpaolo Battistelli, che a suprema vergogna dell’editoria italiana, sono rimaste sino ad oggi purtroppo in gran parte inedite.
Ad averne libri di storia militare come questo.

Il duce di Cremona
G. Pardini, Roberto Farinacci, Firenze, Le Lettere, 2007

Giuseppe Pardini ci presenta quella che, sotto tutti i punti di vista, appare la biografia definitiva di Roberto Farinacci, ras di spicco dell’ala radicale del fascismo. Ci sarebbe da aggiungere “finalmente”, in quanto nell’ultimo lustro la figura del leader dello squadrismo cremonese, è stata lumeggiata in modo non sempre appropriato in opere di taglio giornalistico o tutt’al più divulgativo.
Il lavoro di Pardini è invece assai documentato, sia dal punto archivistico che bibliografico, e si concentra soprattutto sul decisivo decennio che va dal 1920 al 1930, periodo nel quale la carriera politica di Farinacci sostanzialmente si esaurisce in modo completo: creatore dello squadrismo rurale nella bassa Lombardia (con modalità organizzative che evidenziano notevoli somiglianze con il modello ferrarese di Italo Balbo), protagonista della marcia su Roma, segretario del partito nei mesi cruciali del delitto Matteotti (davvero ricche di interesse le pagine relative a questo periodo), accantonato da Mussolini il quale, passata la buriana, gli preferisce l’allineato Augusto Turati, e infine scomodo e neghittoso antiduce che dalle colonne del suo “Regime Fascista” bacchetta e polemizza con la Chiesa, gli industriali, i fascisti tiepidi e riformatori, spesso ignorato e frequentemente censurato: il giornale viene diverse volte sequestrato e Mussolini ordina al prefetto di Cremona di controllarne quotidianamente le bozze prima di permetterne l’uscita.
Gli anni ’30 ci consegnano un Farinacci isolato e “sotto schiaffo” da parte della magistratura e degli informatori dell’OVRA, riuscendo peraltro sempre ad uscire indenne in ogni sede di giudizio. Nella seconda metà del decennio avviene l’avvicinamento al nazismo, che diventa vera e propria alleanza alla vigilia della guerra mondiale, tanto che il megafono italiano delle posizioni antisemite di Adolf Hitler diviene stabilmente il “Regime Fascista”. Peccato che Pardini non abbia fatto luce su questo passaggio con la stessa profondità dei capitoli iniziali del volume, probabilmente a causa di motivi editoriali (il volume effettivamente è assai corposo). Ancor meno spazio è dedicato alla fine del percorso umano di Roberto Farinacci, segnato dal poco avveduto comportamento nella fatale notte del 25 luglio 1943, dalla fuga in Germania e dall’adesione alla RSI, esperienza che si conclude tragicamente per il ras di Cremona, con la fucilazione nella piazza di Vimercate.
E’ forse questo l’unico appunto che ci possiamo permettere di avanzare all’autore, ossia l’aver redatto una biografia dettagliata e approfondita, ma forse “sbilanciata” sul periodo in cui Farinacci fu davvero l’ago della bilancia del fascismo. Peraltro concordiamo con Pardini quando sottolinea come, esaurito il compito di cane da guardia della rivoluzione delle camicie nere, il radicale segretario del PNF aveva cessato di offrire motivi di interesse per Mussolini, il quale lo confinò, per i vent’anni successivi nel suo feudo lombardo, da dove ringhiò molto, senza mai mordere.

Giovani carnefici in camicia nera
S. Residori, Il massacro del Grappa, Verona, Cierre, 2007

La storia militare, come qualche volta abbiamo sottolineato, è un mestiere ingrato, fatto di cifre, statistiche, battaglioni e reggimenti. Però, come sostiene Giorgio Rochat, è l’unico supporto possibile per capire vicende altrimenti destinate a fumose indagini sociologiche che in alcun modo sono d’aiuto per la ricostruzione e l’interpretazione dei fatti.
Questa specializzazione della ricerca storica è animata da una testarda e ristretta “coalizione di volenterosi”, di cui chi scrive si onora di far parte, composta da uomini consci di fare studi tanto indispensabili quanto sottovalutati da larga parte del mondo accademico. Accogliamo quindi volentieri fra noi Sonia Residori che ci ha regalato – a oltre sessant’anni dai fatti in questione – la prima indagine sistematica dei reparti italiani e tedeschi che parteciparono alla sanguinosa caccia all’uomo svoltasi sul monte Grappa alla fine di settembre del 1944. Il fatto di aver unito alla sensibilità femminile la sicura padronanza di documenti (molti dei quali inediti), dovrebbe a parer nostro indurre tutti gli studiosi scientifici a essere grati alla studiosa vicentina, la quale, letteralmente, fa nomi e cognomi di chi fra Bassano e Feltre massacrò senza pietà centinaia di giovani e giovanissimi disarmati e inermi.
Già, perché il primo mito che viene dissolto è quello della so called battaglia del “Grappa”, nato ai tempi in cui Roberto Battaglia e le decine dei suoi (assai meno dotati) discepoli locali gonfiavano di retorica le vittorie partigiane, mascherando le sconfitte, gli errori e le vigliaccherie dei capi e dei gregari dietro a poderose cortine fumogene di artifici dialettici e di mezze verità. Non ci fu alcuna battaglia nei colli sopra Bassano, come certa storiografia ha scritto per mezzo secolo unendo in modo incongruo nomi e luoghi che videro fatti d’arme nella prima guerra e nella seconda guerra mondiale. Lo scontro (se così possiamo chiamarlo) riguardò poche decine di animosi che cercarono in modo coraggioso e suicida di opporsi alla “operazione Grappa”, che coinvolgeva circa quattromila fra fascisti e nazisti, appoggiati da armi pesanti, e coordinati dal comando superiore delle SS e della polizia tedesca. Gli altri, le centinaia di giovani che sulla montagna avevano cercato rifugio e protezione per non essere costretti alla leva della RSI o ai lavori forzati per la Wehrmacht, furono catturati senza fatica alcuna e condotti come agnelli al macello, già spettacolarmente preparato a valle: forche, roghi e muri per le fucilazioni.
Bene fa la Residori a soffermarsi sulla leggerezza dei comandi partigiani e sull’insipienza degli ufficiali di collegamento delle missioni alleate che furono la causa prima del massacro. Così come altrettanto bene la studiosa vicentina illumina i protagonisti della strage; molti li conoscevamo, come i ragazzi in camicia nera del 63° M Tagliamento, già tragicamente assuefatti alla violenza più estrema e i fascisti del posto inquadrati nella brigata nera Faggion, che aggiungono un ferale tocco fratricida all’azione. Altri rappresentano una scoperta davvero degna di nota: gli avieri della Flak Italien i quali provenivano dai battaglioni giovanili della GNR, gli impuberi fucilatori delle fiamme bianche, tragici balilla sui quali davvero ci sarebbe necessità di indagini più accurate e i disgraziati poliziotti del Corpo di sicurezza trentino, i quali in divisa tedesca e agli ordini di ufficiali nazisti composero – con evidente spregio antitaliano – alcuni dei plotoni di esecuzione di Bassano. Fra i tedeschi constatiamo la presenza degli specialisti della SD (l’intelligence delle SS) e il braccio secolare composto da russi rinnegati e da un reparto davvero ubiquo della lotta antipartigiana e meritevole anch’esso di ulteriori approfondimenti, ossia il Sicherungsregiment della Luftwaffe, appena reduce da lungo ciclo operativo in Piemonte.
Non manca nulla nelle pagine che descrivono il succedersi della strage, con il quotidiano stillicidio di impiccati e fucilati senza misericordia e spesso di fronte al pubblico dei camerati venuti a godersi le esecuzioni: forse solo una donna poteva descrivere con la pietas necessaria questa pagina di violenza assoluta e devastante; i fatti del Grappa segnarono poi in modo indelebile la pacifica comunità locale, la quale, come altrove, nel dopoguerra ebbe da un lato la giustizia sommaria (che in genere non punisce i colpevoli) e dall’altro l’indecente iter giudiziario offerto da uno stato assente e arcigno, che rimise in libertà in pochi anni e senza troppo danno gli autori materiali della strage.
Sonia Residori trascrive infine con puntualità, a imperitura memoria dei posteri, le dichiarazioni processuali grottesche e risibili concordate fra gli imputati al fine di sminuire le ingombranti responsabilità delle esecuzioni bassanesi; nel leggerle si avverte un contrasto stridente con la memoria dei reduci di Salò, in genere densa di “pugnal fra i denti e bombe a mano”. Il rastrellamento più feroce avvenuto nel Veneto fra il 1943 e il 1945 diventa incredibilmente “la gita sul Grappa” di fronte ai giudici alle Corti d’assise, una sorta di allegra camminata fra i boschi, incidentalmente costellata di morti, uccisi non si sa da chi. L’unico paragone che, absit iniuria verbis, ci sovviene alla mente leggendo questi puerili balbettamenti è quello con le “merende” che andavano a fare gli imputati del processo per gli omicidi avvenuti a Firenze e dintorni a cavallo degli anni settanta e ottanta. E ciò, secondo noi, la dice lunga sul lato oscuro della guerra civile.

domenica 14 ottobre 2007

buoni e cattivi

Ingiustizie italiane (recensione di Paolo Gheda)
Dianella Gagliani (a cura), Il difficile rientro. Il ritorno dei docenti ebrei nell’università del dopoguerra, Clueb, Bologna 2004, 224 pp.

Il volume curato da Dianella Gagliani si collega espressamente ad una precedente collettanea dedicata alla “cattedra negata” (che si era concentrata sul giuramento di fedeltà dei professori al fascismo). Rispetto al primo lavoro, il filo rosso che raccorda i presenti interventi è quello del razzismo. Se nella lentezza della reintegrazione dei docenti rimossi per le leggi razziali si può rinvenire la preoccupazione di non coinvolgere i docenti subentrati nella cattedra, secondo Pier Ugo Calzolari “ben più distintamente vi si coglie il desiderio di chiudere sbrigativamente i conti con la stagione dell'obbrobrio razzista” (p. 7).
Secondo la curatrice, se è vero che la sconfitta del fascismo costituì “la premessa per l'affermarsi di una cultura della tolleranza e dell'inclusione” (p. 11), tale inversione non risultò immediata anche in ambito dell'alta cultura e dell'insegnamento superiore. Le stesse modalità di reintegro del personale ebraico epurato da parte del regime non avvenne secondo una logica di recupero totale degli incarichi e delle qualifiche ma in forma soprannumeraria e con la condivisione di corsi e direzioni di istituti con i docenti subentrati a seguito delle leggi razziali. Si trattò quindi di un ritorno “in sordina” da parte dei docenti ebrei, che non fu pubblicizzato da alcuna cerimonia o convegno, palesando nella autorità repubblicane una mentalità tesa piuttosto a ridicolizzare l’impatto del fascismo sull’alta cultura (p. 12). In effetti, però, resta oggi dimostrata l'interazione che legava negli anni Trenta, il personale docente delle università alla politica attraverso vari organismi quali enti, comitati, consorzi, constatazione che di fatto nega l'isolamento totale dell'Università dal regime (p. 14). In questo senso appare particolarmente esemplare l'autodifesa del Rettore di Bologna Ghigi che in sostanza giustificò la sua adesione al regime dinanzi alla commissione di epurazione sottolineando i vantaggi di cui l'Ateneo aveva goduto. Il nodo più significativo fu il fatto che nel 1938 con la promulgazione delle leggi razziali non ci si rese conto del danno culturale per gli atenei accettando di cacciare i docenti ebrei (p. 15). Si trattò della perdita di circa 400 elementi tra professori ordinari, assistenti e i liberi docenti. Per il particolare caso di Bologna la ricerca di Simona Salustri ha sinora identificato docenti allontanati dall'ateneo bolognese, ma un dato ancora più impressionante è quello rilevato da Gian Paolo Brizzi, relativo ai 436 studenti ebrei cacciati di cui solo sei rientrarono alla fine della guerra.
Secondo Roberto Finzi il tema del ritorno nella cultura ebraica del secondo dopoguerra è un nodo che a lungo si presenta come “irrisolto e irresolubile per chi ne è uscito vivo ma mai indenne” (p. 22). Sotto questo punto di vista va considerato il fatto che gli accademici di origine ebraica espulsi dalle università italiane abbandonarono immediatamente l'idea di trovare una nuova collocazione lavorativa nella penisola, come attestano le figure di Modigliani e Segrè. Un atteggiamento che non mutò all'indomani della caduta del fascismo nell'Italia liberata, quando “le cose procedettero in maniera tale da scoraggiare molte dal tornare, anche in assenza di quei motivi “ragionevoli” che potevano indurre gli specialisti di determinati settori a rimanere là dove erano emigrati” (p. 24). Nel complicato panorama post bellico vi fu secondo Finzi una sottovalutazione grave della persecuzione quasi una sua rimozione (p. 30), e tutto ciò lo induce a formulare l'idea di una gestione dei perseguitati durante la defascistizzazione il più possibile indolore, una formula di autoassoluzione nelle quali l'antisemitismo era del tutto attribuito al passato regime e gli italiani della Repubblica se ne sentivano estranei. Anche per questo l'epurazione ebbe breve vita. Quindi, secondo questa lettura, la sottovalutazione della persecuzione degli ebrei e la mancata epurazione successiva sono solo un aspetto di un più ampio problema italiano di relazione con la cultura ebraica. La convinzione di Finzi è che le leggi razziste ebbero anche nella cultura italiana “radici solide, antiche e più recenti” (p. 32), forse collegate anche ad una componente antigiudaica del cattolicesimo. Vi fu però anche la concomitante mancanza di un ricambio organizzativo nella struttura universitaria post bellica in Italia: “La perdita secca per la ricerca italiana originata dai provvedimenti “a difesa della razza” del 1938 divenne danno definitivo per come si operò nel 1945” (p. 38). Successivamente si registrò un ulteriore irrigidimento di queste norme nel senso della inammissibilità di un ricorso contro il trasferimento volto a tutelare la cattedra dei subentrati (p. 41). Circa l'iter accademico degli epurati, il decreto ministeriale non riconobbe sostanzialmente il diritto agli anni di carriera durante la forzata lontananza dall'insegnamento; un professore straordinario, ad esempio, avrebbe potuto chiedere di essere sottoposto a giudizio per la nomina ordinaria ma nel caso non si fosse avvalso di tale facoltà il giudizio sarebbe stato quindi effettuato dopo tre anni di effettivo insegnamento; tutto ciò secondo Finzi attesta una mentalità per cui non si era affermato un diritto ma una semplice facoltà; tra procedure complicate e linguaggi poco chiari degli articoli di legge, il bilancio fu, a suo avviso, che paradossalmente “sulle spalle dei docenti reintegrati - la maggior parte di" razza ebraica" – si caricava il peso dei problemi e delle disfunzioni venutesi a creare a seguito della loro persecuzione [...] chi aveva fruito delle "risorse aggiuntive" create dalla legislazione razzista manteneva intatto il suo ruolo e il suo potere” (p. 44).
Secondo Fabio Levi il ritorno degli ebrei nelle università italiane dopo la guerra fu un percorso “misto di ostacoli e pieno di ombre” (p. 53); per chi decise di non ritornare in Italia, una motivazione poté essere costituita dal fatto che “il ritorno a casa avrebbe comportato un distacco ulteriore, da un rifugio dimostratosi spesso accogliente e ospitale” (p. 54) sebbene per gli ebrei l'Italia non costituì mai la “terra straniera” e non fu come la Germania per gli ebrei tedeschi. Inoltre, il sollievo della liberazione non poté cancellare l'angoscia per gli ultimi anni del fascismo, soprattutto il dato psicologico generale per cui nella percezione ebraica il lavoro aveva subito, durante la tragedia delle persecuzioni, un inevitabile ridimensionamento. Permaneva inoltre la difficoltà di convivenza tra chi veniva integrato nei ruoli accademici e chi sette anni prima aveva contribuito in molti casi alla sua estromissione (p. 55), o per lo meno l’interruzione a livello disciplinare dei contatti e dei rapporti con i colleghi in qualche modo aveva rallentato le esperienze didattiche dei docenti epurati rispetto a quelli rimasti in cattedra; questo problema si riflesse anche nella leva accademica, considerato che i più giovani trovarono grandi difficoltà a integrarsi dopo la liberazione venendo spesso considerati dei veri e propri intrusi. Si trattò così di una rottura nella vita e nelle carriere “irrimediabile”. Inoltre, secondo Levi, la subalternità dei docenti ebrei nel dopoguerra e la loro totale assenza da determinate cattedre contribuì a un generale depauperamento scientifico. In sostanza, vi fu una netta sottovalutazione all'interno dell'antifascismo della politica antisemita del regime e delle conseguenze che esso aveva avuto per il paese (p. 68).
Parallelamente alla lettura italiana, Lutz Klinkhammer propone una riflessione sul caso tedesco della reintegrazione. In un clima assai più rigido di quello italiano l'unica alternativa permessa ai docenti ebrei alla persecuzione e, dopo il 1941, alla deportazione, fu l'emigrazione. L'autore passa in rassegna i vari provvedimenti emanati dal governo nazista volti a limitare, fino a escludere completamente, la presenza ebraica all'interno delle università. Vi furono 790 accademici esclusi che si videro costretti a emigrare e solo 85 avrebbero deciso di rientrare alla fine della guerra.
Per Francesca Pelini le leggi razziali furono utilizzate dal regime come veicolo ideologico per intensificare il processo di fascistizzazione della società (p. 87). L’autrice porta poi il caso interessante di alcuni docenti cacciati che chiesero e ottennero il reintegro dal regime interpretando le norme sulla razza. Il reintegro nei ruoli dopo la guerra trovò invece resistenze anche da parte del Ministero, come ad esempio nel caso della negazione del reinserimento per chi aveva acquisito nel frattempo una cittadinanza straniera (p. 103).
Simona Salustri affronta nel dettaglio il caso bolognese, proponendo gli esiti di una vasta ricerca all’interno dell’Alma Mater e negli archivi di Stato volta a verificare gli spostamenti di tutti i docenti dell’ateneo colpiti dalle leggi del 1938, partendo dalla importante fonte costituita dal “Censimento del personale di razza ebraica” compilato dall’amministrazione universitaria bolognese (p. 113). L’elenco ricavato dalla ricerca è nuovo e aggiornato grazie anche all’utilizzo di criteri interpretativi, quali quello dell’esclusione dei docenti emeriti, a cui Bottai stesso non revocò il titolo onorifico, facendone espungere semplicemente i nominativi dagli annuari accademici (p. 117), o la verifica effettuata anche sui lettori universitari (p. 118). La Salustri si occupa quindi delle forme di reintegrazione nell’ateneo felsineo (p. 119s), nonché delle problematiche – spesso drammatiche – connesse a questi rientri (come il ritrasferimento delle famiglie dei cattedratici provenienti dall’estero), e non meno gravi sotto il profilo lavorativo, quali l’estromissioni di fatto dai precedenti livelli di responsabilità in università, come esemplifica il caso del direttore della Clinica pediatrica Maurizio Pincherle (p. 127), che attraverso uno sdoppiamento odi cattedra fu in sostanza allontanato dai suoi precedenti compiti operativi. In questa e in altre simili vicende toccate ai docenti cacciati dal regime pare di vedere però più che una forma di antisemitismo sommerso il prevalere della mentalità delle enclaves accademiche che dopo sette anni si erano ormai richiuse su posizioni protezionistiche rispetto al potere accademico in loro mano dal 1938 in avanti. La stessa Salustri parla esplicitamente del fatto che i perseguitati furono in realtà considerati al loro ritorno in Italia come degli “usurpatori” (p. 135). Sotto queste pressioni vi fu anche chi rinunciò volontariamente all’insegnamento, come il docente di puericultura Riccardo Fuà (p. 138). La Salustri, inoltre, dedica opportunamente attenzione a una categoria sinora trascurata dalla storiografia, ovvero quella degli assistenti, che nella maggior parte dei casi, non ebbero alcuna comunicazione ufficiale di reintegro, oltre a essere già stati liquidati nel 1938 senza diritti di quiescenza: per essi “era difficile alla fine del conflitto pensare di poter tornare alla situazione precedente le leggi razziali” (p. 141). In sostanza, anche la Salustri conferma il dato che la cacciata del Trentotto costituì una perdita culturale per l’accademia italiana a titolo definitivo (p. 146).
Riccardo Bonavita scende nel dettaglio della sofferta esperienza di rientro di due figure accomunate da “una ingiustizia strana e indecifrabile”, Santorre Debenedetti e Attilio Momigliano (p. 149s), mentre Gianni Sofri propone una memoria e una riflessione sul discusso tema dei docenti che decisero nel 1931 di non obbedire al regime e, non firmando il cosiddetto “giuramento dei professori” (p. 159 e ss.).
Infine, in uno dei contributi più interessanti, Gian Paolo Brizzi affronta un altro versante del problema dell’incidenza delle leggi razziali fasciste sul quadro universitario italiano e in particolare bolognese, ovvero il caso degli studenti ebrei, un aspetto “né minore, né trascurabile” dell’antisemitismo del regime (p. 166). Con un taglio interpretativo attento alla questione della mobilità studentesca, la cosiddetta “peregrinatio accademica” Brizzi. Se l’Alma Mater si distinse negli anni Venti e Trenta per la presenza di studenti stranieri (tra le più alte in Italia eccezion fatta per l’allora Regia Università (appunto) per Stranieri di Perugia (regificata nel 1925), facendosi anche “rimproverare” per questo dalle autorità fasciste (p. 167), il dato più originale è che a seguito del censimento effettuato per disposizioni ministeriali nel 1938 il 75 per cento di tale gruppo di studenti straniero aveva origini ebraiche, a duplice testimonianza della fuga per via dell’antisemitismo dagli altri atenei in Europa e conseguentemente nella presenza nell’ateneo felsineo a quella data di “alcune condizioni favorevoli”, su tutto la peculiare liberalità dei GUF bolognesi a non limitare il proprio impegno alla “glorificazione” del Duce, ma piuttosto a ispirare “principi di tolleranza, contrari comunque agli eccessi razzisti della propaganda tedesca di quegli anni” (p. 169); gli stessi studenti ebrei risultano in molti casi iscritti ai GUF (p. 171), in un clima di integrazione politica ed etnica pari a pochi altri casi in Italia (si pensi ancora alla “Stranieri” di Perugia). Un quadro che però mutò repentinamente e radicalmente con la promulgazione delle leggi razziali, quando i GUF felsinei si convertirono alle posizioni antigiudaiche più dure del regime e il corpo docente assunse posizioni “farisaiche” (p. 172). Gli effetti di questo radicale mutamento di scenari per gli studenti ebrei sono registrati da Brizzi in una gradualità di decisioni da essi prese: chi era prossimo al conseguimento dei titoli affrettò il più possibile la conclusione degli studi mentre per gli iscritti ai primi anni si presentò la drammatica alternativa se trasferirsi per continuare gli studi o abbandonare: alla fine, meno del 10 per cento degli studenti ebrei dell’ateneo bolognese riprese gli studi dopo la guerra (p. 176).
Conclude il volume l’appendice documentaria che raduna sistematicamente gli esiti della ricerca di Simona Salustri sull’intero corpo docente bolognese di origini ebraiche, all’atto dell’applicazione delle leggi razziali, accompagnando i nominativi con dettagliati profili biografici (p. 179 e ss.).


Martiri della carità (A.R.)
Gianluca Fulvetti, Una comunità in guerra, Napoli, Ancora del Mediterraneo, 2006, 285 pp.

Il volume dello studioso toscano esamina per la prima volta in modo documentato, un episodio dell’occupazione tedesca in Lucchesia sino ad oggi solo parzialmente illuminato da indagini scientifiche: la deportazione e il successivo massacro dei monaci della certosa di Farneta e di molti civili che in essa avevano trovato rifugio, avvenuto nel settembre 1944 ai Pioppeti di Camaiore e successivamente alle foce del fiume Frigido, presso Massa. Settanta morti, molti dei quali erano sacerdoti che pagarono l’esercizio della carità cristiana nei confronti dei perseguitati: ebrei, partigiani, oppositori del regime di Salò.
La precisa connotazione antireligiosa dell’azione è una semplice constatazione delle parole dei carnefici (i professionisti del massacro appartenenti, more solito, alla 16° divisione SS Reichsfürer), che al momento dell’irruzione sacrilega nella certosa insultano e scherniscono i monaci per la loro opera di conforto alle vittime della persecuzione (si vedano le pp. 117-130 del volume, con le vivide testimonianze di chi era presente ai fatti). Non mancano poi quegli atti di violenza e tortura specificamente contra christianos che di lì a poco avranno tragica replica sull’Appennino bolognese, a Sperticano come a San Martino, dove le chiese verranno bruciate e i sacerdoti passati per le armi assieme al proprio gregge: ai frati, fatti vestire per spregio in abito civile, infatti, viene bruciata la barba, fra le risate dei militi dalle mostrine con le rune che urlano “dì al tuo Dio di farla ricrescere!” (p. 147); forse fra questi nazisti ci sono dei veterani dei reggimenti Totenkopf o degli Einsatzkommando (lo è senz’altro il capo dell’ufficio operazioni della divisione, Helmut Looss, presente all’atto dell’irruzione e della deportazione dei frati), i quali tormentavano nella stessa maniera gli ebrei ortodossi in Bielorussia e in Ucraina. Il martirio, come detto, avverrà in due fasi, prima nei pressi di Camaiore e poi, dopo un ulteriore trasferimento dei prigionieri al carcere Malaspina di Massa, alle foci del fiume Frigido. Una vicenda feroce, nella quale sono sinistramente coinvolti (come avevamo ipotizzato in alcuni studi su Lucca nella RSI, e come Fulvetti dimostra con ampia documentazione) alcuni elementi della 36° brigata nera Lucca, usati dalle SS come lo saranno di lì a poco i loro camerati carraresi della 35° brigata nera di Giulio Lodovici: spie, guide nei rastrellamenti, guardie e torturatori.
Nel dopoguerra ci sarà una giustizia frettolosa e una sentenza indecente per questi fatti, complice la disastrosa condotta dei giudici italiani. Eduard Florin, sergente della Reichsfürer e primo responsabile dei fatti, viene infatti fortunosamente individuato dalla commissione alleata che indaga sui crimini di guerra, e consegnato alle autorità italiane che lo processano nel 1947, poco dopo le condanne (miti) ai fascisti lucchesi. Come si legge nella precise pagine di Fulvetti, uno dei rari casi in cui, prima delle “archiviazioni provvisorie” di palazzo Cesi, si riesce a portare alla sbarra un criminale nazista si conclude con una incredibile assoluzione, dovuta a reticenze dei testimoni e a disinvolte interpretazioni dei giudici militari italiani; poco consola il fatto che, sessant’anni dopo, il diretto superiore di Florin, Hermann Langer sia stato condannato all’ergastolo.
La storiografia resistenziale della Toscana, si è spesso dimostrata poco attenta alle storie dei preti; senza la tenacia di Fulvetti, ancora oggi si avrebbero solo notizie superficiali sui fatti di Farneta, evento invece assai interessante, che mette in discussione uno dei più rigidi postulati di Roberto Battaglia, ossia la presunta contrapposizione fra basso e “alto” clero nell’appoggio alla lotta di liberazione (l’autore si sofferma specificamente su questo argomento a pp. 216-220). Questo schematismo ideologico ha ostacolato per molto tempo una analisi seria del ruolo della Chiesa nella guerra civile; forse perché la storiografia marxista non è mai riuscita ad appropriarsi di un concetto secondo noi invece assai semplice: in quei tempi difficili i sacerdoti cercarono soprattutto di essere bravi preti, indipendentemente dal loro ruolo all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, e spesso pagando in prima persona. Come i monaci della certosa lucchese.

I buoni (pochi) e i cattivi nell’occupazione italiana della Jugoslavia (A. R.)
H. James Burgwyn, L’impero sull’adriatico, Gorizia, LEG, 2006, 414 pp.

Il nostro giudizio sarà di parte, ma la precisa, documentata e, soprattutto, distaccata indagine di Burgwyn sull’occupazione italiana della Jugoslavia fra il 1941 ed il 1943, se non avesse altri meriti (e ne ha) andrebbe letta solo per le righe che lo storico statunitense dedica, a p. 84 del volume, alla figura di monsignor Alojzije Stepinac, vescovo di Zagabria nel corso della guerra, in seguito vittima di un processo farsa durante il regime di Tito e morto in carcere nel 1960:

“…Uomo devoto e austero, era profondamente addolorato per le deportazioni e gli eccidi chi si compivano di fronte a lui (…). In una lettera a Pavelic fece sapere di ritenere Jasenovac una ferita aperta nell’anima croata. Nel maggio dello stesso anno, parlando nella sua cattedrale, criticò apertamente il regime sostenendo che esso non aveva il diritto negare la vita, in quanto dono di Dio…”

Burgwyn è tutto meno che un reazionario clericale, o un agiografo degli ustasci. Nelle pagine successive metterà in luce le non lievi responsabilità di alcuni ordini religiosi nella persecuzione di ebrei, serbi e zingari. Egli ha però avuto il pregio di esprimere un giudizio non avvelenato dall’ideologia sul vescovo di Zagabria. La beatificazione di Stepinac, ricordiamo, suscitò invece dal 1998 in avanti i sacri furori del laicismo nostrano, e una articolata produzione saggistica, tanto feroce nella vis polemica quanto mediocre dal punto di vista scientifico; non mancarono di dare il loro contributo denigratorio, purtroppo, anche alcuni storici di valore, fra i quali ricordiamo il recentemente scomparso Gaetano Arfè, il quale scrisse cose migliori di quelle pubblicate su La rivista del Manifesto nel dicembre 2000, quando in un articolo denso di anticlericalismo militante, sostenne che Stepinac era un “primate ustascia” (sic!) : alla faccia del costruire le interpretazioni sulle fonti documentate e non sulle opinioni.
In generale il volume desta interesse non solo per la puntuale descrizione dei due anni e mezzo che ci videro occupanti sgraditi (in contrapposizione – e finalmente lo si sottolinea apertis verbis – ai tedeschi, sempre occupanti, ma inizialmente accolti dai croati nel plauso generale, pp. 57-58) ma anche per la serena constatazione della difficoltà a trovare i buoni in quel teatro bellico. Sulle nostre responsabilità si trovano annotazioni che confermano quanto già detto da altri studiosi (su tutti Tone Ferenc, Mario Cuzzi, Filippo Focardi, Teodoro Sala e Davide Rodogno): fummo occupanti cialtroni e sanguinari (gravi, come da noi sottolineato in passato, le responsabilità delle formazioni della MVSN, p. 359), prepotenti senza averne i mezzi, in balìa di una confusa suddivisione dei poteri: amministrazione civile contro militari in Slovenia, militari contro l’amministrazione civile in Dalmazia, diplomatici fascisti contro i militari in Croazia, tutti contro tutti nella grottesca e tragica “guerra diplomatica” fra Montenegro ed Albania, regioni che in teoria dovevano entrambe essere sotto il nostro diretto controllo civile e militare.
Non migliori però appaiono gli altri attori delle guerre civili jugoslave, i quali in maggioranza non brillavano per mitezza e civiltà.
Del governo di Ante Pavelic, Burgwyn non può che illustrare la coerenza genocida, sottolineandone pure il progressivo distacco dal popolo croato, che divenne pressoché totale nella fase finale della guerra.
I cetnici di Mihailovic ebbero l’indubbio pregio di essere stati i primi ad opporsi alla Wehrmacht e agli ustascia, quando ancora il patto Molotov-Ribbentrop regolava i rapporti fra nazisti e comunisti. In seguito le formazioni cetniche, che specie in Montenegro ed Erzegovina avevano un notevole seguito fra le popolazioni contadine, si resero disponibili ad alleanze, tattiche e strategiche, con gli italiani, unici a proteggere gli ortodossi (e gli ebrei) dalla furia omicida degli uomini di Pavelic.
In questo già sanguinoso contesto Tito conduceva una guerra di liberazione nazionale senza troppi riguardi per i civili, e Burgwyn sottolinea correttamente come la brutalità dei comunisti finì per spingere una larga parte della popolazione montenegrina verso i cetnici, così come in Slovenia (in misura minore) verso le formazioni collaborazioniste anticomuniste (pp. 128-140). In quest’ultima area il nazionalismo straccione dei proconsoli fascisti e l’irresponsabile “pugno di ferro” dei vertici militari produsse un odio forsennato verso gli italiani che superò in pochi mesi ogni possibile ritrosia – che pure esisteva fra popolazioni di radicato sentimento religioso (pp. 144-145) – nei confronti dei partigiani.
Lo studioso americano, correttamente, constata come il salto di qualità delle forze armate titine avvenne solo nella tarda estate del 1942, quando, dopo alcuni consistenti rovesci militari, i vertici dell’esercito di liberazione jugoslavo compresero che gli eccessi ideologici andavano superati in nome dell’ideale di una guerra nazionale contro tutti gli occupanti e i loro collaboratori (pp. 226-227). Insomma, paradossalmente, per il comunista Josip Broz, la svolta avvenne solo dopo aver constatato che la guerra ideologica non produceva i risultati sperati. Ulteriore tempo per riorganizzare le fila, Tito lo ottenne con spregiudicate azioni negoziali condotte direttamente con l’avversario principale, ossia la Wehrmacht, al fine condiviso di “regolare i conti” con i nazionalisti montenegrini (pp. 268-269): fatto che in genere gli agiografi (anche nostrani) hanno preferito espellere dalle narrazioni più politicamente orientate.
In modo non meno paradossale, l’esercito italiano dette lustro alla propria fama quanto più si allontanò dal paradigma fascista della legge di Roma, che tanto entusiasmava invece gli amministratori civili delle nostre zone di occupazione (i quali, non casualmente, finirono tutti per diventare prefetti o ministri a Salò). Il sistematico sabotaggio della persecuzione antisemita croata e nazista, è merito talvolta sottovalutato dalla storiografia italiana sull’argomento. Sapere che ci furono generali come Paride Negri, comandante della divisione Murge, i quali ebbero a dire di fronte a commensali nazisti che “la deportazione degli ebrei è contraria all’onore dell’esercito italiano” (p. 239) getta un raggio di sole in un panorama di ferale e generalizzata disumanità.
In conclusione troviamo assai significative le righe conclusive del volume:

“… Non vi è dubbio che se un tribunale internazionale avrebbe giudicato Roatta colpevole di crimini di guerra, una corte di ebrei o di serbi ortodossi molto probabilmente avrebbe fatto cadere le accuse a suo carico. Dalla debacle jugoslava, Roatta emerge – caso più unico che raro – con la duplice reputazione di persecutore e salvatore…” (p. 367).

Se assieme si possa essere “persecutori e salvatori” è materia su cui gli studiosi scientifici dovrebbero iniziare ad interrogarsi senza pregiudizi ideologici.


domenica 19 agosto 2007

Enrico Mattei 1906-1962

Nel corso del 2006 si sono svolti alcune interessanti giornate di studio per ricordare la figura di Enrico Mattei a cent'anni dalla nascita. Di seguito ne commentiamo gli atti e analizziamo un articolo di recente pubblicazione che ha suscitato un certo scalpore nella comunità scientifica.
Ricordi democristiani
Un protagonista della rinascita italianaEnrico Mattei, atti del convegno di Roma promosso dall’Associazione nazionale partigiani cristiani, 29 novembre 2006, Roma, Cardoni, 2007.

Il volume, più che delle vere e proprie relazioni di studiosi e ricercatori scientifici, raccoglie memorie legate ad Enrico Mattei di alcuni protagonisti della storia democristiana e dell’ENI negli anni ’50. Non per questo appare privo di interesse, non fosse altro perché le parole (e i silenzi) disegnano bene il momento in cui nacque in modo strutturato la cosiddetta “sinistra DC”, di cui Mattei fu uno dei levatori, fondamentale dal punto di vista delle risorse economiche.
Su come l’imprenditore marchigiano si relazionasse con la politica in passato già molto è stato scritto (su tutti i ricordi di Italo Pietra e le analisi di Carlo Galli). Le testimonianze di presentazione e introduzione di Bruno Olini e Gerardo Agostini, rispettivamente segretario e presidente dell’associazione partigiani cristiani mettono a fuoco il dettaglio distintivo che ebbe Mattei rispetto agli altri protagonisti della lotta di liberazione: la fede cristiana che animava l’imprenditore marchigiano, intensamente vissuta nello spirito sociale e riformatore della scuola di Giorgio la Pira e Giuseppe Dossetti; esemplare in merito la citazione tratta da uno dei suoi numerosi interventi in occasione di commemorazioni resistenziali e riportata in una delle relazioni:

… Operare in silenzio con tenacia nell’interesse del nostro Paese. Ogni giorno un ansia nuova ci sospinge: fare, agire, assecondare lo sforzo del popolo che risorge. Noi abbiamo fiducia nella Provvidenza, essa assiste sempre tutti, e assiste il nostro Paese, che fiorisce e si rinnova…

I princìpi sopra riportati sono in gran parte convergenti con quelli delle forze politiche riformatrici che contribuirono alla ricostruzione del nostro paese, ma nello stesso tempo divergono per il peso specifico della loro ispirazione. Purtroppo è inutile sottolineare quanto poco di questi valori sia stato sottolineato in modo positivo nelle narrazioni storiografiche. La classe politica di ispirazione azionista e socialcomunista ha avuto una storiografia che, da posizione dominante, ha contribuito a sottolineare i propri meriti, a cassare le evidenti storture, e a sottovalutare i pregi altrui, specie quelli dei protagonisti cattolici del dopoguerra.
Si legge così con piacere la vicenda di Giovanni Galloni, giovane democristiano ex partigiano, il quale tramite i leader cattolici della guerra di liberazione (Eugenio Cefis e Giovanni Marcora, uomini la cui azione è ancora oggi largamente ignorata dalla storiografia resistenziale) entrò in contatto con Enrico Mattei, da cui ottenne il sostegno per organizzare l’attività della componente “dossettiana” della DC, poi definita “la Base”. Bartolo Ciccardini rammenta nel dettaglio la pericolosa (e altrettanto ignota) attività partigiana di Mattei, prima nelle Marche e poi a Milano; di seguito descrive l’azione economica dell’imprenditore di Matelica prima all’Agip e poi all’ENI, in difesa del basilare e spesso obnubilato principio del restare padroni a casa propria. Non inutilmente, in conclusione al suo intervento, Ciccardini afferma: “…oggi si celebrano imprenditori che utilizzando proprietà pubbliche, come l’etere, per costruire imperi economici personali. E’giusto ricordare che sono esistiti imprenditori capaci di costruire grandi imprese per utilità della comunità”.
E’questo il tema affrontato da Emilio Colombo, che correttamente ricorda come l’Italia sconfitta in guerra e soggetta alla ingombrante e inevitabile pressione politica statunitense rischiò di divenire una inerme terra di conquista per le grandi compagnie petrolifere internazionali. L’azione dell’azienda di stato guidata da Mattei, l’oggi tanto deprecato “intervento statale”, evitò di legarci mani e piedi a decisioni prese all’estero sulla nostra pelle, e consentì uno spazio di sviluppo autonomo e proficuo per l’industria italiana degli idrocarburi. Un modello che, come ricorda Colombo, fu alla base di fondamentali accordi economici con i paesi che lentamente si affrancavano dal colonialismo europeo. Giuseppe Accorinti, grand commis dell’Agip e giovane dirigente dell’ENI ritorna poi sui temi già da lui affrontati in un interessante volume autobiografico (Quando Mattei era l’impresa energetica, io c’ero, Matelica, Hacca, 2006). A giusta ragione l’ex manager ricorda come quella della corruzione politica fosse in gran parte una leggenda creata ad arte dai (ben sovvenzionati) nemici italiani e stranieri dell’ENI; Mattei, secondo Accorniti, cercò in ogni modo di non estendere al livello sottostante alla presidenza le intese necessarie alla sopravvivenza e all’espansione dell’azienda. Caricò questo onere su di sé, e questo era il senso della infelice battuta sui politici pagati “come un taxi alla fine della corsa”. In quella Italia, in bilico fra due blocchi e influenzata pesantemente da strategie politico economiche straniere di segno opposto, almeno secondo Accorniti, non fu possibile fare diversamente.
Stona, in questo contesto, la relazione di Giulio Andreotti, costellata di citazioni altrui e povera di memorie personali. Forse non casualmente, visto che il politico romano non fu di certo tra i sostenitori dell’azione del presidente dell’ENI e della sua corrente politica di riferimento.

Dalla Resistenza agli idrocarburi
Enrico Mattei - Il comandante partigiano, l’uomo politico, il manager di stato, atti del convegno di Ferrara, 29 aprile 2006, a cura di Davide Guarnieri, Pisa, BFS, 2007.

La giornata di studi che l’Istituto di storia contemporanea di Ferrara ha dedicato nel 2006 alla figura di Enrico Mattei è stata, a quanto ci risulta, la prima volta in cui ricercatori scientifici si sono confrontati sulla figura del manager di Matelica. L’obiettivo del convegno era quello di focalizzare le tre anime di Mattei: leader del movimento di Liberazione, parlamentare democristiano, presidente dell’ENI.
Nota comune a tutti gli interventi, di qualità eccellente, è la disattenzione pluridecennale attorno a questa figura. Le biografie dedicate a Mattei – tutte di taglio giornalistico – hanno avuto come focal point esclusivo (e ossessivo) la tragica scomparsa del manager di stato in un mai chiarito incidente aereo nei cieli della Lombardia; poco esiste sulla storia dell’industria petrolifera italiana, scarsa è stata l’attenzione alla sua attività politica, nulla o quasi di serio, come rileva uno degli interventi, è stato scritto sull'azione di Mattei all'interno del comando generale del CVL.
Diversi gli argomenti oggetto delle analisi; Leonardo Raito approfondisce i legami fra l’imprenditore di Matelica e la democrazia cristiana, mettendo in luce i legami postbellici con i “suoi” partigiani bianchi, la cui azione nel partito sostenne in modo convinto; fu contemporaneamente promossa la piena autonomia dall’ANPI (da cui si staccò creando la FIVL), al fine di rivendicare uno spazio di “antifascismo autonomo”, in contrapposizione a quello ormai appiattito sulle posizioni del PCI. Paolo Gheda, in una originale analisi, ci mostra un Mattei attivo collaboratore di Giovanni Battista Montini, vescovo di Milano e futuro Papa, nel comitato “nuovi templi”, per la costruzione di nuove chiese nelle accresciute periferie del capoluogo lombardo.
Suscita amare riflessioni, in questa presente stagione di anticlericalismo conclamato, nella quale si ritiene che per dare prova di laicità e democrazia occorra nascondere le proprie convinzioni, il fatto che un “laico” già leader della Resistenza, e manager di una grande azienda di stato, non solo non facesse mistero di essere credente e praticante, ma addirittura contribuisse economicamente e con spirito propositivo alle necessità della diocesi dove aveva sede la propria impresa. Davvero altri e più civili tempi.
Le problematiche legate al mercato degli idrocarburi nell’Italia del dopoguerra sono poi approfondite da Matteo Troilo, mentre Ilaria Tremolada, nell’affrontare la politica commerciale dell’ENI in Iran si sofferma sulla diplomazia parallela dell’ente guidato da Mattei, la quale non di rado confliggeva con le posizioni ufficiali del ministero degli Esteri italiano. Guido Samarani, offre un ulteriore prova della straordinaria lungimiranza del manager italiano descrivendone il suo interesse per la Cina alla fine degli anni ’50, stagione in cui non esistevano legami diplomatici fra il nostro paese e il regime di Mao Zedong; e non si può che leggere con stupita ammirazione cosa Mattei pensasse del paese asiatico esattamente cinquanta anni fa:

… Si tratta di un popolo di 650 milioni di abitanti che avrà bisogno di una infinità di aiuti, fra i quali per esempio l’engineering, e che noi oggi siamo in grado di fornire tramite la più grande società europea del genere. Ossia l’ENI …

Deborah Sorrenti approfondisce in chiave globale l’azione a cavallo fra politica estera e strategia commerciale dell’ente di stato guidato dal manager marchigiano nei difficili anni della guerra fredda e della contrapposizione dei blocchi, evidenziando una originale posizione terzaforzista di Mattei; non casualmente, l’indipendenza dell’ENI nelle scelte internazionali andò scemando dopo la tragica morte del suo primo presidente. Infine Lucia Nardi descrive appassionatamente il ricco e ancora largamente inesplorato archivio storico dell’azienda; la nostra speranza è che esso possa essere visitato dagli studiosi più frequentemente di quanto non sia stato in passato, al fine di gettare nuova luce su un uomo dalla retta coscienza che molto ha dato al nostro paese.

E per Mattei, eja eja alalà
Luca Tedeschi, Enrico Mattei squadrista e dissidente fascista, in: Nuova Storia Contemporanea, n. 3-2007.

Ha fatto molto discutere questo saggio in cui vengono alla luce i trascorsi giovanili di Enrico Mattei; in realtà l’articolo, già di per sé non particolarmente lungo, se sfrondato da alcune pagine non essenziali (note biografiche, accenni al fascismo marchigiano e milanese e alla bibliografia esistente sul presidente dell’ENI) si riduce a un documento proveniente dall’Istituto Gramsci e due dell’archivio centrale dello Stato. Le carte provenienti dall’ACS, riguardano rispettivamente la denuncia che Mattei fece presso il tribunale e l’ufficio politico della milizia di Milano di un suo dipendente che aveva trafugato documentazione segreta, e un colloquio registrato da un informatore dell’OVRA in cui Mattei, dipinto come fascista di vecchia data, si lamentava della politica economica del regime. Si tratta di conoscenze di vecchia data, già citate in diverse biografie, e che, se da un lato non avevano ancora avuto un riscontro documentale, non erano mai state smentite da alcuno.
Unica effettiva novità sono le carte del Gramsci, che registrano l’iscrizione al fascio di Matelica nell’ottobre del 1922, quando Mattei era poco più che sedicenne. Null’altro si sa su questi fatti. Non esistono riscontri attendibili su eventuali attività squadriste o di altre violenze eventualmente attribuibili all’allora fattorino della fabbrica vernici del comune marchigiano. Rebus sic stantibus non si capisce davvero il clamore suscitato da questo – invero modesto – intervento di Luca Tedeschi.
Mattei fu fascista nell’adolescenza, e iscritto al PNF negli anni ’30. A noi risulta che i curricula politici di altri importanti protagonisti della Resistenza fossero ingombranti o imbarazzanti quanto o forse più di quello del futuro presidente dell’ENI. E perché non ipotizzare una tessera posticcia da “antemarcia” (esistono diversi casi, il più noto quello di Galeazzo Ciano che se la fece fare da Alessandro Pavolini) al fine di favorire la propria attività imprenditoriale a Milano?
Per citare Shakespeare, verrebbe davvero da dire “molto rumore per nulla”.

domenica 1 luglio 2007

Storie in camicia nera

Negli ultimi anni si sono svolte diverse occasioni di dibattito sulla nascita, lo sviluppo e la fine del fascismo nel nostro paese.
Gli atti di due convegni, il primo svoltosi a Mantova, il secondo a Fermo, sono stati di recente resi pubblici e sono di seguito analizzati.
Padania violenta
Fascismo e antifascismo nella valle Padana, atti del convegno di studi di Mantova, 14/16 dicembre 2005, a cura dell’Istituto mantovano di storia contemporanea, Bologna, Clueb, 2007 (pp. 540, € 32, 00).

Il convegno di Mantova del dicembre 2005 ha rappresentato una preziosa occasione per un confronto sullo stato dell’arte della storia del fascismo nelle regioni padane. La parte più ricca e originale di questa raccolta, senza nulla togliere ad alcuni interessanti interventi su Salò, è quella dedicata agli anni ’20 nell’Emilia Romagna e nella bassa Lombardia, ossia il periodo della nascita e dell’avvento del fascismo nelle due regioni. Abbiamo individuato un fil rouge, che unisce tutte le realtà analizzate, anche se, purtroppo, non tutti i ricercatori intervenuti hanno saputo farlo emergere come fattore unificante delle vicende narrate: si tratta del tasso elevato di violenza presente nello scontro politico nel primo dopoguerra; la cruenta dialettica sociale è infatti il vero comune denominatore riscontrabile, sia pure in modo diverso, in tutte le storie locali al centro delle indagini.
Fabrizio Venafro, in una analisi sulla realtà bolognese caratterizzata da pesanti stilemi marxiani, deve constatare che lo squadrismo superò per efficienza “le squadre di combattenti e nazionalisti (…); gli unici in grado di vantare una certa preparazione paramilitare nel contrastare il movimento socialista” (p. 13). Quest’ultimo, a sua volta, non ci risulta fosse propriamente animato da intenti gandhiani, tanto è vero che Matteo Pasetti rileva, a giusta ragione, come a Forlì “l’abitudine a pratiche di violenza politica precedette e favorì l’irruzione fascista” (p. 54); a Piacenza, secondo Fabrizio Achilli, si verifica un fenomeno già da noi individuato nel Ferrarese, ossia il passaggio di alcuni leader anarco-sindacalisti allo squadrismo: “il sindacalismo fascista si insinua nelle crepe che si aprono in quelle aree della pianura agricola dove più aspra è stata la lotta delle leghe rosse” (p. 88). Come nella provincia estense, una generazione di sindacalisti plasmati alla scuola della violenza soreliana, salta il fosso e va a fare la rivoluzione, ma in camicia nera. Peraltro i fascisti, anche nell’Emilia profonda trovano una inattesa dose di consenso, ben sottolineata da Anna Maria Ori nel suo saggio. Appare al riguardo illuminante per stile e contenuti il manifesto con cui a Carpi si presentavano i socialisti alle elezioni amministrative del 1920 parte del quale, citato dalla Ori, merita di essere riportato per esteso:

Non si va al comune per amministrare meglio dei borghesi, per dare prova di giustizia e di correttezza amministrativa o per fare il bene della cittadinanza, e simili altre promesse democratiche piccolo-borghesi. I socialisti al comune devono provvedere esclusivamente all’interesse di classe del proletariato, antagonista a quello della borghesia … (p. 167)

Sono espressioni che parlano a volumi sul clima dell’Emilia anni ’20, e forse proprio per questo a lungo ignorate; eppure senza una analisi attenta di questi frammenti risulta incomprensibile la ragione per cui si creò un nocciolo duro di consenso attorno al movimento di Benito Mussolini.
A fronte di alcune innovative analisi sull’avvento della dittatura, appaiono non sempre convincenti alcuni interventi relativi alle vicende del ventennio successivo. Le analisi di Giovanni Taurasi sulle carceri di Castelfranco Emilia, così come quelle di Juri Meda su chi si opponeva più o meno palesemente al regime, finiscono quasi per giustificare conclusioni opposte a quelle degli autori, ossia che il dissenso era talmente minoritario e disomogeneo per mezzi e fini, da risultare ininfluente o invisibile.
Non diverso il rischio che corrono Antonella e Davide Guarnieri nel descrivere la situazione di Ferrara sotto la RSI; entrambe le relazioni, peraltro, sono preziose per la messe di dati inediti e la narrazione di vicende sino ad oggi ignote. Lo studio dello scenario in cui si mossero gli antifascisti ferraresi dà vita ad un quadro imbarazzante, in cui l’adesione al fascio repubblicano estense assume aspetti quasi totalitari, comprensivi del ritorno al potere di gruppi politici ed economici che il 25 luglio prima e l’armistizio poi avevano fatto scomparire nel resto dell’Emilia. Stridente è infatti il paragone fra i 9.000 iscritti al PFR estense rispetto alla sparuta pattuglia che frequentava l’agonico fascio di Reggio, già in disfacimento ancor prima del 1943, come ben si ricava dall’analisi di Massimo Storchi; inquietante appare poi l’inquadramento di quasi 2.500 camicie nere nella GNR, forze che sommate alle centinaia di squadristi della brigata nera ferrarese offrivano un controllo talmente capillare del territorio da non rendere necessaria, come sottolinea Davide Guarnieri, la presenza della Ordnungspolizei nella provincia ferrarese.
Nel suo studio della figura di Leandro Arpinati, Brunella della Casa fa di nuovo riflettere su come il fascismo delle origini fosse assai permeabile all’inserimento di personale dai percorsi umani e politici ben lontani dallo stereotipo classista dominante in molta storiografia dell’ultimo cinquantennio. Riemerge, sia pure di passata, la vicenda del fascio bolognese, fondato nel 1919 dai repubblicani Pietro Nenni e Guido Bergamo, elementi assai lontani dall’agraria o dal capitalismo industriale (e infatti espunti dall’analisi superideologica di Venafro, di cui si è detto dianzi). Il percorso umano del “ras” bolognese, prima anarchico, poi squadrista ed infine antifascista, ammazzato da partigiani che potevano essere anagraficamente figli suoi, è, a parer nostro, la spia di contraddizioni spesso risolte con l’eliminazione dalle ricostruzioni storiche.
Il volume si conclude con alcune analisi di vicende locali che poco aggiungono a quanto sinora noto, ed in un caso, quello dello studio che Ermanno Mariani dedica alle formazioni poliziesche di Salò, appaiono di una povertà imbarazzante, ben al di sotto del tono generale del volume; nel riprendere da un libro divulgativo di Silvio Bertoldi di trent’anni fa l’elenco di alcune formazioni di polizia (“vi erano poi la Finizio, la Castellanzi, la Pollastri, la De Sanctis, la Panfi, La Pennacchio”, p.485), l’autore fa filotto, mettendo assieme reparti autonomi (Mario Finizio, comandante del CIP, centro informativo politico, alle dipendenze tedesche), nomi sbagliati (Pollastri invece che Guglielmo Pollastrini, comandante delle squadre d’azione a Roma, che nulla c’entra con la valle Padana), elementi organici della Questura (come Carlo De Sanctis a Ferrara), e individui su cui bisognerebbe iniziare a fare analisi serie, come il fantomatico “Panfi”, elencato da mezzo secolo senza alcuna informazione su diecine di volumi dedicati alla Resistenza, e che secondo noi è il conte magiaro al servizio del SD milanese Spérőe Pállfi (e non Panfi), che Vincenzo Costa descrive nel suo L’ultimo federale (Bologna, Il Mulino, 1997, p. 182-183).
In conclusione il nostro auspicio è lo stesso che Paul Corner (apprezzato discussant durante le giornate mantovane) espresse due anni fa, ossia che dopo una lunga e proficua stagione di ricerche sull'ultimo fascismo, si torni a studiare la nascita dello squadrismo, specie nelle realtà emiliane e lombarde che meglio materializzarono il disegno mussoliniano del partito armato in camicia nera.

I dolorosi percorsi di Salò
Violenza tragedia e memoria della Repubblica Sociale Italiana, atti del convegno di studi di Fermo, 3-5 marzo 2005, a cura di Sergio Bugiardini, Roma, Carocci, 2006, (pp. 370, € 28, 00)

Il debutto dell’Istituto di storia contemporanea di Fermo (AP) ho coinciso con l’organizzazione di un interessante convegno di respiro nazionale sulle vicende della repubblica di Salò; le relazioni, pubblicate alla fine del 2006 presso l’editore Carocci, appaiono di livello assai elevato, con indagini su fatti e personaggi rimasti sinora in ombra e talvolta descritti in passato in modo incompleto e approssimativo.
L’opera infatti appare valida soprattutto grazie alle relazioni dedicate agli argomenti meno conosciuti del biennio 1943-45: le complesse vicende locali della galassia salotina, le biografie dei gerarchi di seconda e terza schiera, le continuità spesso ignorate fra le tre Italie (del re, di Mussolini e della faticosa democrazia postbellica), che coinvolsero larghi settori della burocrazia, delle forze armate e della polizia.
Il curatore, Sergio Bugiardini, nella sua introduzione sostiene che l’idea di fare un convegno sulla RSI nel sessantesimo anniversario della Liberazione poteva apparire “provocatoria” (p. 8) e ciò secondo noi la dice lunga sulle ragioni per cui, come di seguito aggiunge Enzo Collotti, “la storiografia sulla Repubblica sociale italiana nasce in epoca relativamente recente” (p. 15): ci sono, purtroppo, ritardi di mezzo secolo che solo la benevola analisi di quest’ultimo studioso può addebitare “al riflesso autodifensivo di natura politica” (p. 17). Collotti osserva poi come il vacuum sia stato colmato da una alluvione di opere autobiografiche o narrative di orientamento neofascista; Francesco Germinario, poco oltre conferma al riguardo quanto vent’anni fa già avevano compreso Giovanni de Luna e Mario Isnenghi: la memorialistica di Salò “enorme e ancora in crescita anche negli anni più recenti” (p. 29) fu sì redatta a fini autoassolutori, ma venne però letta da tanti (o tantissimi: basti pensare alle numerose ristampe di una indigesta pizza come le memorie di Rodolfo Graziani) che null’altro reperivano sull’argomento. Se lo schematismo definitorio dei vari Battaglia, Mira, Salvatorelli e Santarelli non avesse fatto premio sulla necessità di fare indagini serie sull’ultimo fascismo, forse le analisi di Fredrick W. Deakin sarebbero rimaste una testimonianza meno solitaria su quel controverso periodo. Il meritorio e indispensabile censimento delle fonti archivistiche della RSI condotto dalla fondazione ISEC di Sesto San Giovanni sotto il coordinamento di Luigi Ganapini, prosegue frattanto tra mille difficoltà, e bene hanno fatto Grazia Marcialis e Gaetano Grassi, nella loro relazione a constatare che i tempi per la redazione della Guida agli archivi della Resistenza furono assai più brevi. I ritardi sono comunque una imbarazzante pagina sotto gli occhi di tutti; anche Lutz Klinkhammer conferma un silenzio assordante che, con transalpina bonomia, lo studioso tedesco spiega “con una certa fase politica” (p.49).
Concluse le valutazioni di carattere generale, si giunge alla parte migliore del volume; incontriamo l’inedita storia del “Corriere della sera” nel biennio 1943-45 narrata da Mauro Forno, seguita dagli interessanti cenni che Gloria Gabrielli offre sul percorso umano di Carlo Silvestri, intrecciato a doppio filo per un quarto di secolo con quello di Benito Mussolini. Sergio Bugiardini, in una preziosa analisi della stampa locale marchigiana durante l’occupazione tedesca, fa luce anche sugli inediti e precari equilibri che reggevano l’ultimo fascismo in questa regione. Di grande interesse il profilo dei trentenni che qui, come altrove, fecero rinascere le federazioni provinciali, come Caterbo Mattioli a Pesaro, il quale era talmente convinto di prendere parte a un conflitto ideologico da richiedere, dopo la caduta di Mussolini, “l’adesione alle SS tedesche” (p. 121); un percorso simile ad altri da noi studiati e che conferma la necessità di approfondire le continuità fra vecchio e nuovo fascismo. Maura Firmani si addentra nell’universo oscuro delle ragazze di Salò, e della loro irriducibile fede mussoliniana, soprattutto tramite lo studio delle vicende di alcune detenute fasciste nel penitenziario di Perugia; la Firmani così dipinge una di esse “l’attivismo politico della donna non si esaurì dietro le sbarre, anzi fu alimentato da una cospicua corrispondenza con i camerati tutta incentrata nell’esaltazione di quanto da essi compiuto” (p. 145); desta una certa vertigine il fatto che se questa descrizione non si sapesse essere riferita ad una volontaria di Salò, potrebbe rappresentare una delle tante pasionarie di colore politico opposto descritte nelle antologie resistenziali.
Tornando alle vicende locali, Amedeo Osti Guerrazzi approfondisce la biografia di Guglielmo Pollastrini, uno dei animatori del fascio repubblicano della capitale, sottolineando che “solo nel 2004 è uscito un volume dedicato alla federazione fascista dell’Urbe” (p. 159); saggio scritto dallo stesso Guerrazzi, aggiungiamo noi, il quale con grande caparbietà e rigore ha studiato fatti e vicende su cui non un rigo di carattere scientifico era stato scritto in sessant’anni, nonostante sull’occupazione tedesca di Roma siano stati dati alle stampe dozzine di volumi. Marta Baiardi offre un quadro ricco di dettagli sulla triste vicenda dell’ufficio affari ebraici di Firenze e sul suo capo Giovanni Martelloni, il quale agì nella sostanziale indifferenza e talvolta con l’esplicita approvazione di diversi cittadini del capoluogo toscano (p. 221).
Qualche superficialità nell’ambito della storia militare si rinviene nell’intervento di Gianmarco Bresadola Banchelli sull’Adriatische Kustenland, dove pare che fossero presenti solo reparti tedeschi o sloveni, con un minimo apporto di formazioni italiane, perlopiù di scarsa efficienza (p. 256). In realtà nel Friuli, in Istria e nella Venezia Giulia si trovavano cinque reggimenti di Milizia difesa territoriale (ex legioni MVSN) più altri reparti autonomi (reggimento alpini Tagliamento, battaglione bersaglieri Mussolini ed altri) discretamente armati ed equipaggiati, anch’essi agli ordini del comandante della polizia e delle SS Odilo Globocnik. Senza contare l’arrivo, nell’inverno 1944-45 di altri reparti della X Mas di Junio Valerio Borghese.
Spiace che Brunello Mantelli riduca il suo intervento sui rastrellamenti nelle Marche a sole sei pagine, peraltro colme di riferimenti bibliografici e archivistici: magari lasciando meno spazio ai brevi cenni sull’universo che interpuntano alcune parti del volume, si sarebbe potuto incoraggiare il bravo storico torinese a scrivere qualcosa di più.
Sfocata appare la relazione di Agostino Bistarelli sulla ricostruzione delle forze armate italiane al termine del conflitto; le cifre sulle forze armate della RSI (p. 294) sono tratte dai poco attendibili volumi di Nino Arena e Teodoro Francesconi e la scelta di soffermarsi sulle vicende postbelliche dei partigiani nell’esercito italiano non contribuisce alla conoscenza dei percorsi degli ex ragazzi di Salò; su essi, diversi anni or sono, Pier Paolo Battistelli scrisse che furono smistati in percentuali “non allarmanti” nei vari CAR e successivamente nei Corpi. Bene avrebbe fatto l’autore a fare luce anche su questo tuttora ignoto ambito di indagine.
Di grande interesse e novità, infine, la analisi delle continuità dei vari corpi dello stato, come la magistratura, la polizia e la burocrazia ministeriale, studiate rispettivamente da Giovanni Focardi, Giovanna Tosatti e Marco Borghi. Qualche perplessità ci lascia lo studio della Tosatti, quando afferma che il 20% dei questori aderì alla RSI, mentre “i prefetti di carriera si erano rifiutati in blocco di collaborare” (p. 326). I dati che conosciamo contraddicono questa analisi; i prefetti (poi definiti “capi provincia”) erano spesso arrivati a questo incarico provenendo direttamente dal PNF o dalla Milizia, e dopo l’armistizio, in diversi casi, la loro fede politica potè più del giuramento al re (alcuni casi: Emilio Grazioli, Giovanni Dolfin, Melchiorre Melchiorri, Rino Parenti e Oscar Uccelli). Discorso simile si potrebbe fare anche per i responsabili delle questure, che secondo noi aderirono in misura assai superiore all’uno su cinque di cui parla l’autrice della relazione.
Le conclusioni di Luigi Ganapini, che sottolineano la necessità di proseguire lo studio sulle continuità – invero numerose – tra l’Italia del ventennio fascista, quella dell’occupazione tedesca e quella democratica, sono condivisibili, anche se non possiamo negare il nostro rammarico per alcune sferzanti opinioni che lo storico milanese esprime sulla Chiesa cattolica; questa, assente o quasi nelle pagine precedenti, viene incomprensibilmente citata solo nell’elenco dei soggetti che hanno contribuito a stendere una “cappa di autoritarismo e repressione” sul nostro paese (p. 351).
Ciò non modifica il nostro giudizio sull’opera, che resta senz’altro positivo, e semmai ci fa chiedere se non sia giunto il momento per affrontare in modo sereno (magari in una giornata di studi) il ruolo della Chiesa nei mesi in cui assieme, nel nostro paese, si svolsero la lotta di liberazione e la guerra civile.

martedì 29 maggio 2007

Storie emiliane del '900

Negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi volumi inerenti la storia dell’Emilia Romagna nel corso del ‘900, e soprattutto sul cruciale passaggio del ventennio fascista, dall’avvento della dittatura, passando attraverso le fosche giornate di Salò per finire con le sanguinose epurazioni successive al secondo dopoguerra.

Soffermiamo di seguito la nostra analisi su tre studi che hanno diversi motivi di interesse.

Bastonatori per caso?
(ILARIA PAVAN, Il podestà ebreo, Bari, Laterza, 2006)

Lo studio della Pavan ha l’indubbio pregio di mettere a fuoco la vita del podestà di Ferrara Renzo Ravenna, e assieme il difetto di ignorare il contesto generale in cui si svolse la vicenda umana al centro della biografia. Ravenna fu ininterrottamente podestà a Ferrara per quasi quindici anni, fino a quando, poco prima dell’emanazione delle leggi razziali, dopo pressioni governative a lungo respinte dai circoli estensi più vicini all’avvocato (Italo Balbo in testa), fu costretto a dimettersi, ultimo amministratore di religione ebraica ancora in carica nel nostro paese.
La figura di Ravenna e delle sue amicizie appare correttamente delineata, specie per quanto concerne l’ambiente familiare, la descrizione della comunità ebraica ferrarese e i legami fra i principali gruppi economici della città estense. Ben descritte inoltre, grazie al notevole apporto di documentazione degli archivi familiari, la sua azione – invero innovativa e onesta – per la città, le persecuzioni successive al 1938, e, soprattutto, quelle patite durante l’occupazione tedesca.
Lacune, talvolta piuttosto sorprendenti, si trovano come detto nella narrazione della Ferrara culla dello squadrismo di Italo Balbo. Non pare reggere, alla prova delle ricerche più accurate e della documentazione reperibile presso l’archivio di stato di Ferrara (praticamente assente nel libro della Pavan), la descrizione di un Ravenna fascista per caso, quando ben si sa come la comunità ebraica fosse fortemente affascinata dal movimento mussoliniano; ancor meno plausibile è l’oleografia di Italo Balbo, incredibilmente raccontato come un bastonatore per caso: neanche cinque pagine per descrivere le imprese giovanili di “pizzo di ferro” (compresa la feroce uccisione di don Minzoni) a fronte delle decine dedicate a Balbo aviatore e poi “illuminato” governatore della Libia. Il fatto che la carica di podestà fosse di nomina governativa, infine, passa quasi come un dettaglio secondario; indipendentemente dalle qualità umane, nessuno infatti, aveva eletto Ravenna come amministratore della città (la quale, peraltro, appare fra quelle dove maggiore fu il consenso per la dittatura).
Ci avrebbe forse aiutato a comprendere meglio le vicende di Ferrara negli anni ‘30 la lettura degli atti del convegno Italo Balbo e il ventennio fascista svoltosi nel capoluogo estense nel dicembre del 2000, e citati dalla Pavan. Non abbiamo purtroppo avuto la fortuna della studiosa milanese e allo stato attuale non ci è dato sapere dove tali atti siano: certamente non in fase di pubblicazione presso la casa editrice “Il Mulino” come sostiene in nota l’autrice.
In conclusione si tratta di un volume complessivamente utile e interessante, che però, come altri hanno scritto, dice molto sul “podestà ebreo” e poco, o quasi nulla, sul capoluogo che governava.

Sindacalisti “cuori neri”
(ROBERTO PARISINI, Dal regime corporativo alla repubblica sociale, Ferrara, Corbo, 2006)

Roberto Parisini affronta per la prima volta il tema del corporativismo in una delle province dove maggiormente si sviluppò la struttura del sindacalismo fascista, ossia Ferrara e la sua provincia. Con una espansione a tappe forzate, condotta con energia sconosciuta in altre realtà italiane, il regime corporativo nella provincia estense conobbe nel corso del ventennio una capillare estensione dal capoluogo alla periferia, con unità locali dei sindacati in camicia nera nei luoghi più lontani, e all’epoca, più desolati e poveri del Ferrarese.
In realtà dove leghe rosse e bianche erano state spazzate via delle squadracce di Italo Balbo, Giulio Divisi e Olao Gaggioli, gli unici luoghi dove era possibile fare una – sia pur modesta – azione a favore delle diseredate classi lavoratrici (braccianti soprattutto), furono le sezioni dei sindacati corporativi, i quali, in diversi casi finirono per avvalersi di anche personale che proveniva da esperienze di colore politico affatto diverso. Bon grè mal grè, il lumpenproletariat del basso Ferrarese accettò questo cambiamento e dove prima bussava alla porta della lega, si recò con sempre maggior frequenza all’uscio del sindacato fascista.
Il quadro che emerge dalla efficace analisi di Parisini è straordinariamente complesso, e assai mutevole a seconda delle varie realtà locali: si constata, comunque, un certo consenso da parte dei lavoratori per le strutture corporative, almeno in un primo periodo; poi, con il trascorrere degli anni e con l’emergere delle contraddizioni interne al sindacato fascista (insanabile la divisione fra chi credeva davvero possibile una funzione di rappresentanza delle istanze dei lavoratori e chi aveva semplicemente assunto una nomina e il relativo stipendio), subentrò la sfiducia e il distacco. Resta però innegabile una presenza sul territorio ferrarese di una forma di organizzazione del consenso al regime che riuscì a trasferire, a differenza di altre, la sua continuità anche nella discreditata stagione di Salò.
Dove il partito fascista implode con il 25 luglio e fatica a risorgere dopo l’8 settembre, il sindacato (e, aggiungiamo noi, la milizia) sopravvive e diventa una delle strutture locali su cui il malfermo regime della repubblica di Mussolini può contare dal principio alla fine della sua triste avventura, nell’aprile del 1945.
E’ questo, forse, il contrasto stridente con il resto dell’Emilia Romagna, dove il consenso alle organizzazioni fasciste era già precario nel 1940-43 e nullo dopo tale data. Ferrara resta, innegabilmente, un’isola nera, un luogo dove il forsennato prefetto-federale (ossia Gauleiter, alla nazista) Enrico Vezzalini semina il terrore con i suoi scagnozzi guidati da Carlo Tortonesi, ed assieme registra un imprevedibile favore, diffuso non solo all’interno del partito fascista repubblicano, con le sue “tirate” contro i potentati dell’economia agraria.
In conclusione, uno studio prezioso, che rivela aspetti poco studiati almeno per quanto riguarda una realtà, quella di Ferrara, considerata marginale rispetto al resto dell’Emilia proprio per i suoi tratti distintivi, così poco omologabili con il resto della regione.

Preti che un po’ se la sono cercata …
(NAZARIO SAURO ONOFRI, Il triangolo rosso, Bologna, Edizioni Sapere 2000, 2007)

Chiariamo immediatamente un punto: questo accurato studio di Onofri (in realtà è una ristampa aggiornata: la prima edizione è del 1994) è uno dei pochi lavori in cui sono offerti numeri attendibili sulla stagione delle violenze postbelliche in Emilia Romagna; i circa 2.000 morti in tutta la regione dalla liberazione alla fine del 1946 (quasi tutti raggruppati nei mesi del furore del 1945) sono una cifra quasi certa, frutto di uno studio scrupoloso su documenti d’archivio e fonti edite (comprese quelle dei reduci della RSI), incrociati con pazienza certosina dall’ex giornalista e partigiano, senza cedimenti ideologici o inutili semplificazioni. Di questo occorre essere grati a Onofri, poiché offre dati certi, un appiglio sicuro in un oceano di propaganda di vario colore politico che nell’arco di 50 anni ha spesso voluto far passare per veri sia gli improponibili “rigonfiamenti” della pubblicistica nostalgica, sia gli altrettanto incredibili “assottigliamenti” di alcuni studiosi più amanti dell’ideologia che della verità.
Insomma, del merito e del metodo nulla si può dire. Non convincono invece alcune interpretazioni e conclusioni (drastiche) che qua e là nel libro si incontrano.
E’ certamente vero che l’esplosione della furia sui collaborazionisti alla fine della guerra fosse ampiamente prevedibile, e che sia stata una cifra caratteristica di tutta l’Europa occidentale - specie in Francia e Belgio - . Da questo a esaltare la violenza sommaria di quei giorni dicendo che “mai a memoria d’uomo i popoli d’Europa furono animati, come in quel momento da un comune anche se violento (sic) desiderio di giustizia” (p. 37) ce ne corre parecchio. La giustizia anomica (senza regole, come diceva Max Weber) ha il pregio di essere veloce e il difetto di non prendere sempre i colpevoli, e se li prende, di non punirli con proporzione. Se quella stagione di cui Onofri pare senta nostalgia fosse proseguita per molto tempo, probabilmente ricorderemmo il 25 aprile volentieri come il terrore di Maximilien Robespierre.
Inaccettabile è la spiccia descrizione di alcuni episodi indegni di un paese che aveva appena riacquistato la libertà, come l’assalto alle carceri di Carpi e Ferrara e soprattutto l’atroce vicenda dei sette fratelli Govoni di Pieve di Cento (BO), catturati, torturati e massacrati da alcuni partigiani comunisti della brigata “Paolo” nel maggio 1945. Onofri dedica a questa tragedia poche righe distratte, sostenendo, cosa che non ci risulta in alcun modo, che due di essi avevano partecipato a rastrellamenti nella zona. Non una parola di pietà ne’ di rammarico.
In più punti e segnatamente quando parla di un noto opuscolo edito dalla DC (La seconda liberazione dell’Emilia, Roma, SPES, 1949), si irride alcune esagerazioni della propaganda cattolica, sui fatti avvenuti negli anni fra il 1945 ed il 1948. Spiace però che il bravo studioso ignori tutti gli studi scientifici che Salvatore Sechi ha svolto sul PCI emiliano e sulle sue effettive potenzialità insurrezionali. I militanti del PCI non avevano probabilmente i rubli d'oro, come si diceva nell’opuscolo, ma armi automatiche, munizioni e radio trasmittenti, quelle però c’erano eccome. Lamentarsi della propaganda della DC senza poi leggere le cronache de L’Unità o de L’Avanti in quegli stessi anni, appare poi espediente discutibile. In realtà, in piena guerra fredda gli interventi di ambo le parti furono a gamba tesa in diverse occasioni; esisteva comunque una non trascurabile differenza nei valori di fondo proposti dai due schieramenti, uno dei quali, e lo stesso Onofri lo ammette, non prevedeva la costruzione di una democrazia occidentale in Italia.
Come già detto dianzi, c’è una sorta di costante giustificazionista nella puntuale descrizione che si fa di quella non pacifica stagione. Le proteste degli agricoltori e dei mezzadri contro i proprietari, piccoli e grandi, che sfociarono in proteste con morti non meno defunti dei contadini celebrati nei martirologi del PCI, secondo l'autore erano dovuti all’ostinazione dei padroni i quali non capivano che “la rivoluzione e la violenza dei mezzadri erano i mezzi e non il fine (sic)” (pp. 111-112). Insomma, un po’ se l’erano cercata.
Altri che se “l’erano cercata” furono i preti ammazzati in Emilia in quegli stessi anni (una ventina quelli su cui esistono dati certi, nella precisa analisi sui singoli casi fatta da Onofri). Don Umberto Pessina, ammazzato a rivoltellate in canonica nel giugno 1946, è così ricordato dall’autore: “era un prete intransigente e non certo un don Camillo” (p. 133): insomma, forse anche lui se l’era meritata, almeno un pò.
In conclusione ribadiamo il giudizio in precedenza esposto: il volume offre una messe di dati su cui non è oggettivamente possibile avere dubbi. E di ciò ne siamo grati all’autore. Assai meno convincente appare Onofri quando ci vuole descrivere l’atmosfera e i fatti dell’Emilia post bellica, con una agiografia imbarazzante di una stagione che, comunque, non fu tra le più memorabili di questa regione, almeno secondo noi.