lunedì 6 gennaio 2020

Il meglio del 2019


Paolo Graziano, Neopopulismi, Il Mulino, Bologna, 2019

E’ ormai prassi comune utilizzare la definizione “populismo” con accezione negativa nel discorso pubblico e nei media (particolarmente in Italia); eppure non mancherebbero studi sociologici, storici e politologici che dovrebbero quantomeno consigliare maggiore cautela per comprendere un fenomeno diffuso in tutte le maggiori democrazie occidentali, e che ha un successo politico crescente in tutta Europa. Paolo Graziano, in questo agile e denso volume, ci offre non soltanto un quadro delle caratteristiche che distinguono i vari populismi, facendo notare come non esista solo un modello “di destra” (rappresentato da Orban piuttosto che dalla Lega) di questa modalità di rappresentanza politica, ma anche diverse esperienze “di sinistra” (come Podemos o Syriza) che hanno conosciuto e conoscono un notevole sviluppo in tutto il continente. L’autore inoltre riesce a smontare molti dei pregiudizi che ruotano attorno al termine “populismo”, osservando, come si legge nel sottotitolo dello studio, quanto sia probabile la lunga durata, se non la stabilizzazione di questa forma-partito nel presente e nel futuro. Purtroppo lo snodo centrale delle analisi di Graziano, ossia le risposte alla crisi della rappresentanza democratica, sono ancora oggi, soprattutto in Italia, le grandi assenti dal dibattito politico. Più facile offrire al pubblico commenti denigratori, demonizzando a ogni livello un’esperienza che nulla ha a che fare con i totalitarismi del XX secolo, e  che, anzi, ha aumentato ovunque il livello di partecipazione nella politica attiva, spesso anche da parte di molti cittadini che fino a quel momento erano rimasti “alla finestra” non riconoscendosi in alcun partito tradizionale. In tanti fra gli analisti più meno autorevoli che quotidianamente ci propongono analisi sussiegose sul presente e sul futuro del nostro paese, dovrebbero avvicinarsi alla lettura, semplice ed esaustiva, di Graziano. Magari riuscirebbero a uscire da una spirale di retorica sterile per rappresentare, finalmente un quadro veritiero del paese, ammesso che questo sia di qualche interesse per molti narcisi del giornalismo italiano.

Istvan Deak, Europa a processo, Il Mulino, Bologna, 2019

Questo studio di insieme, tanto approfondito quanto di semplice lettura, è stato pubblicato nella nostra lingua con inspiegabile ritardo (l’edizione in lingua inglese è del 2015) e con un titolo che purtroppo non rispecchia il doppio senso dell’originale,  “Europe on trial”, che può significare assieme “Europa a processo” o “L’Europa alla prova”. Deak offre al lettore un saggio di storia comparata che dovrebbe essere tenuto in considerazione da chiunque voglia avvicinarsi a una lettura imparziale dei collaborazionismi europei, della loro ascesa e caduta, e di come la giustizia post bellica ha punito chi aveva creduto, fino alle estreme conseguenze, al nuovo ordine hitleriano. Spesso, anzi quasi sempre, si è giudicato il collaborazionismo italiano come una sorta di evento unico, senza guardare come esperienze simili si svilupparono nel corso dell’occupazione tedesca. Allo stesso modo, poco si è indagato su come le nazioni democratiche (o meno democratiche, o sotto il tallone sovietico) giudicarono nel dopoguerra i fedeli del vangelo nazista. Si scoprono così (finalmente), nuove chiavi di lettura: il nazionalismo anticomunista presente in numerosi stati del centro Europa, che fece giudicare la Wehrmacht un male minore rispetto all’Armata rossa, l’autentico furore antisemita dei seguaci del Fuehrer (e non solo) in Olanda, Belgio e Francia. La confusa sovrapposizione di lotte etniche e movimento antinazista nei Balcani. La giustizia insurrezionale e sommaria fu un tratto distintivo di ogni nazione del continente, prendendo poi una via ideologica al di là della cortina di ferro, fino alla completa dissoluzione di ogni parvenza di movimento democratico, mentre sotto l’ombrello statunitense, la collaborazione divenne col passare degli anni, un peccato veniale, tollerabile e tollerato praticamente ovunque, dalla Danimarca fino all’Italia. Senza contare, come argutamente argomenta Deak, i tanti voltagabbana, fanatici nazisti prima e fanatici comunisti poi, che in Ungheria come in Romania, misero al servizio dei nuovi padroni i loro servizi di poliziotti senza scrupoli. Una lettura illuminante, che finalmente riesce a spostare la messa a fuoco delle analisi sulla cosiddetta “mancata epurazione” italiana, con esperienze analoghe del resto d’Europa.

Giovanni Cecini, I generali di Mussolini, Newton Compton, Roma, 2019

L’autore offre un quadro d’insieme dei vertici delle forze armate fasciste, riunendo le biografie dei maggiori esponenti di esercito, marina e aviazione del periodo fascista; percorsi che in apparenza possono apparire disomogenei, ma che in realtà, a nostro parere, hanno un comune denominatore, ossia l’acquiescenza verso il regime di Mussolini, con uno specchio non troppo ampio di distinzioni. Nel dopoguerra molti degli alti ufficiali le cui storie sono tratteggiate nel volume, hanno cercato in ogni modo di scrollarsi di dosso l’etichetta del “generale fascista”: da Pietro Badoglio a Giovanni Messe, passando da Federico Baistrocchi al “repubblichino” Rodolfo Graziani, nessuno rivendicò la propria piena adesione alle scelte del fascismo, dalle guerre coloniali al catastrofico conflitto mondiale. Salvo i caduti in guerra o coloro che scomparvero prematuramente, tutti, dal 1945 in avanti, aggiustarono le proprie biografie, con memoriali o veri e propri romanzi, per affermare una propria distanza dalle malefatte del ventennio. In realtà, come Cecini descrive “ad abundantiam”, la scelta di Mussolini di investire fin dagli anni ‘20 enormi quantità di denaro pubblico (sperperato poi in mille rivoli, con un micidiale sistema di inefficienze e di corruttele di ogni genere) nelle nostre forze armate, fu una autentica manna dal cielo per chi si trovava ai vertici dell’esercito. Si costruirono dal nulla prodigiose carriere militari per coloro che navigavano attorno al “cerchio magico” del duce, destinate a sciogliersi come neve al sole ai primi seri rovesci successivi al giugno 1940. Non per questo, onestamente, i “generali di Mussolini” erano tutti degli incompetenti; di certo pochi avevano studiato seriamente i modelli emergenti nelle tattiche e nelle strategie delle forze armate del continente, e nessuno, fatto salvo Italo Balbo, aveva toccato con mano il modello statunitense della produzione in serie degli armamenti e della mobilitazione di massa per la macchina bellica. Forse, insomma, nessuno era fascista nel cuore e nell’animo, diversi confidavano in onori e prebende a buon mercato, e solo una ristretta minoranza comprese la follia dell’intervento in guerra, che avrebbe poi segnato la fine del “cursus honorum” di ciascuno dei protagonisti dello studio.

Paolo Morando, Prima di piazza Fontana, Laterza, Bari, 2019

Nel confuso ginepraio del terrorismo nero in Italia, è difficile trovare un bandolo della matassa nel susseguirsi di attentati, stragi, complotti riusciti e mal riusciti, ai danni del popolo italiano e della democrazia. Paolo Morando, in questo pregevole studio, punta le luci sulle “altre bombe”, quelle dimenticate del 25 aprile 1969, esplose in Fiera e alla stazione centrale di Milano, che precedettero di pochi mesi l’eccidio di piazza Fontana. Eppure, paradossalmente, sono le uniche per le quali esistono i colpevoli e sono state acclarate in modo definitivo le responsabilità di Franco Freda, Giovanni Ventura e della cellula veneta del movimento neonazista “Ordine Nuovo”. Certo, non provocarono morti, però il perverso meccanismo fatto di fanatici di destra, burattinai appartenenti alle istituzioni, poco accorti investigatori della polizia, capri espiatori a buon mercato, come gli anarchici del capoluogo lombardo, era già scattato come in una prova generale, stringendo il cappio attorno agli innocenti e facendo sparire le tracce dei veri colpevoli. I nomi che rinveniamo nel volume sono gli stessi che si ritrovano nelle decine di lavori sulla strage della banca nazionale del lavoro: da Pietro Valpreda a Giuseppe Pinelli, da Luigi Calabresi ad Antonino Allegra, oltre ovviamente ai già citati protagonisti del terrore nero. Surreali le udienze ai processi che si celebrarono nei primi anni ’70, nei quali, a differenza di quelli per la strage di piazza Fontana, non si ebbe nemmeno la magra soddisfazione di vedere, al banco degli imputati, gli innocenti di sinistra assieme ai colpevoli di destra. Tutto il castello di menzogne finì per crollare sulla testa di chi aveva letteralmente fabbricato le prove per incastrare gli anarchici, mentre le colpe, quelle vere, furono individuate solo dopo decenni. Unico appunto che si può a fare a questo comunque istruttivo lavoro di indagine, è il tono, forse troppo conciliante, per il mondo dell’estremismo di sinistra, che era tutt’altro che pacifico e innocuo. Così come il modo con cui è tratteggiato l’operato del commissario Luigi Calabresi ci è parso talvolta inutilmente severo e tagliente. Questo a nostro modesto avviso.

Mario Avagliano, Marco Palmieri, Dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2019

Prosegue il meritorio lavoro di rilettura dell’Italia a cavallo fra gli anni quaranta e cinquanta svolto da Avagliano e Palmieri, i quali, tassello dopo tassello, svolgono un meritorio lavoro di divulgazione colta per chiunque voglia avvicinarsi alla storia recente del paese; gli autori si soffermano in questo studio sull’immediato dopoguerra, centrando, a nostro parere, quella che è la chiave di lettura del periodo, ossia la sovrapposizione di storie destinate spesso a incrociarsi e sovrapporsi in modo magmatico. Se un errore, madornale, è stato fatto in passato negli studi sul biennio tra il 1945 e il 1947, è sempre stato quello di cercare una “reductio ad unum” di vicende impossibili da sintetizzare, e che forse andavano viste e valutate singolarmente. Così come era impossibile il dialogo fra i monarchici e i repubblicani, era impervio il rapporto fra il nord reduce dalla guerra civile e il sud che non aveva conosciuto la resistenza, e i reduci della prigionia inglese o francese erano destinati a non capire il sacrificio personale di chi aveva subito l’internamento, militare o politico, nel sistema concentrazionario nazista. Ogni singolo italiano conosceva un dolore familiare diverso da quello degli altri, in una generale incomprensione collettiva mediata in modo assai parziale dalle forze politiche che emergevano sullo scenario di un paese distrutto e diviso. La voglia di giustizia espressa prima sommariamente e poi in maniera sempre più blanda per vie istituzionali nei confronti dei protagonisti dell’ultimo feroce scampolo di fascismo, si scontrava con la volontà diffusa di normalità, se non di vero e proprio divertimento. Lo scontro ideologico fu durissimo, e spesso cruento, ma si ha l’impressione che la reale volontà di fare un “ribaltone” antidemocratico da parte delle sinistre, fosse patrimonio di una fazione motivata, ideologicamente preparata e oggettivamente capace di fare ricorso alle armi per instaurare un regime comunista nel paese, ma conscia di essere minoritaria anche all’interno del mondo operaio e contadino. Tutti, sia pure in modo diverso, volevano guardare avanti, compresi gli ultimi nostalgici di Mussolini e gli orfani del re in esilio dopo il referendum perso (o pareggiato?).