Specializzati nell’antiguerriglia
Federico Ciavattone, Gli specialisti, Mattioli 1885, Parma,
2014
Le storia delle formazioni della
RSI impegnate nella controguerriglia ha avuto un andamento diseguale nella
storiografia scientifica; di alcuni reparti, specie negli ultimi vent’anni,
sono state scritte monografie di notevole spessore ed interesse, mentre di
altre unità è rimasta solo una “leggenda nera”, difficile da sfrondare se non
con accurate ricerche d’archivio. Dei RAU, i Reparti arditi ufficiali dell’esercito
di Graziani sino ad oggi praticamente nulla o quasi si sapeva, così come della
“Squadra x” di cui si scopre l’esistenza solo grazie alle meticolose indagini di
Federico Ciavattone sul processo di evoluzione delle dottrine antiguerriglia
della RSI. Ed è questo, probabilmente, il filone di indagine più interessante
affrontato dall’autore, ossia le modalità con cui lo stato maggiore
dell’esercito di Salò cercò di sviluppare, in modo autonomo sia dagli
occupanti-alleati nazisti, sia dalle formazioni in camicia nera, una propria
strategia della guerra al movimento partigiano nel nord Italia. A leggere le
circolari, le relazioni e le dispense elaborate dagli “specialisti” di Rodolfo
Graziani, si osserva come l’esperienza della lotta al movimento di liberazione
jugoslavo fosse probabilmente l’ispirazione principale, specie per la necessità
di acquisire il maggior numero possibile di informazioni sugli avversari e la
conoscenza minuziosa del territorio. Stupisce invece la totale assenza di
confronto con la Wehrmacht, che sul tema aveva sviluppato una propria dottrina
in continua evoluzione a seconda dei momenti e dei teatri di guerra. I reparti
arditi ufficiali furono il prodotto ultimo di queste analisi: formazioni di non
grandi dimensioni, composte da ufficiali di diverse età e in “esubero” rispetto
alle unità grandi e piccole e ai centri di comando territoriali della RSI
(sulla transumanza di una parte non trascurabile dei quadri dell’esercito dalle
forze armate regie a quelle salotine andrebbe scritto un libro a parte …)
specificamente addestrate a lottare con metodi di “controbanda” grazie alla
rete informativa della Squadra x” che a Torino aveva approntato una centrale
informativa e di spionaggio antipartigiano. L’autore segue con attenzione
nascita, sviluppo e conclusione di questo esperimento, constatando come la
situazione per la repubblica di Mussolini fosse ormai talmente deteriorata da
fare risultare l’influsso dei RAU praticamente nullo nelle vicende militari del
1945, anche se non mancarono isolati successi, contrassegnati perlopiù da
rappresaglie sanguinose sul movimento di liberazione e i suoi fiancheggiatori. Siamo
grati a Ciavattone per aver dimostrato una volta di più come sulla stagione
della guerra civile ci sia ancora molto da conoscere e da scrivere, specie
nell’ambito della storia militare.
La fiamma della vita
Aldo Grandi, Almirante, Sperling&Kupfer, Milano, 2014
A oltre venticinque anni dalla
morte e dopo una mezza dozzina di agiografie, non di rado stucchevoli, Aldo
Grandi ricostruisce la “storia definitiva” del leader indiscusso dell’estrema
destra italiana. L’apparato documentario e bibliografico utilizzato dall’autore
è decisamente notevole, senza sacrificare la lettura, che risulta godibile,
grazie anche ad uno stile disincantato e lontano da pregiudizi ideologici. La
vita di Giorgio Almirante viene ricostruita a partire dall’infanzia,
influenzata fortemente dalla famiglia di provenienza (composta da rinomati
attori teatrali) e da una precoce vocazione giornalistica. L’adesione di
Almirante al regime è forse non subitanea, ma totalizzante, almeno dal momento
in cui poco più che ventenne entra nella redazione de “Il tevere”, periodico
schierato su un intransigentismo non privo di venature razziste; senza dubbio l’aperta
ostilità nei confronti degli ebrei è una delle parti distintive della fede politica
almirantiana, manifestata poi in modo aperto e plateale ne “La difesa della
razza” testata di punta dell’antisemitismo italiano. Allo scoppio della secondo
conflitto mondiale Almirante è un giornalista conosciuto e stimato all’interno
del partito fascista, e le sue corrispondenze dal fronte di africano ne fanno
un inviato di guerra su cui contare per l’adamantina fedeltà agli scopi e ai
fini della guerra mussoliniana. L’armistizio lo coglie alla sprovvista, ma la
sua adesione a quella che chiamerà “l’epopea della patria” (ossia la cupa
repubblica gardesana) è entusiasta e praticamente immediata. Almirante nel giro
di qualche mese diventa il capo di gabinetto del ministro della cultura
popolare Ferdinando Mezzasoma, distinguendosi per il fanatismo oltranzista e
per la sua la sua militanza nella
brigata nera costituita dagli impiegati dei ministeri sfollati a Salò e
dintorni. La fine della guerra coincide con l’inizio della latitanza, anche se,
come sottolinea l’autore, non ci sono mandati di cattura specifici nei
confronti dell’ex giornalista repubblichino. E’ questa forse una delle parti
più interessanti dello studio, perché getta luce sulla gestazione del MSI e
sulla inquieta vita privata del suo segretario, indagata in modo esaustivo e
senza compiacimento letterario. Il seguito, ossia l’incontestata leadership del
maggiore partito politico della destra italiana (anche quando Almirante non fu leader
del movimento sociale, ne restò comunque l’immagine pubblica più conosciuta)
ripercorre sentieri conosciuti, anche se non manca una analisi dettagliata dei
momenti critici, dal ’68 al tentativo di golpe organizzato da Junio Valerio
Borghese, passando attraverso la stagione del terrorismo, nero e rosso. Il
crepuscolo di Giorgio Almirante è, in realtà, la stagione in cui riesce a
gettare con successo le fondamenta del suo progetto politico, ossia lo
“sdoganamento” del post fascismo e la sua integrazione nel sistema partitico
italiano, che sarà realizzata, come noto, dal suo delfino, Gianfranco Fini.
Grandi, autore abile e scrupoloso, rende idealmente l’onore delle armi ad un
uomo di cui apertamente non condivide ne’ idee ne’ appartenenze, ammettendone
comunque la levatura, nella attuale stagione in cui – purtroppo – di politici
memorabili ce ne sono sempre meno.
Quando eravamo fascisti
Mario Avagliano – Marco Palmieri,
Vincere e vinceremo!, Il Mulino, Bologna, 2014
Avagliano e Palmieri proseguono
il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato
nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi
razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire”
degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine
della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco
che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine
di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla
Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella
propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima
parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso
dalla propaganda fascista i temi e la retorica. Il mito del presunto e
progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte
albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori:
i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia
qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante
di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del
1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda
ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro
corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare
entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di
aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di
qualche mese il crollo del regime comunista. Se già in diversi studi
dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani
era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni
contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre
truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa
alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. Se il
1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza
diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra
dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla
campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente
minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di
proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le
motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio
dell’8 settembre. In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela
fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli
italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni
dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere
semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire.
Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per
affrontare il passato. E anche il presente.