lunedì 26 gennaio 2015

Vite in camicia nera

Specializzati nell’antiguerriglia
Federico Ciavattone, Gli specialisti, Mattioli 1885, Parma, 2014

Le storia delle formazioni della RSI impegnate nella controguerriglia ha avuto un andamento diseguale nella storiografia scientifica; di alcuni reparti, specie negli ultimi vent’anni, sono state scritte monografie di notevole spessore ed interesse, mentre di altre unità è rimasta solo una “leggenda nera”, difficile da sfrondare se non con accurate ricerche d’archivio. Dei RAU, i Reparti arditi ufficiali dell’esercito di Graziani sino ad oggi praticamente nulla o quasi si sapeva, così come della “Squadra x” di cui si scopre l’esistenza solo grazie alle meticolose indagini di Federico Ciavattone sul processo di evoluzione delle dottrine antiguerriglia della RSI. Ed è questo, probabilmente, il filone di indagine più interessante affrontato dall’autore, ossia le modalità con cui lo stato maggiore dell’esercito di Salò cercò di sviluppare, in modo autonomo sia dagli occupanti-alleati nazisti, sia dalle formazioni in camicia nera, una propria strategia della guerra al movimento partigiano nel nord Italia. A leggere le circolari, le relazioni e le dispense elaborate dagli “specialisti” di Rodolfo Graziani, si osserva come l’esperienza della lotta al movimento di liberazione jugoslavo fosse probabilmente l’ispirazione principale, specie per la necessità di acquisire il maggior numero possibile di informazioni sugli avversari e la conoscenza minuziosa del territorio. Stupisce invece la totale assenza di confronto con la Wehrmacht, che sul tema aveva sviluppato una propria dottrina in continua evoluzione a seconda dei momenti e dei teatri di guerra. I reparti arditi ufficiali furono il prodotto ultimo di queste analisi: formazioni di non grandi dimensioni, composte da ufficiali di diverse età e in “esubero” rispetto alle unità grandi e piccole e ai centri di comando territoriali della RSI (sulla transumanza di una parte non trascurabile dei quadri dell’esercito dalle forze armate regie a quelle salotine andrebbe scritto un libro a parte …) specificamente addestrate a lottare con metodi di “controbanda” grazie alla rete informativa della Squadra x” che a Torino aveva approntato una centrale informativa e di spionaggio antipartigiano. L’autore segue con attenzione nascita, sviluppo e conclusione di questo esperimento, constatando come la situazione per la repubblica di Mussolini fosse ormai talmente deteriorata da fare risultare l’influsso dei RAU praticamente nullo nelle vicende militari del 1945, anche se non mancarono isolati successi, contrassegnati perlopiù da rappresaglie sanguinose sul movimento di liberazione e i suoi fiancheggiatori. Siamo grati a Ciavattone per aver dimostrato una volta di più come sulla stagione della guerra civile ci sia ancora molto da conoscere e da scrivere, specie nell’ambito della storia militare.

La fiamma della vita
Aldo Grandi, Almirante, Sperling&Kupfer, Milano, 2014

A oltre venticinque anni dalla morte e dopo una mezza dozzina di agiografie, non di rado stucchevoli, Aldo Grandi ricostruisce la “storia definitiva” del leader indiscusso dell’estrema destra italiana. L’apparato documentario e bibliografico utilizzato dall’autore è decisamente notevole, senza sacrificare la lettura, che risulta godibile, grazie anche ad uno stile disincantato e lontano da pregiudizi ideologici. La vita di Giorgio Almirante viene ricostruita a partire dall’infanzia, influenzata fortemente dalla famiglia di provenienza (composta da rinomati attori teatrali) e da una precoce vocazione giornalistica. L’adesione di Almirante al regime è forse non subitanea, ma totalizzante, almeno dal momento in cui poco più che ventenne entra nella redazione de “Il tevere”, periodico schierato su un intransigentismo non privo di venature razziste; senza dubbio l’aperta ostilità nei confronti degli ebrei è una delle parti distintive della fede politica almirantiana, manifestata poi in modo aperto e plateale ne “La difesa della razza” testata di punta dell’antisemitismo italiano. Allo scoppio della secondo conflitto mondiale Almirante è un giornalista conosciuto e stimato all’interno del partito fascista, e le sue corrispondenze dal fronte di africano ne fanno un inviato di guerra su cui contare per l’adamantina fedeltà agli scopi e ai fini della guerra mussoliniana. L’armistizio lo coglie alla sprovvista, ma la sua adesione a quella che chiamerà “l’epopea della patria” (ossia la cupa repubblica gardesana) è entusiasta e praticamente immediata. Almirante nel giro di qualche mese diventa il capo di gabinetto del ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma, distinguendosi per il fanatismo oltranzista e per la sua  la sua militanza nella brigata nera costituita dagli impiegati dei ministeri sfollati a Salò e dintorni. La fine della guerra coincide con l’inizio della latitanza, anche se, come sottolinea l’autore, non ci sono mandati di cattura specifici nei confronti dell’ex giornalista repubblichino. E’ questa forse una delle parti più interessanti dello studio, perché getta luce sulla gestazione del MSI e sulla inquieta vita privata del suo segretario, indagata in modo esaustivo e senza compiacimento letterario. Il seguito, ossia l’incontestata leadership del maggiore partito politico della destra italiana (anche quando Almirante non fu leader del movimento sociale, ne restò comunque l’immagine pubblica più conosciuta) ripercorre sentieri conosciuti, anche se non manca una analisi dettagliata dei momenti critici, dal ’68 al tentativo di golpe organizzato da Junio Valerio Borghese, passando attraverso la stagione del terrorismo, nero e rosso. Il crepuscolo di Giorgio Almirante è, in realtà, la stagione in cui riesce a gettare con successo le fondamenta del suo progetto politico, ossia lo “sdoganamento” del post fascismo e la sua integrazione nel sistema partitico italiano, che sarà realizzata, come noto, dal suo delfino, Gianfranco Fini. Grandi, autore abile e scrupoloso, rende idealmente l’onore delle armi ad un uomo di cui apertamente non condivide ne’ idee ne’ appartenenze, ammettendone comunque la levatura, nella attuale stagione in cui – purtroppo – di politici memorabili ce ne sono sempre meno.

Quando eravamo fascisti
Mario Avagliano – Marco Palmieri, Vincere e vinceremo!,  Il Mulino, Bologna, 2014



Avagliano e Palmieri proseguono il lavoro di scavo nella storia dell’Italia fascista, e dopo aver illustrato nel loro precedente studio quanto fossero diffusi e radicati gli stereotipi razzisti nel nostro paese, gettano ora una luce sinistra sul “comune sentire” degli italiani durante il secondo conflitto mondiale, attraverso l’indagine della corrispondenza inviata da tutti i fronti di guerra dal 1940 al 1943. L’affresco che ne emerge è impietoso, fin dal titolo, quel “vincere e vinceremo” con cui decine di migliaia di italiani chiudevano le proprie missive dall’Africa come dalla Russia o dai Balcani; una locuzione che nessuno obbligava a inserire nella propria corrispondenza privata, e che rivela quanto gli italiani in larghissima parte fossero entusiasti dell’entrata in guerra del paese, mutuando spesso dalla propaganda fascista i temi e la retorica. Il mito del presunto e progressivo distacco dal regime mussoliniano fin dai primi rovesci sul fronte albanese e africano, è ampiamente smentito dall’accurata indagine degli autori: i nostri soldati combatterono, soffrirono e morirono non per un Italia qualsivoglia, ma per l’Italia fascista, come emerge da un numero impressionante di lettere; la fede nella vittoria restò inscalfibile almeno fino alla fine del 1942, così come l’adesione totale alle versioni di comodo della propaganda ufficiale: su tutto ci restano impressi gli scritti dei componenti del nostro corpo di spedizione in Unione sovietica, i quali, più che manifestare entusiasmo per sopravvissuti all’inverno russo, parevano realmente convinti di aver assestato durissimi colpi all’armata rossa, tanto da attendere nel giro di qualche mese il crollo del regime comunista. Se già in diversi studi dell’ultimo decennio si era ben compreso che la nostra occupazione nei Balcani era stata tutt’altro che “allegra”, impressionano le narrazioni delle operazioni contro i partigiani di Tito, da cui emerge un abbruttimento morale delle nostre truppe davvero sconcertante; così come lascia sgomenti l’insensibilità diffusa alla sofferenza delle popolazioni civili vittime della nostra brutalità. Se il 1943 è l’anno di svolta delle vicende belliche, i segnali di insofferenza diffusa iniziarono a comparire soltanto dopo la catastrofe nel teatro di guerra dell’Africa settentrionale e – soprattutto – dopo il rientro dei reduci dalla campagna di Russia; comunque, ancora dopo la caduta del regime, una consistente minoranza delle nostre forze armate restava convinta della necessità di proseguire a oltranza la guerra assieme ai nazisti, confermando come le motivazioni di molti dei futuri aderenti alla RSI fossero preesistenti all’armistizio dell’8 settembre. In conclusione, il lavoro di Avagliano e Palmieri si rivela fonte preziosa per arricchire il dibattito storico attorno alla guerra degli italiani, sfrondandolo da versioni oleografiche che, davvero, a settant’anni dalla fine del conflitto non hanno più ragione di esistere; fa riflettere semmai come il mito degli “italiani brava gente” è tuttora duro a morire. Evidentemente l’autoassoluzione collettiva è una delle scorciatoie per affrontare il passato. E anche il presente.