martedì 18 dicembre 2012

Percorsi oscuri, percorsi oscurati

Militanza e reticenza
Massimiliano Griner – Umberto Berlenghini, L’aquila e il condor, Milano, Sperling&Kupfer, 2012

La sensazione che si ha nel leggere le memorie di Stefano delle Chiaie, raccolte e curate con scrupolosa diligenza da Massimiliano Griner e Umberto Berlenghini, è quella di essere di fronte a un verbale di interrogatorio, uno dei tanti rilasciati dal leader di Avanguardia Nazionale nella sua ultracinquantennale militanza nella destra radicale. Il tono generale è infatti freddo e distaccato, e solo qualche volta pare aderire all’immagine di agitatore nero che delle Chiaie vuole dare di sé. L’avventura umana e politica, vissuta ai margini della galassia della destra romana, prima istituzionalmente, nel MSI, e successivamente nei canali non sempre limpidi dell’attivismo extra-partitico, è una storia minoritaria (ma non trascurabile) specie se paragonata ad altri movimenti politici degli anni ’60 e ‘70 che proponevano la dissoluzione dell’ordine democratico in nome della rilettura del marxismo-leninismo. Senza scendere nelle banalità degli “estremi che si toccano”, non ci pare superfluo notare come – effettivamente – entrambe le fazioni che propugnavano una resa dei conti rivoluzionaria contro la stabilità del sistema, si fossero nutrite (come bene ha compreso Richard Drake) dei cascami soreliani in salsa italica: non a caso il metro di paragone per comprendere il successo o la sconfitta della propria iniziativa, è per delle Chiaie “la conquista della piazza” e conseguentemente uno dei momenti topici dell’esperienza umana dell’estremista di destra è la rivolta di Reggio Calabria del 1970, indicata nella sua Weltanschaung non come l’assalto disperato al forno delle grucce, ma come la realizzazione concreta del mito della rivoluzione nazionalpopolare.
Sulla lunga parentesi centro e sudamericana, le pagine paiono più partecipate e autentiche, ma anche paradossalmente reticenti: delle Chiaie incontra infatti i peggiori dittatori sudamericani e i loro sanguinosi vassalli, con tanto di funzioni di consigliere per le polizie politiche cilene, argentine e boliviane, senza un singolo accenno alle repressioni disumane che avvenivano in quei paesi. Dal poco credibile Sudamerica anni ’70 all’ancor meno plausibile panorama italico nello stesso periodo il passo è breve; il fondatore di Avanguardia Nazionale, sfiora – a suo dire in modo del tutto casuale e involontario – tutti i protagonisti dei drammatici eventi degli anni di piombo: è uomo di fiducia di Valerio Borghese ai tempi del tentato golpe del 1970, conosce personalmente quasi tutti gli attori della destra eversiva, da Mario Merlino a Pierluigi Concutelli, ma è dichiarato estraneo, al termine di una estenuante serie di processi, a tutte le vicende stragiste di quell’oscura stagione della storia del nostro paese. Cercare di sapere di più dalla laconica prosa del protagonista, è impossibile: l’ultima parte del corposo volume pare un memorandum difensivo, tanto pieno di date e dettagli e tanto vuoto di qualsiasi partecipazione umana a quei fatti.
Come disse nei primi anni ‘90 Andrea Barbato intervistando il guerriero nazionalrivoluzionario appena uscito dal carcere: “lei è un colpevole molto fortunato; o è un innocente molto sfortunato”. Vent’anni son passati, e non ci pare che si possa aggiungere molto di più.

La svastica di Claretta
Mimmo Franzinelli, Il prigioniero di Salò, Milano, Mondadori, 2012

Il “fondo Petacci”, ossia il cospicuo carteggio che intercorse fra Claretta Petacci e Benito Mussolini nel corso della tragica vicenda della repubblica di Salò, recentemente reso disponibile nella sua interessa, è stato oggetto in tempi recenti di analisi approfondite (rammentiamo su tutte quelle di Giovanni de Luna e Pasquale Chessa), che hanno portato apporti di decisiva importanza nell’interpretazione del biennio 1943-45. Mimmo Franzinelli, col suo volume, aggiunge altre riflessioni oltre a quelle degli studiosi precedentemente citati, riuscendo a contestualizzare molti dei passaggi di questa corrispondenza con i fatti e le vicende di quei mesi. Il dato che ci appare degno di nota, più che l’abulia del grigio duce lacustre, è l’iperattivismo vendicativo e filonazista dell’amante, che si rivela appieno nella vicenda del processo a Galeazzo Ciano, per il quale richiede la morte senza giri di parole (come per gli altri imputati) e aggiungendo che quello avrebbe dovuto essere solo il principio di una wagneriana purga di sangue di ispirazione hitleriana. Il paragone fra la genocida “serietà” del cancelliere del Reich e la velleitaria azione (zuppa di autocommiserazione) dell’ultimo Mussolini è uno dei leit motiv delle discussioni fra i due amanti.
Altra nota che emerge con chiarezza è la percezione chiara che il dittatore gardesano ha dello scollamento fra il suo governo e il paese: da un lato la Repubblica sociale non è credibile, è screditata e succube dei nazisti; dall’altro Mussolini ricambia questo discredito con l’odio verso il popolo, accentuato scientemente dalla fanatica amante, forse al fine di mettere sull’altro piatto della bilancia la propria fedeltà cieca nella fortuna e nella disgrazia, rispetto al voltafaccia generalizzato degli italiani. Forse non a caso, anche per questo le proteste del duce per il comportamento sanguinario della Wehrmacht e di alcuni capi di formazioni fascisti sono blande o del tutto assenti, se non nei mesi più vicini all’epilogo della guerra. Ora, se tutto ciò finisca per confliggere con l’interpretazione defeliciana (tesi sostenuta con forza da Franzinelli), la quale come noto metteva al centro della scena una zona grigia che se certamente non era favorevole al governo di Salò, dall’altro non si esponeva a favore del movimento di Liberazione, è difficile da dire in modo conclusivo. E’ certo che Mussolini, da questi nuovi documenti, non si illudeva più di essere il grande demiurgo, capace comunque di incidere sulle vicende del paese. Resta il fatto che la policrazia della RSI rende complesso capire, indipendentemente dalla percezione personale del duce, quanti fossero i "fedelissimi", o comunque coloro che in nome di una passata adesione, non se la sentivano di passare sul fronte opposto. Per restare al solo dato militare, alla fine della guerra l’entità complessiva delle forze armate di Salò, comprendendo tutte le formazioni e tutte le armi, era di quasi mezzo milione di uomini. Pochi? Tanti? Non è semplice dirlo, almeno a parere nostro.

Gioventù bruciata
Andrea Rizzi, La valle della giovinezza, Vicenza, Cierre, 2012

Sui “Balilla che andarono a Salò” si discute ormai da vent’anni, ossia da quando Carlo Mazzantini, reduce da una giovanile militanza in camicia nera, scrittore di successo e uomo alieno da agiografie nostalgiche, pose la questione in un volume dall’omonimo titolo. Andrea Rizzi, in questo studio, analizza uno degli aspetti più conosciuti della partecipazione attiva dei giovanissimi alla tragica storia della RSI, ossia la vicenda del Campo Dux di Velo d’Astico, dove fra maggio e giugno del 1944 migliaia di adolescenti provenienti dalle organizzazioni giovanili del PFR (le cosiddette “Fiamme Bianche”) ricevettero istruzione militare, inquadrati da ufficiali e sottufficiali della GNR, e venendo al termine di questo percorso formativo inseriti a titolo definitivo nelle forze armate della RSI.
Il lavoro di Andrea Rizzi analizza i fatti con dovizia di particolari e documentazione, osservando che già all’epoca questa iniziativa ebbe una massiccia promozione “mediatica”, tramite la stampa e la propaganda fascista, tanto da contribuire – a parer nostro – alla persistenza nella memoria dei reduci e dei nostalgici di questa esperienza. La ricerca è ricca anche di supporti iconografici, per meglio comprendere dove, come e quando si svolse l’addestramento dell’ultima generazione plasmata dal fascismo. I circa quattromila ragazzi provenienti da tutte le località dell’Italia centro-settentrionale, già ben indirizzati nei loro propositi, per settimane furono istruiti all’uso delle armi e pesantemente indottrinati da istruttori fanatici e spietati, con dinamiche non diverse da quelle che contemporaneamente venivano utilizzate nelle scuole allievi ufficiali della GNR (e bene fa l’autore a rimandare al volume di Antonio Gibelli “il popolo bambino”, che molto si sofferma sul tema del plagio ideologico). Ora, se fin qui la narrazione di Rizzi appare una cronaca ben costruita e dettagliata, il seguito lascia piuttosto perplessi, perché a parte un accenno a chi al termine del Campo Dux fu introdotto in reparti regolari dell’esercito della RSI (e comunque anche su questi bisognerebbe meglio indagare per meglio conoscere gli opachi seguiti di esperienze terminate nelle brigate nere o nella legione “Ettore Muti”), poco o nulla si dice dei tanti che finirono nelle formazioni ausiliarie della Flak tedesca, ossia i gruppi antiaerei dell’aeronautica di Salò. E desta un certo stupore che nulla si dica di cosa avvenne in zone assai vicine a quelle dove si svolse l’ultima grande adunata dei giovani fascisti, ossia il sanguinoso ciclo di rastrellamenti sul monte Grappa, che ebbe come esito ultimo decine di esecuzioni sommarie e di impiccagioni pubbliche agli alberi di Bassano. Come alcuni anni fa ebbe a narrare Sonia Residori nel suo “Il massacro del Grappa” (peraltro edito dallo stesso editore del volume di Rizzi), decine di quei giovanissimi fanatici furono parte attiva di quel rito macabro, tanto da essere ricordati dalla popolazione locale come quelli che, fisicamente, “tirarono i piedi agli impiccati”.
Onestamente non crediamo che l’autore abbia volutamente nascosto una parte così ingombrante e poco confacente alla mitizzazione di quella gioventù bruciata. Certo è che anche questo avvenne, e non farne cenno se non per sommi capi, distorce profondamente il giudizio storico su quei fatti, i quali, a parer nostro dimostrano soprattutto la colpevole spregiudicatezza degli ultimi tragici epigoni dell’esperienza mussoliniana; questi, non diversamente dagli istruttori della “Hitlerjugend” nazista, tanto ammirata dal presidente dell’Opera nazionale balilla Renato Ricci, istruirono una generazione a morire e a uccidere senza pietà fino all’ultimo giorno di guerra. E che anche i “balilla di Salò” fossero capaci di compiere atrocità mostruose, è ampiamente dimostrato, e ci appare sbagliato non parlarne.


lunedì 29 ottobre 2012

Frammenti del novecento

L’olfatto del ricercatore
Luciano Trincia, L’odore del novecento, Roma, Gangemi, 2011

Che “odore” può avere un secolo? Perché il secolo passato – indubbiamente – ebbe una precisa identificazione olfattiva, che, da quanto emerge da questa bella raccolta di testimonianze, scritti editi e inediti, fotografie, coordinate dall’abile mano di Luciano Trincia, fu sostanzialmente quella del sudore. Il sudore dell’affermazione, prima stentata, poi sempre più evidente, di una classe media che si era iniziata a formare nelle trincee del Carso, si era poi adattata al totalitarismo mussoliniano, aveva fatto del sudore (assieme purtroppo a “lacrime e sangue”) la cifra distintiva della partecipazione al secondo conflitto mondiale, sino poi ad affermarsi nella repubblica democratica del dopoguerra. E’ attraverso le storie individuali e collettive di questo affresco che la fatica collettiva di una nazione emerge con chiarezza; una società rurale che diviene inurbata; un mondo agricolo che diventa industriale; una classe emergente che si afferma come spina dorsale di una nazione. Tutto ciò non in modo indolore e senza contraddizioni. Quale fu la reale partecipazione della gente comune ai riti collettivi del fascismo? E quale il grado di consenso? Allo stesso modo quale fu il livello di coinvolgimento nelle vicende belliche della guerra in casa, fra il 1943 ed il 1945? Il “popolo alla macchia” era veramente tale, oppure c’era soprattutto la volontà disperata di sopravvivere per vedere e vivere tempi migliori? E nel dopoguerra, quanta e quale fu l’approvazione (o la disapprovazione) popolare alla lunga stagione democristiana, di cui il boom economico fu la parte mediana di una traiettoria prima ascendente e poi discendente, sino agli anni del terrorismo e del riflusso? Queste domande, che non ci paiono oziose, restano tutte aperte e suscettibili di ulteriori apporti di ricerca e studio; ciò che pare emergere tra lettere, carteggi e documentazione inedita, è una nozione a cui gli storici dovrebbero sempre fare riferimento: le interpretazioni “ex post” sono uno sterile esercizio ideologico. I giovani che nel 1915 partono con rassegnazione verso il grande macello collettivo dell’Isonzo, nulla sanno di ciò che li avrebbe inghiottiti; la serena assuefazione al duce che tutto vede e sa, lascia poco spazio alle possibili conseguenze catastrofiche della dittatura mussoliniana; e non diversamente, il consenso postbellico per il governo cattolico e popolare appare davvero ampio e trasversale a tutte le classi, almeno sino alla generale crisi valoriale e generazionale del post 1968.
Siamo grati all’autore per questa rassegna, che apre nuove strade per indirizzare le indagini su un secolo che resta ancora in gran parte da spolverare da interpretazioni che con il “naso” di oggi, hanno talvolta l’odore della muffa …

Patrioti e assassini
Cristopher Hale, I carnefici stranieri di Hitler, Milano, Garzanti, 2012

L’opera di Hale è un lavoro di insieme importante per indagare sulle pulsioni del collaborazionismo europeo, specie per quanto concerne le forme di nazismo/nazionalismo balcaniche, baltiche e centro europee; basata su una bibliografia davvero imponente, e dall’analisi di testimonianze e documenti inediti o poco conosciuti, l’ipotesi – a parer nostro convincente – dello studioso britannico è che l’adesione convinta di tanti giovani europei alle SS nella “crociata contro il bolscevismo” (e soprattutto contro gli ebrei) fu il frutto di un gioco di inganni, in cui ognuna delle parti in causa cercava in qualche modo di interpretare il non detto a proprio vantaggio. Hale dimostra in modo chiaro come le maniacali convinzioni razziste di Heinrich Himmler fossero ben lungi dall’essere uno specchio per le allodole con cui arruolare volontari a scapito della Wehrmacht; anzi, la vicenda dei galiziani o dei musulmani bosniaci arruolati nelle formazioni dalle mostrine nere dimostra invece ad abundantiam quanto fosse importante per il lunatico criminale nazista recuperare ogni goccia di sangue ariano ovunque fosse presente in Europa; dall’altra parte i lettoni come i croati o gli slovacchi, furono disponibili a un patto mefistofelico in cui, in nome della (presunta) indipendenza nazionale, si accettava di diventare pedine nel massacro sistematico degli ebrei europei, missione genocida che peraltro venne poco sollecitata ed entusiasticamente messa in pratica quasi ovunque dal Baltico all’Adriatico. Più basata su pratici interessi di bottega fu la collaborazione nell’Europa nord-occidentale, dove le SS trovarono convinte adesioni da parte di partiti che non avevano ambizioni maggiori che divenire i vassalli del nuovo ordine in Francia come in Belgio o in Olanda (debole ci pare invece l’analisi sulle SS italiane, che furono fenomeno minoritario nella collaborazione della RSI). Il “non detto” qui riguardava il livello di indipendenza che queste nazioni avrebbero avuto nell’eventualità dell’instaurazione del Reich millenario a guerra finita, tema comunque di scarso interesse per i Quisling o i Degrelle, i quali pensavano soprattutto al proprio personale tornaconto. Di interesse rilevante ci pare poi l’indagine sul frammentario mondo delle Waffen SS europee; dietro alle oleografie di una certa storiografia nostalgica, in cui si è cercato in ogni modo di dividere le responsabilità dell’Olocausto da quelle dell’esercito dei combattenti di Himmler, quello che emerge dalla ricerca di Hale è invece una piena, convinta e feroce partecipazione delle formazioni con le rune sulle mostrine nere ai pogrom o alle fucilazioni di massa. Le Waffen SS non solo sapevano ma partecipavano senza difficoltà alle sanguinarie Judenaktion  perché il credo antisemita era nel DNA dei volontari francesi come di quelli olandesi o fiamminghi. La pietà era un sentimento del tutto sconosciuto, mentre la brutalità era diffusa senza tregua, a tutti i livelli. Può sembrare paradossale, ma in realtà non sorprende come le divisioni SS fossero assieme un elìte di soldati coraggiosi e fanatici, e un coacervo di assassini votati a una causa genocida. Un SS danese che, commentando l’uccisione a freddo di un anziano ebreo polacco da parte di un suo commilitone, scrive sul suo diario ...lo sporco giudeo ha avuto il fatto suo..., dimostra a volumi quanto queste truppe fossero davvero una “Armee der Geächteten“, un esercito di canaglie, secondo la definizione del generale SS Felix Steiner.

Storie private
Luigi Ganapini, ,Voci della guerra civile, Bologna, Il Mulino, 2012

L’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano è una poco esplorata fonte di studio per i ricercatori del novecento; Ganapini, in questo prezioso lavoro di cucitura fra storie assai diverse fra loro, ma tutte legate al doloroso transito della guerra in casa fra il 1943 e il 1945, evidenzia invece quanto ancora risulti inedita la “piccola storia” di coloro che furono gli attori dei grandi eventi di quel biennio. Suddiviso per temi ed attori (i deportati politici, i fascisti, i partigiani, la gente comune ..), il volume ci fa respirare l’aria dolorosa e acre di un tempo lontano, ma che ha riverberi anche sul presente, non fosse altro perché diversi narratori sono ancora viventi, e molte storie sono state raccontate “ex post”, quindi col beneficio di una riflessione a distanza di mesi o anni dai fatti in questione. Difficile trovare un tratto comune a tutte le vicende, se non quello che – come spesso accade – chi descrive in diretta i fatti, molto spesso non immagina le conseguenze immediate e future di quanto osserva; la caduta del fascismo, solo per citare un caso fra i tanti, è in modo praticamente unanime (quindi anche per i fascisti stessi) vista come la definitiva conclusione dell’esperienza politica di Benito Mussolini; allo stesso modo, l’armistizio dell’8 settembre 1943 è quasi sempre descritto come una giornata se non di festa, di sollievo per la fine delle ostilità; non diversamente, il 25 aprile 1945 è tutt’altro che un giorno da campane a stormo, perché tutti o quasi i narratori sono ancora invischiati nelle vicende belliche, almeno sino alla fine del mese o oltre (fatto salvo, ovviamente, quelli delle regioni già liberate, Toscana su tutte, vista l’abbondante presenza di materiale diaristico di quest’area). Anche in ciascuna delle posizioni in cui vengono a trovarsi i vari narratori si possono trovare incongruenze: se l’ausiliaria fascista a Torino vive la liberazione come il collasso definitivo e traumatico del mondo a cui è appartenuta sino a quel momento, l’alpino entrato nella divisione “Monterosa” della RSI conclude la sua naja nelle formazioni partigiane, come se fosse la cosa più naturale e normale del servizio militare; ci sono civili che esultano per la liberazione, ed altri che, assai meno esultanti, devono subire le miserie e l’avvilimento del “dopo”; ci sono internati militari che fino quasi a maggio 1945 restano sotto il giogo nazista, ed altri che in qualche modo riescono ad anticipare il proprio rientro a casa.
Secondo il punto di vista di chi scrive queste note, l’appassionato lavoro di Ganapini conferma una visione della storia che già faceva parte del proprio patrimonio di ricercatore, ossia: se una vicenda presenta aspetti complessi, è operazione deontologicamente scorretta ridurne a colpi d’accetta gli snodi più controversi per aver del materiale malleabile da usare per dimostrare la proprie tesi. Se dei fatti sono complessi, molte volte occorre rassegnarsi a descriverne la complessità, rinunciando a forzare la mano per ottenere il risultato desiderato. Anche di questo siamo grati all’autore, specie per la sensibilità con cui si è avvicinato a storie dolorose e talvolta lancinanti.

Leggi “ad personam”?
Maurizio Rizzo Striano, Processo ai Partigiani, Ferrara, Corbo, 2012

Il volume di Rizzo Striano ha un peccato originale imperdonabile: un titolo indecoroso e inadeguato, probabilmente imposto dalla casa editrice, che praticamente nulla ha a che vedere con l’argomento dello studio; l’autore è il figlio di Domenico Rizzo, deputato comunista, che fu lo storico difensore di quasi tutti i partigiani processati nel dopoguerra a causa degli eccessi avvenuti dopo la liberazione. Maurizio Rizzo Striano, avvocato a sua volta, rende disponibili ai lettori decine di documenti inediti inerenti queste vicende giudiziarie, senza pretese di storico o di giudice; di questo ne siamo grati  anche perché la vicenda di cui il corposo volume è tutt’altro che sedimentata nella memoria del nostro paese. La lettura della ricerca andrebbe, se non imposta, almeno consigliata a tutti coloro che sono rimasti indignati dagli esiti dell’amnistia voluta da Palmiro Togliatti nel 1946, che consentì a molti aguzzini fascisti di non scontare il dovuto grazie alla depenalizzazione di tutto ciò che non entrasse nelle definizione sevizie particolarmente efferate. L’altro lato della medaglia (altrettanto indecente), di cui assai meno si è discusso sino ad oggi in sede storiografica, è l’impunità offerta ai rei di colore politico opposto, purchè potessero dimostrare di aver commesso fatti di sangue in qualche modo riconducibili alla guerra di liberazione, il cui termine ultimo veniva protratto, incredibilmente, fino al 31 luglio 1945. Ora, con gli occhi dello studioso contemporaneo, non c’è dubbio che tale perentoria scadenza, del tutto arbitraria ed abnorme (tre mesi oltre la fine delle ostilità, anche considerando il 2 maggio 1945 come la fine ufficiale della guerra in Italia) permise a molti ex partigiani dal grilletto facile di “sfangarla”, restando con la fedina penale immacolata. Di questi, purtroppo, c’è solo minima traccia nel volume, che invece incentra la propria indagine su un’altra categoria, ossia di coloro che cercarono, sotto le vestigia della “guerra patriottica”, di nascondere omicidi compiuti a scopo di giustizia sommaria, ma più spesso, a causa di rapina, estorsione, vendetta o semplice odio politico.
Specie nell’Emilia e nella Romagna dell’immediato dopoguerra, l’avvocato Domenico Rizzo vide come unica speranza di salvezza dal carcere dei propri assistiti, l’utilizzo del decreto presidenziale 22 giugno 1946, altrimenti noto come “amnistia Togliatti”. Conseguentemente gli imputati di delitti spesso crudeli ed efferati, si presentarono in giudizio rei confessi, descrivendo in modo circostanziato i propri misfatti. Fra i tanti episodi narrati ci pare sconcertante su tutti la vicenda del cosiddetto "fondo Fiorini”, la proprietà del contadino Armando Fiorini in comune di Zola Predosa di Bologna, dove fu scoperto un vero e proprio cimitero clandestino; qui, nel corso di una serie di scavi condotti nel 1948-50, emersero alla rinfusa ossa umane di una decina di persone scomparse per pseudo-motivazioni politiche, o per vendette personali nei mesi successivi alla fine delle ostilità. Gli autori degli omicidi tentarono la via di salvezza processuale avvalendosi delle possibilità dell’amnistia, e quindi confessando in modo pressoché completo circostanze e motivazioni delle uccisioni, senza peraltro ottenere i benefici del provvedimento di legge. Casi come questo lasciano una sensazione di sconcerto e costernazione (viene, fra gli altri, descritto l’intero procedimento penale a carico di Mario Toffanin e degli altri autori della feroce strage di Porzus), in quanto le narrazioni sono tutt’altro che reticenti e gli autori dei fatti di sangue ci appaiono in molti casi spietati e crudeli. In sostanza, si tratta di tutt’altro che un “processo alla Resistenza”, ma di un supporto indispensabile per chiunque sappia distinguere la differenza essenziale che corre fra un patriota e un farabutto e fra un partigiano e un assassino. Confidiamo che molti fra quelli che anche recentemente hanno individuato prove certe di ingiustizie patite da chi combatté nella guerra di liberazione, leggano le atrocità narrate nel volume. Anche perché sono racconti fatti dagli stessi autori dei crimini che avvennero contro civili inermi, o peggio, contro chi era compagno nella lotta ai nazi-fascisti.

mercoledì 29 agosto 2012

Nord nero, Sud nero.

Teschio e mitra
Federico Ciavattone, Brigate nere, Milano, Lo Scarabeo, 2012

Bisogna essere grati ai giovani studiosi come Federico Ciavattone, perché è soprattutto dai loro lavori che si aggiungono nuove conoscenze sulla repubblica di Salò e le sue milizie. Il lavoro dello studioso pisano fa finalmente luce sulle brigate nere mobili e operative, ossia le formazioni del PFR che maggiormente furono impiegate nella repressione antipartigiana fra il 1944 e il 1945. Indagando in modo meticoloso sulla formazione, lo sviluppo e l’utilizzo di queste unità, l’autore riesce a offrirci un quadro finalmente dettagliato, in cui non mancano sorprese; altre probabilmente ne arriveranno, in futuro, poichè questo volume è il primo di una serie che riguarderà anche le oltre quaranta brigate nere territoriali operanti nel nord Italia.
Il quadro offerto appare di indubbio interesse: le brigate nere “speciali” ebbero un ruolo fondamentale nella Bandenkrieg del tragico inverno 1944-45. Reclutate fra i volontari più giovani e i veterani più fanatici, questi reparti, estremamente mobili, furono gli indispensabili strumenti dell’alto comando delle SS e della polizia nazista per rintuzzare e, in alcune province, quasi azzerare l’attività resistenziale. Di particolare interesse ci paiono alcune vicende individuate nel volume: viene confermata l’importanza degli sfollati fascisti provenienti dal centro Italia, fra i quali spiccano, oltre ai “soliti” toscani, un agguerrito gruppo di camicie nere romane, riunite nel battaglione Tevere che fu parte della brigata nera operativa Garibaldi sino al termine della guerra. Altro elemento inedito è il ruolo fondamentale che ebbe il feroce Odilo Globocnik, comandante in capo delle SS nel Litorale adriatico sotto pieno dominio nazista, nella costituzione della 2° brigata nera mobile Mercuri con sede a Padova. In teoria si tratterebbe di un evidente conflitto di autorità con Karl Wolff, visto che l’autorità di Globocnik si esauriva al confine con le province di Treviso e Vicenza. Evidentemente anche questa vicenda fa capire quanto sia rimasto da approfondire sull’argomento.
La pubblicazione si avvale infine di un ricco apparato iconografico, in gran parte inedito, e da tavole a colori di sicuro interesse per gli esperti di militaria. Ciavattone è un giovane di sicure capacità e tutto lascia intuire che possa offrirci nuove, interessanti prove, a partire dal completamento di questa opera riguardante gli ultimi in camicia nera.

La politica della repubblica occupata
Amedeo Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica Sociale Italiana, Roma, Carocci, 2012

L’agile sintesi di Osti Guerrazzi dedicata all’ultima palingenesi mussoliniana, mette a fuoco alcuni elementi fondamentali del tragico biennio 1943-45: la collaborazione subordinata all’alleato-occupante, la stentata ricerca di consenso politico e, dall’estate 1944, la guerra ai civili tramite la militarizzazione del partito fascista nelle brigate nere, segno estremo del fallimento di ogni proposta istituzionale e, assieme, adesione definitiva al progetto hitleriano della guerra totale, in nome di una ideologia divenuta ormai estranea alla quasi totalità del popolo italiano.
Queste fasi, ben delineate nello sviluppo dell’opera, hanno il pregio di attingere (finalmente) alle più recenti acquisizioni storiografiche sull’argomento, che, come abbiamo più volte sottolineato, sono frutto di lunghi e faticosi processi di ricerca svolti da studiosi non accademici, o comunque non strutturati all’interno del mondo universitario italiano; doveroso riconoscimento a chi oggi non ha alcuna opportunità di consolidare la propria posizione lavorativa nel mondo dell’università.
Osti Guerrazzi offre una ampia selezione bibliografica e documentaria a sostegno delle proprie tesi (anche se i “bollettini Z” spesso citati nel testo potrebbero essere meglio qualificati); ci permettiamo alcuni rilievi: come abbiamo spesso sostenuto, il concetto di “bande autonome” per definire la complicata galassia dei reparti collaborazionisti italiani, è erroneo, in quanto non una di queste formazioni aveva alcuna “autonomia” che non fosse delegata da una autorità tedesca di occupazione. Inoltre ci sembra davvero drastico ridurre l’attività politica di Salò al solo periodo inverno-estate 1944, dedicando solo le ultime pagine a quanto avvenne nell’ultimo semestre della stentata vita della RSI, non fosse altro perché fu in quel periodo che vennero gettati i semi di quello che sarebbe stato il post-fascismo, e nello stesso tempo, ci furono inconfessati (e imbarazzanti) “do ut des” fra nazisti, autorità repubblichine e antifascisti. Ridurre tutto questo a folklore, come nel caso della dichiarata alleanza fra i socialisti Carlo Silvestri e Corrado Bonfantini, ci pare davvero un po’ troppo autoassolutorio.
Infine, un’ultima personalissima valutazione: sarà anche vero, come Osti Guerrazzi sostiene, che in Francia scoppierebbe uno scandalo se fossero messi in vendita calendari dedicati a Philippe Petain con la stessa capillarità con cui troviamo Mascellone di Predappio nelle nostre edicole. in realtà la scarsa diffusione iconografica del "Marechal" è in gran parte dovuta al fatto che  i movimenti giovanili di estrema destra d’oltralpe preferiscono i gadget dedicati alle SS della Charlemagne ...

Il sud dimenticato
Gigi di Fiore, Controstoria della liberazione, Milano, Rizzoli, 2012

A tutti gli effetti quella di Gigi di Fiore è una cronaca giornalistica e non una ricerca storica, ma ha il grande pregio della sintesi e della chiarezza; l’autore riunisce storie forse non sempre congrue, e probabilmente non sempre affidate alle ricostruzioni migliori e più documentate, ma ha il pregio di affondare senza remore la dolorosa lama della memoria (rimossa) dei crimini compiuti nel Mezzogiorno dalle forze alleate nel nostro paese.
Gli episodi narrati da di Fiore sono noti, se non notissimi al grande pubblico: gli stupri di massa compiuti dai nordafricani incorporati nel corpo di spedizione francese in Ciociaria, il disinvolto utilizzo di famigerati componenti della mafia italoamericana al fine di facilitare lo sbarco alleato in Sicilia, e le violazioni della convenzione di Ginevra per il trattamento dei prigionieri di guerra, che punteggiarono le prime settimane di occupazione del nostro paese.
Quest’ultima vicenda ci appare quella degna di maggiore attenzione, anche perché tratteggiata in modo dettagliato ed efficace; le fucilazioni sommarie di decine di nostri soldati dopo la resa avvenute a Biscari, Canicattì e Comiso da parte di soldati della 45° divisione di fanteria americana, furono episodi disgustosi (e non casuali), indegni di una nazione civile; chi coprì quelle azioni, avvallandole, ossia George Patton, comandante della 7° armata USA, a parer nostro, non ebbe nelle parole e nei modi comportamento diverso da Albert Kesselring, almeno per quanto concerne la campagna di Sicilia; l’invito a non avere scrupoli e soprattutto a “coprire gli eccessi” ci pare fattore determinante per comprendere i fatti in questione. Si dirà che la giustizia militare americana comunque giudicò e punì i colpevoli (peraltro in modo diseguale e discutibile); resta il fatto che i tragici eventi descritti nel volume avvennero per precise responsabilità di capi rimasti impuniti per l’intero corso della guerra.
Tutto ciò non andava detto non oggi, ma decenni fa, ma nessuno l'ha fatto in modo strutturato e analitico, con la stessa passione con cui si sono affrontati i crimini nazisti; generazioni di studiosi hanno avuto tempo, modo, fortuna e – non ultimo – fondi economici per tratteggiare in modo pressoché definitivo la storia della liberazione del nostro paese fra il 1943 e 1945, ma hanno ignorato questo ed altri sgradevoli episodi della guerra sul territorio nazionale. Chi ha evitato di affrontare per questi argomenti, spesso per distrazione o per convinzioni ideologiche, e oggi critica l’“uso politico della storia”, ci pare davvero che faccia sfoggio di una robusta coda di paglia.
L’opera di Gigi di Fiore probabilmente non passerà alla storia; ma la storia, ci auguriamo, potrà fare buon uso degli spunti che giungono dalla sintesi appassionata e addolorata di questo studioso.

giovedì 21 giugno 2012

Occupazione, militanza, violenza (1943-45)

Violenze inspiegabili?
Toni Rovatti, Leoni vegetariani, Bologna, Clueb, 2011

Chi scrive era presente quando Toni Rovatti presentò il suo precedente volume, inerente l’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema, presso la facoltà di scienze politiche di Bologna. Già all’epoca ci si permise di far rilevare all’autrice (fra qualche ironia di altri colleghi) che il problema della violenza bellica nel corso dell’occupazione tedesca, se non affrontato anche su basi storico-militari, appariva di difficile interpretazione complessiva. Purtroppo nel leggere questo lavoro, non possiamo non constatare che ci troviamo al punto di partenza: la ricerca sulla violenza nella RSI, affrontata in modo diligente su materiale inedito, è ben svolta e assai dettagliata. Peccato che l’assoluta assenza di canoni interpretativi di ambito militare, finisca per condurre a interpretazioni discutibili, se non a veri e propri errori di ricostruzione.
La periodizzazione della violenza di Salò in varie fasi (instaurazione, consolidamento e collasso dell’apparato mussoliniano) è a parer nostro convincente, così come la chiave di lettura dell’uso della crudeltà come metodo prevalente per la dimostrazione della vitalità (catalettica) dell’ultimo fascismo. Quando però si scende nei dettagli delle singole vicende, non si tiene conto delle acquisizioni degli ultimi dieci – quindici anni di studi sulle forze armate della RSI: la presentazione delle formazioni fasciste come “insieme di bande autonome” non è discutibile, ma semplicemente sbagliata; sorprende in bibliografia la carenza a rimandi bibliografici su GNR, Brigate Nere di pubblicazione recente e l’assenza di alcuni studi fondamentali, come quelli di Sergio Corbatti e Marco Nava sulle SS italiane e sulla legione “Muti”. La verità è che non uno solo dei reparti polizieschi citati nel volume per efferatezze di ogni tipo, era “autonomo”, ma tutti dipendevano, sia pure con modalità diverse, dall’alto comando della polizia e delle SS in Italia.
Anche sulla descrizione dei tribunali della RSI, elemento centrale secondo l’autrice per dimostrare la totale assenza della benché minima legalità nella repubblica di Mussolini, ci sono motivi di perplessità. Se nelle sentenze dei tribunali speciali effettivamente troviamo un simulacro di giustizia in stile pavoliniano, i tribunali militari erano costruiti invece sulla falsariga di quelli del regio esercito, i quali avevano imperversato in Jugoslavia durante la nostra occupazione (cosa anche questa ampiamente illustrata da Tone Ferenc, Marco Cuzzi, Gianni Oliva ed altri) ed applicavano il codice penale militare di guerra, come nel 1941-43. Di conseguenza l’argomento di discussione può essere la nostra giustizia militare “en bloc”, non una possibile distinzione tra prima e dopo 8 settembre, perché questa appare davvero capziosa: fucilavamo i cosiddetti “banditi” e prendevamo “ostaggi” sia prima che dopo l’armistizio, cosa riprovevole e incivile, ma identica nell’esercito di Roatta come in quello di Graziani.
In quanto alla giustizia post-bellica, ci si lasci dire che anche qui troviamo mezze verità: se le corti di assise straordinarie furono un sostanziale fallimento, ciò non fu causa di presunti o veri sabotaggi per salvare i fascisti colpevoli di crimini di guerra, ma per la debolezza insita nelle CAS stesse, le quali applicavano codici raffazzonati con reati retroattivi. Per non dire che esisteva un vizio di fondo: i militari della RSI erano stati considerati prigionieri di guerra dagli alleati, e quindi era ben difficile condannarli per tradimento o collaborazionismo se era già stata riconosciuta loro la qualifica di belligeranti legittimi (altra questione che appartiene alla negletta categoria degli studi militari…). Toni Rovatti, in conclusione, ci lascia un lavoro con diversi spunti di interesse, purtroppo annegati in un mare di luoghi comuni che credevamo superati da anni. Evidentemente la storia sociale e quella militare continuano ad avere una comunicazione faticosa. Almeno in una delle due direzioni.

Padri scomodi
Riccardo Facchini, Eugenio Facchini era mio padre, Bologna, Minerva, 2012

In questo volume siamo dalle parti della narrazione di storia familiare più che nell’ambito della ricerca vera e propria. L’autore infatti è il figlio di Eugenio Facchini, figura centrale del GUF bolognese e della rivista “L’Architrave” nel periodo 1940-43, successivamente federale del capoluogo nella RSI fino alla sua uccisione il 26 gennaio 1944 da parte di un gruppo di gappisti. La messe di dettagli, documenti e fotografie che Riccardo Facchini mette a disposizione degli studiosi è, a parer nostro, di estremo rilievo storico. Ci ha colpito soprattutto il vasto materiale iconografico inedito del periodo più intenso del GUF bolognese, con foto che ritraggono Facchini da solo o con amici, diversi dei quali dopo l’armistizio prenderanno strade politiche e umane affatto diverse dal giovane avvocato di Lavezzola, che andava a fare il gratuito patrocinio dei fiocinini comacchiesi presi in flagrante dalle guardie vallive.
Forse lo snodo dell’intero volume è tutto qui: una generazione trovò nell’ambito delle associazioni universitarie fasciste bolognesi il modo per mettersi in luce nel mondo accademico, artistico e delle scienze. Da quel mondo uscirono uomini politici, giornalisti, scultori, scrittori, pittori, registri che divennero noti nell’Italia democratica e repubblicana. E bene fa l’autore, (che ammette i limiti del suo approccio da non-storico) a citare il volume “I redenti” di Mirella Serri, nel quale sono indagate impietosamente le biografie, oggetto di laboriosi make-up, di tanti giovani “gufini” che erano cresciuti intellettualmente all’ombra del littorio, salvo passare, a guerra finita, a ben diversi lidi politici. Cosa che non ebbe il tempo di fare Eugenio Facchini, forse il più intellettualmente interessante di quella compagine, ma evidentemente troppo ingenuo per comprendere le contorsioni ideologiche di alcuni suoi compagni di studi.
Cosa sarebbe potuto diventare il segretario del GUF di Bologna se la sua vita non si fosse interrotta tragicamente ai primi del 1944? Difficile dirlo; nella rassegna di articoli de “L’Architrave” (compreso quello di critica feroce alla corruzione imperversante nel PNF, che costò a Facchini l’allontanamento da Bologna e sei mesi sul fronte russo) c’è davvero un po’ di tutto, come nelle lettere ai familiari spedite durante l’esperienza bellica. Difficile, leggendo questi scritti eterogenei, farsi un’idea sui valori politici del padre dell’autore: senz’altro, assieme a pensieri di tipo vagamente rivoluzionario e alla devozione per Don Bosco, troviamo bordate antidemocratiche e talvolta razziste (elemento peraltro presente in decine di scritti coevi: memorabili le intemerate antisemite di Giorgio Bocca). Quello che ci pare chiaro è che si trattava di una persona “pulita” e ben lontana dagli istinti vendicativi e sanguinari dei suoi successori al fascio bolognese, che comunque gli intitolarono la locale brigata nera.
Resta in fondo alla lettura, interessante e dettagliata, un senso di incompiutezza. Forse se Eugenio Facchini non avesse accettato di incontrare Mussolini nell’inverno 1943, sarebbe rimasto fuori dai giochi abbastanza da capire i torti e le ragioni delle parti in causa. Evidentemente non seppe dire di no al grigio duce lacustre, e mise la propria vita (coscientemente, come si legge nelle lettere ai familiari) nel turbine della guerra civile, pagandone un conto irreparabile, e secondo noi, largamente sproporzionato rispetto alle sue responsabilità.
Siamo grati a Riccardo Facchini per aver offerto agli studiosi questo suo scampolo di vita familiare, che senz’altro non deve essere stato semplice o indolore da ripercorrere.

Donne in divisa
Giuseppe Ravasio, Ausiliarie nella RSI 1944-45, Milano, Greco&Greco, 2012

Il tema della militanza femminile nella RSI è ormai da tempo uscito dall’ambito delle commemorazioni nostalgiche, approdando ad una dimensione scientifica che ha saputo offrire agli studiosi studi di notevole levatura, come quelli di Marino Vigano, Dianella Gagliani o Marisa Fraddosio. Questo volume di Giuseppe Ravasio, in teoria, poco aggiunge a quanto scritto negli scorsi anni, anche se, spigolando fra le pagine non mancano motivi di interesse; l’autore, infatti, ripercorre la vicenda del servizio ausiliario femminile (SAF) tramite lunghe interviste ad anziane reduci di quell’esperienza, che narrano le proprie vicende giovanili e l’adesione alla militanza attiva per la repubblica di Mussolini.
Alcune di queste ex-ausiliare già in passato avevano esposto in altri saggi e testate giornalistiche di area post-fascista la propria giovanile esperienza in camicia nera o grigioverde, in termini sostanzialmente analoghi a quanto abbiamo trovato nelle pagine di Ravasio. Anzi, potendo quindi traguardare le narrazioni con scritti di dieci, venti o trenta anni fa, si individua un singolare effetto “rewind”: si ritrovano non solo le stesse vicende, ma le stesse parole, come una specie di nastro magnetico che viene sistematicamente riportato all’inizio, fatto partire e poi nuovamente fermato al termine dell’intervista.
Quello che ci appare degno di nota, non è quindi l’atteggiamento con cui le ex-ausiliarie giudicano il proprio passato (è davvero piuttosto ingenua la domanda che Ravasio pone a tutte le intervistate, ossia se quella esperienza andava in qualche modo ridimensionata, rivista, o se era da rivendicare in pieno), in quanto la visione positiva ed “eroica” dei mesi trascorsi nelle forze armate di Mussolini è punto centrale della autocelebrazione dei reduci della RSI. E’ invece stupefacente la capacità di ripetere, come una sorta di “lettura omerica” la propria storia personale con gli stessi endecasillabi, buttati a memoria evidentemente in tempi lontani, visto che da decenni sono identici, e da allora mai più modificati o ritoccati in nessun dettaglio, come un nastro mandato in “loop” infinite volte. Il click del registratore della propria memoria, coincide, in quasi tutti i casi con le vicende immediatamente successive all’insurrezione partigiana, alla sconfitta e alla prigionia.
Il “dopo” di queste donne, appare ai loro stessi occhi come un insignificante appendice di sessant’anni aggiunti ai sei mesi di quelle Termopili che furono il fulcro di tutta una esistenza, ed è forse questa la differenza fondamentale fra le narrazioni delle donne partigiane e le donne fasciste, con le prime che vedono quel pezzo del proprio passato come una naturale integrazione con tutto quello che è avvenuto successivamente nell’Italia democratica, in termini di militanza sociale, politica e umana, e le seconde che hanno sempre considerato la repubblica come una sorta di governo abusivo di un paese nel quale sono vissute sempre come “straniere in patria”.
E’ una dimensione che avevamo già trovato quando, vent’anni fa, avevamo a nostra volta, intervistato molti ex combattenti della RSI. Non immaginavamo di ritrovarla così intatta e identica ancora oggi. Evidentemente non avevamo tutti i torti, quando, in conclusione a uno dei nostri primi lavori, ritenevamo che una generazione di italiani e italiane, era destinata a restare irreconciliata con sé stessa e con la propria nazione.
Questo volume di Giuseppe Ravasio, ci conferma in abbondanza quella nostra giovanile riflessione, aggiungendo la sgradevole sensazione che forse, la comunità civile del paese poteva fare qualcosa di più per evitare questo esito così deprimente e irrimediabile.

domenica 29 aprile 2012

Tutta un'altra Resistenza

Un colonnello scomodo
Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo, Milano, Dalai, 2012

La prima riflessione che ci è sovvenuta nel leggere questa pregevole biografia dedicata a Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo è il lasso temporale trascorso dall’esecuzione per mano nazista dell’alto ufficiale del regio esercito e l’uscita del volume: sessantotto anni. In sostanza, per conoscere nel dettaglio la vita di uno dei protagonisti della resistenza militare nel corso dell’occupazione tedesca c’è voluto lo stesso tempo che separa il 1848 dalla prima guerra mondiale; sarebbe (più o meno) come se di Goffredo Mameli o Luciano Manara si fosse timidamente iniziato a sapere qualcosa grazie agli studi di Benedetto Croce sulla storia d’Italia. Ci troviamo insomma di fronte a uno dei numerosi esempi, forse il più grave, del silenzio imbarazzato e imbarazzante che regna quasi ovunque negli studi resistenziali sul ruolo (spesso determinante) che ebbero i militari delle forze armate regolari nella guerra di liberazione. Bene fa quindi Mario Avagliano a soffermarsi sull’inaccettabile ritardo con cui si arriva a indagare su questa e altre figure nobili di ufficiali del regio esercito, e a riportare in virgolettato gli accenni (spesso superficiali e sprezzanti) con cui alcuni tra i numi della storiografia contemporanea hanno gratificato l’esperienza umana e civile di un giovane uomo - non ancora quarantatreenne quando gli fu stroncata la vita - che prima dell’armistizio era stato uno dei migliori ufficiali di stato maggiore dell’esercito, tanto da essere incaricato “sul campo” dal governo regio di Brindisi di coordinare l’attività del fronte militare clandestino nella Roma occupata dai nazisti. L’azione di Montezemolo e dei suoi collaboratori nacque e si sviluppò in condizioni improbe, nel costante timore di delazioni da parte di ex colleghi passati alla repubblica di Mussolini (indecoroso il numero di ufficiali aderenti alla RSI specie dopo il discorso di Rodolfo Graziani al teatro Adriano nell’ottobre 1943) o di imprudenze dovute alla scarsa conoscenza delle tecniche di lotta clandestina. Eppure per quattro mesi il colonnello piemontese fu il referente di fiducia non solo per il governo di Pietro Badoglio, ma anche per i protagonisti del comitato di liberazione nazionale. Formidabile nella raccolta informazioni, decisivo in numerose azioni di sabotaggio ai convogli nazisti, indispensabile per tenere i contatti non sempre agevoli fra “politici” e “militari”, Montezemolo emerge da questo studio come una figura centrale della resistenza nella capitale. L’arresto, le torture e la fine tragica alle Cave Ardeatine avrebbero dovuto già da tempo sollecitare gli studiosi di ogni ispirazione a sollevare lo sguardo verso chi, monarchico, liberale, militare a tutto tondo, sacrificò famiglia, affetti, carriera e la stessa vita per tener fede a un giuramento e per opporsi alla barbarie delle rune e della svastica. Così purtroppo non è stato. E per questo occorre essere grati all’autore, che è riuscito a portare nel XXI secolo un dibattito arenato da troppo tempo sulle spiagge della retorica resistenziale.

Dall’azione cattolica al campo di concentramento
Giorgio Vecchio, Un giusto fra le nazioni: Odoardo Focherini, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2012

Sul fatto che il bene sia “banale” quanto il male si era già soffermato Enrico Deaglio oltre vent’anni fa raccontando la storia, fino ad allora praticamente ignorata, di Giorgio Perlasca e della sua lotta per strappare alla deportazione gli ebrei di Budapest nel 1944. Qui ci troviamo di fronte, in modo non dissimile, a una vicenda sino ad oggi conosciuta praticamente soltanto dagli addetti ai lavori della storia della Shoah nel nostro paese. Grazie a Giorgio Vecchio conosciamo finalmente in modo dettagliato l’esemplare vicenda di Odoardo Focherini, carpigiano, dirigente dell’azione cattolica e amministratore del giornale “l’Avvenire d’Italia”: una persona del tutto normale, con una esistenza dal tratto borghese, dedicata prevalentemente al lavoro e alla numerosa famiglia, che sacrificò la propria vita per poter salvare quella di decine di ebrei. Già dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’incontro con alcuni componenti della Delasem, l’agenzia ebraica che cercava di assistere chi fuggiva dalle nazioni in cui la persecuzione razziale era ormai genocida, aveva aperto gli occhi al trentacinquenne modenese sulla necessità di creare una rete di aiuti concreti per chi era in fuga dai nazisti. L’occupazione dette un vigore nuovo alle iniziative già in essere e Focherini, grazie anche all’aiuto di don Dante Sala, anch’egli modenese, si espose coscientemente a rischi immani per poter inviare in Svizzera, grazie ad una catena di amici fidati, decine di uomini, donne e bambini altrimenti destinati al sistema concentrazionario hitleriano. Bene fa l’autore a mettere in luce la “normalità” di Focherini, che nulla aveva di diverso o di speciale rispetto ai tanti che preferirono voltarsi dall’altra parte per non vedere i vagoni piombati destinati alla Germania. Unica cosa che ci appare davvero superiore è una fede cristiana solida, rocciosa, concreta, che sorresse il giovane dirigente di AC anche dopo la cattura, la prigione e la deportazione, prima a Bolzano e successivamente a Hersberuck, dove troverà la morte assieme ad un altro esemplare esponente della resistenza cattolica, il comandante partigiano Teresio Olivelli. Di Focherini, su cui finalmente si è posata la luce della storia, restano le commoventi lettere alla famiglia, il ricordo grato dei tanti che a lui dovettero la vita, il posto, conquistato a pieno titolo, di “giusto fra le nazioni” e oggi – finalmente – anche l’onore degli altari, visto che il processo di beatificazione diocesano si è concluso positivamente all’inizio di questo 2012.

Preti dimenticati
Carlo Costantini, Ricordo di don Morosini fra storia e memoria, Frosinone, ANPC, 2010

Questo agile testo non è opera di uno storico di professione, ma ha il pregio di raccogliere riflessioni, testimonianze e fotografie di don Giuseppe Morosini, morto fucilato a trent’anni sugli spalti di forte Bravetta a Roma, dopo aver contribuito in modo fattivo e concreto alla nascita e allo sviluppo della Resistenza nella capitale. Per meglio comprendere quanto, ancora oggi, ci sia da studiare e da ricercare su questa figura storica, è sufficiente un laconico commento di Mario Ferrari Aggradi, il quale commemorò nel 1994 il cinquantenario della morte: “… al di fuori di Ferentino, dove don Morosini è nato, pochi sanno della straordinaria vicenda di questo sacerdote. E molti lo conoscono unicamente perché fu a lui che si ispirò Roberto Rossellini nel disegnare la figura del sacerdote impegnato nella lotta clandestina in Roma città aperta…”. Effettivamente, nello scorrere le pagine che raccolgono il succedersi degli interventi delle autorità durante le commemorazioni che si sono succedute negli ultimi cinquant’anni, emerge soprattutto una memoria locale densa di affetto e devozione, e una disattenzione generalizzata per “il prete che ispirò Aldo Fabrizi”: nessuna monografia scientifica, pochi saggi, e molta sciatteria, come quella del cronista che alcuni anni fa sbagliò il nome di nascita, chiamandolo “Francesco”, confondendolo con un doge della Serenissima repubblica di Venezia; eppure molto ci sarebbe ancora da cercare e da studiare: don Morosini fu compositore e musicista, cappellano militare nella Jugoslavia occupata dal regio esercito, scrittore e poeta. Purtroppo sembra che fuori dalla Ciociaria poco o nulla di tutto questo abbia destato l’attenzione degli storici. Allo stato attuale non sappiamo nemmeno con certezza da chi era composto il plotone di esecuzione che lo freddò il 3 aprile 1944. Forse perché a nessuno piace essere ricordato come fucilatore di preti, nebbia fitta grava su chi si schierò alle spalle di don Giuseppe; nelle memorie riportate in conclusione al volume si raccolgono narrazioni divergenti o contrastanti: militi della Polizia dell’Africa Italiana (PAI) e un ufficiale nazista che dette il colpo di grazia (immagine autoconsolatoria, che ritroviamo pari pari nel film di Rossellini), oppure, più probabilmente, come narra monsignor Luigi Traglia che accompagnò il sacerdote fino alla fine, un drappello della Guardia di Finanza, che sparò malamente, lasciando morente don Morosini, che fu poi finito con una raffica di mitra alla schiena, sparata a bruciapelo. Immagine assai più cruda, che forse, per una forma di pudica autocensura, si fatica a rinvenire nei rari scritti riguardanti questo sacerdote. Confidiamo che la riscoperta di “altre resistenze” possa condurre qualche studioso a togliere un po’ di polvere dai faldoni degli archivi romani, per dirci qualcosa di più e di meglio su questo “prete ribelle” che ci appare sempre sorridente nelle belle e inedite fotografie familiari che corredano il testo di Costantini.

La bianca primavera…
Sergio Giliotti, La seconda Julia nella Resistenza, Reggio Emilia, Diabasis, 2011

E’ davvero un libro “necessario” questo di Sergio Giliotti, vicepresidente nazionale dell’associazione partigiani cristiani, il quale ha raccolto in un volume ben scritto e documentato, la sua esperienza di giovane partigiano cattolico sulla montagna parmense. Un testo nel quale troviamo fatti e personaggi purtroppo spesso passati in secondo piano nelle opere dedicate alla resistenza emiliana. Prima di tutto (e questo davvero colpisce) i preti: tanti sacerdoti che nei paesi dell’Appennino dettero rifugio, ristoro, affetto, cure ai patrioti, senza badare al colore politico, che comunque, in quest’area, era tutto fuorché rosso. Preti che furono anche comandanti di formazioni partigiane, come don Guido Anelli e don Giuseppe Cavalli, che si esposero in prima persona nella lotta all’occupante, fino al termine delle ostilità. Altrove su questi nomi si trovano, quando va bene, accenni vaghi e inconcludenti e il silenzio. D’altronde gli studiosi “embedded” del PCI probabilmente avrebbero accettato malvolentieri di inserire nei propri testi le parole con cui don Cavalli bollava alle violenze avvenute a guerra finita come “… veri e propri insulti contro quegli stessi valori di libertà e democrazia per i quali erano insorti gli italiani…” Altro aspetto che emerge prepotentemente nell’autobiografia di Giliotti sono le frizioni, prima tollerate e poi apertamente denunciate con le formazioni di ispirazioni comunista, tanto minoritarie nelle montagne a cavallo di Parma e La Spezia, quanto burbanti e ostili negli atteggiamenti. Constatata l’incapacità di prendere la guida della resistenza in questa parte dell’Appennino, il partito comunista nei primi mesi del 1945 fece tentativi prima diplomatici ed in seguito prepotenti di imporre propri uomini come commissari politici o come comandanti di reparti che mantenevano una autonomia orgogliosa ed evidentemente intollerabile per i progetti politici postbellici. Tutto questo porterà, alla vigilia dell’insurrezione ad un aspro scontro al vertice della divisione “Val Taro”, di cui le brigate “Julia” (prima e seconda) facevano parte, scontro per fortuna incruento, che lascerà però strascichi fin dopo la fine delle ostilità. Negare tutto questo, in nome di una unità solo fittizia, è per chi scrive uno dei peccati originali della storiografia resistenziale. E fu rimedio ancora peggiore il cercare l’uniformità con il resto della regione rossa per antonomasia, definendo ex post “Garibaldi” molte delle formazioni che facevano capo alla divisione “Val Taro”, soluzione incredibile e grottesca che Giliotti sottolinea, impietosamente, nel suo volume. I partigiani della brigata “Julia” facevano il saluto militare e non il pugno chiuso, prendevano messa alla domenica e andavano all’assalto dei tedeschi gridando a squarciagola “savoia”! Grazie al partigiano “sparviero” Giliotti per avercelo ricordato ancora una volta.

sabato 25 febbraio 2012

Geografie della storia

Narrare l’inenarrabile
Carlo Saletti, Frediano Sessi, Visitare Auschwitz, Venezia, Marsilio, 2011

La scopo che si pongono gli autori è tutt’altro che banale: Il sito che fu il fulcro del sistema eliminazionista del III Reich, può essere oggetto di una guida per i visitatori? In realtà, a leggere questo volume sintetico, ma allo stesso tempo approfondito con scrupolo e aggiornato con le più recenti acquisizioni storiografiche, la risposta è senz’altro positiva. Anzi, ci si permetta di aggiungere che questo supporto dovrebbe essere praticamente obbligatorio per chiunque abbia intenzione di intraprendere la visita del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e del gigantesco apparato dedicato allo sfruttamento di manodopera schiava creato dalle SS.
Saletti e Sessi ci guidano con indagini dettagliate attraverso la storia e la geografia del luogo, tramite itinerari in cui si ricostruiscono le vicende di ogni singola sezione del campo e delle località satelliti in cui si era sviluppata, con rapidità e spietata efficienza, l’industria della morte. Seguendo l’itinerario proposto, ci si avvede come, senza una adeguata preparazione storico-scientifica, il visitatore rischia realmente di capire poco o nulla di quello che effettivamente vede, lasciandosi probabilmente prendere dalle suggestioni e dalle emozioni del luogo. E di storia, anzi, di storie, il volume è veramente denso: l’accurata cronologia dei fatti relativi al periodo 1940-45; le storie dei deportati razziali e politici; le storie del “dopo” necessarie per comprendere come Auschwitz, per la sovrapposizione di vicende che ha tragicamente ospitato, ha tutt’oggi memorie conflittuali per motivi politici, religiosi, sociali e filosofici; la “storia delle storie” del campo della morte, ossia l’evoluzione delle indagini sull’argomento e le relative ramificazioni benigne e maligne (un’ampia sezione è dedicata alle teorie negazioniste); la “storia dei racconti” di Auschwitz, le memorie di chi attraversò il cancello con la scritta Arbeit macht frei; la “storia dei memoriali nazionali”, complessa all’inverosimile, in quanto specchio delle memorie divise del luogo e delle evoluzioni politiche e culturali di tutti gli stati europei e infine la “storia dell’arte” di Auschwitz: come cinema, teatro, musica, poesia, pittura e scultura hanno rappresentato il fondo più nero del ‘900.
Resta, a parer nostro, un “buco” in questo eccellente volume, un vacuum che crediamo sia stato senz’altro voluto dagli autori, cioè l’indagine su chi frequenta oggi questa parte della Polonia per compiere un pellegrinaggio della memoria, ossia soprattutto insegnanti e relative scolaresche. La risposta in parte viene offerta a p. 77, nella non lieta riflessione del filosofo Alain Finkielkraut: “… l’apprendimento di qualcosa ad Auschwitz richiede una conoscenza e una capacità di concentrazione che non sono alla portata dei ragazzi (…) i quali, in inverno, hanno soprattutto la tentazione di fare a palle di neve …” magari dopo aver pianto la lacrimuccia di rito, aggiungiamo noi. Ora, se un diciottenne può avere molte attenuanti per le lacune nelle conoscenze di vicende che pure riguardarono la generazione dei nonni, nella lista di chi va nei pressi dei reticolati guardando l’orologio (o cercando l’inquadratura giusta per la foto di gruppo) occorre inserire molti insegnanti, privi, colpevolmente, anche di un minimo “Bignami” di cosa fu la Shoah.
Non nascondiamoci dietro a un dito: tutti noi che abbiamo avuto a che fare con i docenti delle scuole superiori, magari per svolgere lezioni o seminari su questo tema, ci siamo imbattuti con disarmante frequenza in personale dalle conoscenze fortemente deficitarie sull’argomento (e sulla storia del ‘900 in generale). Pensare che Auschwitz si possa affrontare solo con la buona volontà è invece, a parere degli autori, del tutto sbagliato se non controproducente dal punto di vista pedagogico e civile. E’una opinione che condividiamo appieno.

Winter Line
Vito Paticchia, Marco Boglione, Sulle tracce della Linea Gotica, Cuneo, Fusta, 2011

La guerra in Italia ha lasciato tracce visibili praticamente ovunque, da Cassino fino alle fortificazioni iniziate e non completate della “Linea Blu”, che doveva essere l’ultima trincea difensiva nazista nel nostro paese. Eppure, sino ad oggi, salvo alcuni memoriali sorti soprattutto per la buona volontà di amministrazioni locali, non esiste – a differenza di quanto accade ormai da decenni per i camminamenti della prima guerra mondiale sull’arco alpino – un itinerario storico-geografico che segua il percorso del fronte nell’ultimo fronte di guerra in Italia, la cosiddetta “Linea Gotica” o “Winter Line”.
Lo scopo degli autori, tramite una accurata ricostruzione degli eventi e della planimetria dei luoghi dove avvennero gli episodi salienti del durissimo inverno 1944-45 è appunto quello di creare un filo conduttore anche per questo scenario di guerra. Seguendo da ovest a est la traccia costituita da località, postazioni difensive, trincee, monumenti, piccoli musei, raccolte private, istituti di ricerca storica, Paticchia e Boglione riescono a creare una continuità tra i vari frammenti di un “puzzle” altrimenti sparpagliato su centinaia di chilometri dalle caratteristiche totalmente diverse: le vette delle alpi Apuane, l’Appennino modenese e bolognese, i “gessi” delle colline imolesi, i fiumi della pianura romagnola sino al mare adriatico. Con una certa bravura, e sia pure con la necessità di sintetizzare fatti e situazioni fra loro anche molto diverse (il fronte restò fermo in Garfagnana per oltre sei mesi, mentre in Romagna la precaria linea difensiva germanica sul torrente Senio riuscì a trattenere gli Alleati solo da metà gennaio ai primi di aprile 1945), gli autori riescono finalmente a dare una visione d’insieme ad un teatro di guerra di proporzioni ragguardevoli, che tutt’oggi ha lasciato tracce ben visibili sul territorio.
Il volume è benvenuto anche perché la letteratura storico-militare anglo-americana, ha da sempre considerato il fronte italiano una sorta di “side-show”, rispetto alle vicende della Normandia, di Arnhem o Remagen: solo a considerare le pubblicazioni della prolifica casa editrice Osprey, specializzata nella ricostruzione minuziosa di eventi bellici, a fronte di una dozzina di titoli inerenti singole battaglie del fronte occidentale (tre volumi soltanto sull’offensiva delle Ardenne suddivisa in sotto-settori di dieci chilometri ciascuno!) non si rinviene un singolo studio sulla Linea Gotica o sui fatti salienti ivi avvenuti: non una parola, ad esempio, sull’assalto della 10° divisione da montagna americana ai monti della Riva, che pure rappresentò un episodio praticamente unico di guerra di montagna in Europa, o sulla fallimentare operazione anfibia per conquistare l’Argenta Gap, che costò centinaia di morti ai britannici a meno di una settimana dalla fine delle ostilità.
L’unico rilievo che ci permettiamo di fare agli autori riguarda la situazione delle difese costiere del basso ferrarese e dell’importanza del castello estense di Mesola come centro di coordinamento tedesco per quel settore, dove erano attesi possibili sbarchi alleati. Chi scrive, assieme a Davide Guarnieri, ha svolto ricerche approfondite e dettagliate su quel centro che ospitava una sezione del controspionaggio della Wehrmacht, pubblicate un paio di anni fa nel volume collettaneo “Il libro dei deportati” (2° tomo, Milano, Mursia, 2010): purtroppo nel volume si ignorano completamente i risultati del lavoro, che forse avrebbero illuminato maggiormente anche questa poco conosciuta parte della linea difensiva germanica.

Tra Brescia e Salò
Lodovico Galli, Relazioni e appunti della Repubblica sociale italiana, Arco, Tipolitografia grafica, 2012

Nel leggere questo nuovo e puntuale stato di avanzamento degli studi locali di Lodovico Galli sulla RSI nel Bresciano, viene da pensare che la definizione di “Repubblica di Salò” così vituperata da reduci e nostalgici, in fondo aveva una sua ragione d’essere. La RSI, da quanto si osserva sfogliando le sempre interessanti spigolature dello studioso lombardo, fu effettivamente una entità vitale e tangibile soprattutto nel “piccolo mondo” situato nel triangolo Brescia-Desenzano-Gargnano e negli immediati dintorni.
In questa modesta geografia si svolsero itinerari tragici che andarono a toccare le vicende di militari, civili e autorità locali nel biennio 1943-45 e che trovano spazio e approfondimenti in questo interessante volume: le polemiche e i sotterfugi interni alla breve e cruenta esistenza del PFR, le denunce anonime dirette ai vertici dell’esercito di Graziani, i doppi giochi a cavallo fra fascismo e antifascismo, le corrispondenze sconcertanti (su tutte lo scambio di lettere fra Carolina Ciano e Benito Mussolini della primavera 1944) e le biografie non sempre lineari di molti che in gioventù militarono in camicia nera per poi percorrere traiettorie del tutto diverse nel dopoguerra; tutti temi che dovrebbero far riflettere soprattutto su quanto sia inutile e scarsamente produttivo per gli storici il tirare una riga e poi posizionare i buoni e i cattivi. Galli ad esempio, torna nuovamente sul tema degli “ospiti di lusso” dell’albergo Gnutti di Lumezzane, dove una mezza dozzina di alti gradi dell’esercito regio fatti prigionieri dai tedeschi, furono lasciati in custodia alla polizia della RSI e godettero di attenzioni tutt’altro che malevole per tutti i venti mesi di Salò.
Esemplare su tutte ci è parsa poi la vicenda della infinita gestazione del monumento alle vittime civili dei bombardamenti aerei su Brescia, inaugurato a gennaio 2011 e ulteriore testimonianza di un passato che non passa, di parole che sono parse indicibili se non fastidiose per decenni, nonostante il largo tributo di morte e distruzione causato delle incursioni angloamericane. Eppure la città di Darmstadt, come dimostra Galli tramite il suo carteggio col borgomastro del capoluogo tedesco, gemellato da mezzo secolo con Brescia senza che nessun assessore alla cultura avesse toccato l’argomento, subì un catastrofico bombardamento il 12 settembre 1944, che sfregiò per sempre il centro storico provocando migliaia di morti, sepolti in una fossa comune, oggi segnalata da un monumento-memoriale eretto senza bisogno di inutili e penosi dibattiti politici.
Siamo quindi grati a Lodovico Galli per questa sua nuova e scrupolosa indagine, e ci auguriamo che presto possano giungere ulteriori tasselli da aggiungere al mosaico delle piccole storie indispensabili per capire la “grande” storia.