Luciano Trincia, L’odore del novecento, Roma, Gangemi, 2011
Che “odore” può avere un secolo? Perché il secolo passato – indubbiamente – ebbe una precisa identificazione olfattiva, che, da quanto emerge da questa bella raccolta di testimonianze, scritti editi e inediti, fotografie, coordinate dall’abile mano di Luciano Trincia, fu sostanzialmente quella del sudore. Il sudore dell’affermazione, prima stentata, poi sempre più evidente, di una classe media che si era iniziata a formare nelle trincee del Carso, si era poi adattata al totalitarismo mussoliniano, aveva fatto del sudore (assieme purtroppo a “lacrime e sangue”) la cifra distintiva della partecipazione al secondo conflitto mondiale, sino poi ad affermarsi nella repubblica democratica del dopoguerra. E’ attraverso le storie individuali e collettive di questo affresco che la fatica collettiva di una nazione emerge con chiarezza; una società rurale che diviene inurbata; un mondo agricolo che diventa industriale; una classe emergente che si afferma come spina dorsale di una nazione. Tutto ciò non in modo indolore e senza contraddizioni. Quale fu la reale partecipazione della gente comune ai riti collettivi del fascismo? E quale il grado di consenso? Allo stesso modo quale fu il livello di coinvolgimento nelle vicende belliche della guerra in casa, fra il 1943 ed il 1945? Il “popolo alla macchia” era veramente tale, oppure c’era soprattutto la volontà disperata di sopravvivere per vedere e vivere tempi migliori? E nel dopoguerra, quanta e quale fu l’approvazione (o la disapprovazione) popolare alla lunga stagione democristiana, di cui il boom economico fu la parte mediana di una traiettoria prima ascendente e poi discendente, sino agli anni del terrorismo e del riflusso? Queste domande, che non ci paiono oziose, restano tutte aperte e suscettibili di ulteriori apporti di ricerca e studio; ciò che pare emergere tra lettere, carteggi e documentazione inedita, è una nozione a cui gli storici dovrebbero sempre fare riferimento: le interpretazioni “ex post” sono uno sterile esercizio ideologico. I giovani che nel 1915 partono con rassegnazione verso il grande macello collettivo dell’Isonzo, nulla sanno di ciò che li avrebbe inghiottiti; la serena assuefazione al duce che tutto vede e sa, lascia poco spazio alle possibili conseguenze catastrofiche della dittatura mussoliniana; e non diversamente, il consenso postbellico per il governo cattolico e popolare appare davvero ampio e trasversale a tutte le classi, almeno sino alla generale crisi valoriale e generazionale del post 1968.
Siamo grati all’autore per questa rassegna, che apre nuove strade per indirizzare le indagini su un secolo che resta ancora in gran parte da spolverare da interpretazioni che con il “naso” di oggi, hanno talvolta l’odore della muffa …
Patrioti e assassini
Cristopher Hale, I carnefici stranieri di Hitler, Milano, Garzanti, 2012
L’opera di Hale è un lavoro di insieme importante per indagare sulle pulsioni del collaborazionismo europeo, specie per quanto concerne le forme di nazismo/nazionalismo balcaniche, baltiche e centro europee; basata su una bibliografia davvero imponente, e dall’analisi di testimonianze e documenti inediti o poco conosciuti, l’ipotesi – a parer nostro convincente – dello studioso britannico è che l’adesione convinta di tanti giovani europei alle SS nella “crociata contro il bolscevismo” (e soprattutto contro gli ebrei) fu il frutto di un gioco di inganni, in cui ognuna delle parti in causa cercava in qualche modo di interpretare il non detto a proprio vantaggio. Hale dimostra in modo chiaro come le maniacali convinzioni razziste di Heinrich Himmler fossero ben lungi dall’essere uno specchio per le allodole con cui arruolare volontari a scapito della Wehrmacht; anzi, la vicenda dei galiziani o dei musulmani bosniaci arruolati nelle formazioni dalle mostrine nere dimostra invece ad abundantiam quanto fosse importante per il lunatico criminale nazista recuperare ogni goccia di sangue ariano ovunque fosse presente in Europa; dall’altra parte i lettoni come i croati o gli slovacchi, furono disponibili a un patto mefistofelico in cui, in nome della (presunta) indipendenza nazionale, si accettava di diventare pedine nel massacro sistematico degli ebrei europei, missione genocida che peraltro venne poco sollecitata ed entusiasticamente messa in pratica quasi ovunque dal Baltico all’Adriatico. Più basata su pratici interessi di bottega fu la collaborazione nell’Europa nord-occidentale, dove le SS trovarono convinte adesioni da parte di partiti che non avevano ambizioni maggiori che divenire i vassalli del nuovo ordine in Francia come in Belgio o in Olanda (debole ci pare invece l’analisi sulle SS italiane, che furono fenomeno minoritario nella collaborazione della RSI). Il “non detto” qui riguardava il livello di indipendenza che queste nazioni avrebbero avuto nell’eventualità dell’instaurazione del Reich millenario a guerra finita, tema comunque di scarso interesse per i Quisling o i Degrelle, i quali pensavano soprattutto al proprio personale tornaconto. Di interesse rilevante ci pare poi l’indagine sul frammentario mondo delle Waffen SS europee; dietro alle oleografie di una certa storiografia nostalgica, in cui si è cercato in ogni modo di dividere le responsabilità dell’Olocausto da quelle dell’esercito dei combattenti di Himmler, quello che emerge dalla ricerca di Hale è invece una piena, convinta e feroce partecipazione delle formazioni con le rune sulle mostrine nere ai pogrom o alle fucilazioni di massa. Le Waffen SS non solo sapevano ma partecipavano senza difficoltà alle sanguinarie Judenaktion perché il credo antisemita era nel DNA dei volontari francesi come di quelli olandesi o fiamminghi. La pietà era un sentimento del tutto sconosciuto, mentre la brutalità era diffusa senza tregua, a tutti i livelli. Può sembrare paradossale, ma in realtà non sorprende come le divisioni SS fossero assieme un elìte di soldati coraggiosi e fanatici, e un coacervo di assassini votati a una causa genocida. Un SS danese che, commentando l’uccisione a freddo di un anziano ebreo polacco da parte di un suo commilitone, scrive sul suo diario ...lo sporco giudeo ha avuto il fatto suo..., dimostra a volumi quanto queste truppe fossero davvero una “Armee der Geächteten“, un esercito di canaglie, secondo la definizione del generale SS Felix Steiner.
Storie private
Luigi Ganapini, ,Voci della guerra civile, Bologna, Il Mulino, 2012
L’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano è una poco esplorata fonte di studio per i ricercatori del novecento; Ganapini, in questo prezioso lavoro di cucitura fra storie assai diverse fra loro, ma tutte legate al doloroso transito della guerra in casa fra il 1943 e il 1945, evidenzia invece quanto ancora risulti inedita la “piccola storia” di coloro che furono gli attori dei grandi eventi di quel biennio. Suddiviso per temi ed attori (i deportati politici, i fascisti, i partigiani, la gente comune ..), il volume ci fa respirare l’aria dolorosa e acre di un tempo lontano, ma che ha riverberi anche sul presente, non fosse altro perché diversi narratori sono ancora viventi, e molte storie sono state raccontate “ex post”, quindi col beneficio di una riflessione a distanza di mesi o anni dai fatti in questione. Difficile trovare un tratto comune a tutte le vicende, se non quello che – come spesso accade – chi descrive in diretta i fatti, molto spesso non immagina le conseguenze immediate e future di quanto osserva; la caduta del fascismo, solo per citare un caso fra i tanti, è in modo praticamente unanime (quindi anche per i fascisti stessi) vista come la definitiva conclusione dell’esperienza politica di Benito Mussolini; allo stesso modo, l’armistizio dell’8 settembre 1943 è quasi sempre descritto come una giornata se non di festa, di sollievo per la fine delle ostilità; non diversamente, il 25 aprile 1945 è tutt’altro che un giorno da campane a stormo, perché tutti o quasi i narratori sono ancora invischiati nelle vicende belliche, almeno sino alla fine del mese o oltre (fatto salvo, ovviamente, quelli delle regioni già liberate, Toscana su tutte, vista l’abbondante presenza di materiale diaristico di quest’area). Anche in ciascuna delle posizioni in cui vengono a trovarsi i vari narratori si possono trovare incongruenze: se l’ausiliaria fascista a Torino vive la liberazione come il collasso definitivo e traumatico del mondo a cui è appartenuta sino a quel momento, l’alpino entrato nella divisione “Monterosa” della RSI conclude la sua naja nelle formazioni partigiane, come se fosse la cosa più naturale e normale del servizio militare; ci sono civili che esultano per la liberazione, ed altri che, assai meno esultanti, devono subire le miserie e l’avvilimento del “dopo”; ci sono internati militari che fino quasi a maggio 1945 restano sotto il giogo nazista, ed altri che in qualche modo riescono ad anticipare il proprio rientro a casa.
Secondo il punto di vista di chi scrive queste note, l’appassionato lavoro di Ganapini conferma una visione della storia che già faceva parte del proprio patrimonio di ricercatore, ossia: se una vicenda presenta aspetti complessi, è operazione deontologicamente scorretta ridurne a colpi d’accetta gli snodi più controversi per aver del materiale malleabile da usare per dimostrare la proprie tesi. Se dei fatti sono complessi, molte volte occorre rassegnarsi a descriverne la complessità, rinunciando a forzare la mano per ottenere il risultato desiderato. Anche di questo siamo grati all’autore, specie per la sensibilità con cui si è avvicinato a storie dolorose e talvolta lancinanti.
Leggi “ad personam”?
Maurizio Rizzo Striano, Processo ai Partigiani, Ferrara, Corbo, 2012
Il volume di Rizzo Striano ha un peccato originale imperdonabile: un titolo indecoroso e inadeguato, probabilmente imposto dalla casa editrice, che praticamente nulla ha a che vedere con l’argomento dello studio; l’autore è il figlio di Domenico Rizzo, deputato comunista, che fu lo storico difensore di quasi tutti i partigiani processati nel dopoguerra a causa degli eccessi avvenuti dopo la liberazione. Maurizio Rizzo Striano, avvocato a sua volta, rende disponibili ai lettori decine di documenti inediti inerenti queste vicende giudiziarie, senza pretese di storico o di giudice; di questo ne siamo grati anche perché la vicenda di cui il corposo volume è tutt’altro che sedimentata nella memoria del nostro paese. La lettura della ricerca andrebbe, se non imposta, almeno consigliata a tutti coloro che sono rimasti indignati dagli esiti dell’amnistia voluta da Palmiro Togliatti nel 1946, che consentì a molti aguzzini fascisti di non scontare il dovuto grazie alla depenalizzazione di tutto ciò che non entrasse nelle definizione sevizie particolarmente efferate. L’altro lato della medaglia (altrettanto indecente), di cui assai meno si è discusso sino ad oggi in sede storiografica, è l’impunità offerta ai rei di colore politico opposto, purchè potessero dimostrare di aver commesso fatti di sangue in qualche modo riconducibili alla guerra di liberazione, il cui termine ultimo veniva protratto, incredibilmente, fino al 31 luglio 1945. Ora, con gli occhi dello studioso contemporaneo, non c’è dubbio che tale perentoria scadenza, del tutto arbitraria ed abnorme (tre mesi oltre la fine delle ostilità, anche considerando il 2 maggio 1945 come la fine ufficiale della guerra in Italia) permise a molti ex partigiani dal grilletto facile di “sfangarla”, restando con la fedina penale immacolata. Di questi, purtroppo, c’è solo minima traccia nel volume, che invece incentra la propria indagine su un’altra categoria, ossia di coloro che cercarono, sotto le vestigia della “guerra patriottica”, di nascondere omicidi compiuti a scopo di giustizia sommaria, ma più spesso, a causa di rapina, estorsione, vendetta o semplice odio politico.
Specie nell’Emilia e nella Romagna dell’immediato dopoguerra, l’avvocato Domenico Rizzo vide come unica speranza di salvezza dal carcere dei propri assistiti, l’utilizzo del decreto presidenziale 22 giugno 1946, altrimenti noto come “amnistia Togliatti”. Conseguentemente gli imputati di delitti spesso crudeli ed efferati, si presentarono in giudizio rei confessi, descrivendo in modo circostanziato i propri misfatti. Fra i tanti episodi narrati ci pare sconcertante su tutti la vicenda del cosiddetto "fondo Fiorini”, la proprietà del contadino Armando Fiorini in comune di Zola Predosa di Bologna, dove fu scoperto un vero e proprio cimitero clandestino; qui, nel corso di una serie di scavi condotti nel 1948-50, emersero alla rinfusa ossa umane di una decina di persone scomparse per pseudo-motivazioni politiche, o per vendette personali nei mesi successivi alla fine delle ostilità. Gli autori degli omicidi tentarono la via di salvezza processuale avvalendosi delle possibilità dell’amnistia, e quindi confessando in modo pressoché completo circostanze e motivazioni delle uccisioni, senza peraltro ottenere i benefici del provvedimento di legge. Casi come questo lasciano una sensazione di sconcerto e costernazione (viene, fra gli altri, descritto l’intero procedimento penale a carico di Mario Toffanin e degli altri autori della feroce strage di Porzus), in quanto le narrazioni sono tutt’altro che reticenti e gli autori dei fatti di sangue ci appaiono in molti casi spietati e crudeli. In sostanza, si tratta di tutt’altro che un “processo alla Resistenza”, ma di un supporto indispensabile per chiunque sappia distinguere la differenza essenziale che corre fra un patriota e un farabutto e fra un partigiano e un assassino. Confidiamo che molti fra quelli che anche recentemente hanno individuato prove certe di ingiustizie patite da chi combatté nella guerra di liberazione, leggano le atrocità narrate nel volume. Anche perché sono racconti fatti dagli stessi autori dei crimini che avvennero contro civili inermi, o peggio, contro chi era compagno nella lotta ai nazi-fascisti.