Giustizia di comodo
Marco
de Paolis, Paolo Pezzino , La difficile giustizia, Roma, 2016
Nel
volume si affronta, sia dal punto di vista storiografico che da quello più
strettamente giurisprudenziale la vicenda dei processi relativi ai crimini di
guerra tedeschi in Italia; Paolo Pezzino descrive i procedimenti svoltisi fra
il 1945 e il 1950, mentre il giudice de Paolis analizza la complessa stagione
che ha coinvolto la magistratura militare nel primo decennio degli anni 2000,
ossia dopo il rinvenimento dei fascicoli depositati nel cosiddetto armadio
della vergogna. Nel corso della narrazione, dal contenuto civile notevole sia
nel lato dedicato alla memoria della giustizia post bellica, che in quello sui
processi che videro protagonista la procura militare di La Spezia, emerge
purtroppo un limite frequentemente osservato in molta storiografia più recente,
ossia la mancanza di riflessioni autocritiche. Se da un lato è senz’altro vero
che i procedimenti ai maggiori criminali nazisti si conclusero con pene lievi
sia nel periodo in cui i processi furono condotti da corti militari alleate,
che in quello in cui i giudici appartenevano alla nostra giustizia militare,
dall’altro occorre anche iniziare a dire che i motivi della mitezza non furono
solo di opportunità politica all’interno dell’alleanza atlantica; la verità è
che le indagini condotte dagli alleati furono costellate da imprecisioni e
superficialità, che divennero vera e propria negligenza nel periodo successivo:
prove mancanti, deduzioni errate, scarsa o nulla conoscenza degli organigrammi
delle unità tedesche coinvolte nei massacri e la proverbiale inefficienza del
sistema giudiziario nazionale. Al contrario di Pezzino riteniamo, che la
copertura degli ufficiali nazisti per evitare di dover spedire gli ufficiali
fascisti in Jugoslavia o in Russia a rispondere delle nostre malefatte sia
stata ottenuta senza troppa difficoltà non a causa della guerra fredda, ma per
colpa di una burocrazia elefantiaca che ha facilitato i disegni politici di
allora. Spiace, al riguardo, la citazione ossessiva da parte di entrambi gli
autori della relazione parlamentare di minoranza sui fascicoli depositati a
palazzo Cesi, perché quella di maggioranza annota un dettaglio importante, non
reperito nello studio: l’armadio ella vergogna, in realtà, era una
scaffalatura, ed i fascicoli erano accessibili a chiunque. I magistrati militari
sapevano, ma nulla hanno fatto o detto per una questione ben individuata, sia
pure di passata, dal giudice de Paolis, ossia l’inveterata tendenza di molti
componenti dell’apparato statale a svolgere il minimo contrattuale, ed in molti
casi nemmeno quello. Le reazioni delle procure militari all’arrivo dei
polverosi fascicoli romani sono luminosi esempi di questo atteggiamento:
richieste di ulteriori informazioni, passaggi di carte al rallentatore,
ricerche degli autori materiali condotte in modo talvolta risibile, fino alla
sospirata archiviazione definitiva, che ha consentito alla maggioranza dei
giudici di tornare a occuparsi di marescialli assenti senza permesso, furti
dalle dispense e occultamento di materiale contenuto nei magazzini militari.
Insomma, occorre dire che la parte migliore del volume non è quanto viene
sostenuto o scritto, ma il non scritto e il non detto, dal quale emergono, a
parere nostro, le responsabilità non soltanto dell’ingiustizia sulle stragi, ma
anche di molte altre storture e cattive prassi delle istituzioni repubblicane.
Storie fasciste
Roberto
d’Angeli, Storia del partito fascista
repubblicano, Roma, Castelvecchi, 2016
Nella
produzione letteraria su Salò mancava ancora uno studio che affrontasse in modo
monografico la vicenda del fascismo a partire dal settembre 1943 all’aprile
1945. Il lavoro di d’Angeli ha il pregio di affrontare, senza deviazioni, se
non marginali, l’evoluzione della proposta politica di Mussolini nell’ultimo
scorcio della guerra, evitando le consuete dispersioni sulle vicende militari
successive alla creazione delle brigate nere, ultima (e inevitabile)
palingenesi dello squadrismo. Dalla ricerca, che si avvale di documentazione di
notevole interesse, come il fondo Galmozzi nel quale è raccolto il corpus delle
circolari interne al partito, e di una bibliografia – non recentissima – di
consolidata validità storiografica, emergono alcuni elementi di interesse, fra
i quali due ci paiono decisamente innovativi: la piena e pubblica adesione alla
persecuzione antiebraica e le problematiche annesse alla elefantiaca burocrazia
del PFR, che ereditò interamente la concezione di ente parastatale del proprio
progenitore ante 25 luglio. Sull’antisemitismo viscerale e incondizionato dei
vertici del partito, in teoria, poco ci sarebbe da dire, se non che i reduci
della RSI cercarono in ogni modo di occultare l’inoccultabile; la stampa
dell’epoca, infatti, è ricolma di invettive, quasi sempre firmate, contro gli
israeliti, e alcuni dei più noti propagandisti del regime si spesero senza
sosta per istillare l’odio razziale fra i lettori, peraltro con scarso esito.
Senza alcuna remora, si fecero accenni, nemmeno velati, al destino che
attendeva i deportati dall’Italia: in alcune testate venivano riportate, con
raggelante compiacimento, le cronache degli effetti della persecuzione in altri
paesi europei, soprattutto l’Ungheria e la Slovacchia. Avvicinandosi la fine
del conflitto, l’ossessione per il “complotto giudaico massonico” oltrepassò
l’odio verso il movimento di liberazione o gli alleati occidentali, e i tour
propagandistici antisemiti nei teatri e cinema del nord Italia proseguirono
fino all’aprile del 1945: una ostinazione davvero difficile da oscurare e che
resta una macchia indelebile per gli ultimi epigoni del duce. Meno
imbarazzante, ma pure sempre segno di come gli elementi di continuità con il
passato fossero spesso assai inferiori di quelli di separazione dal vecchio
PNF, è la questione dell’apparato amministrativo del partito; nonostante i
desiderata di Alessandro Pavolini, la trasformazione del fascismo da partito
politico a movimento armato, fu solo un progetto parzialmente realizzato.
Certamente nacquero squadre d’azione prima e brigate poi, ma l’attività
burocratica delle federazioni fasciste e delle istituzioni che erano emanazione
delle stesse (enti assistenziali, giovanili e culturali) rimasero pienamente
attivi, tanto da poter considerare Renato Ricci, ex comandante della guardia
nazionale repubblicana e capo dei balilla della RSI, uno dei pochi uomini di
successo del PFR, visto che gli iscritti alla sua organizzazione erano decine
di migliaia. Il lavoro di d’Angeli risulta meno convincente nella parte
inerente il collasso e la fine del fascismo, specie per quanto riguarda la
confusa vicenda del cosiddetto ridotto della Valtellina, argomento sul quale i
riferimenti utilizzati risultano datati o nettamente superati da studi nuovi,
purtroppo assenti nel testo e in bibliografia. Nel complesso, comunque, la
ricerca appare valida sotto molti punti di vista, e senz’altro innovativa nella
tematica affrontata.
La decima de 'noartri
Massimiliano
Capra Casadio, Storia della X Flottiglia
Mas 1943-45, Milano, Mursia, 2016
Se
dedicare uno studio sulla formazione guidata da Valerio Borghese dal 1943 a
1945, immaginando di poter dire cose nuove può apparire un’idea azzardata,
iniziare l’argomento all’incirca a un terzo del volume (attorno a p. 180 su
460), ci pare imbarazzante. E pur tuttavia è forse l’aspetto meno discutibile
del lavoro, che lascia perplessi fin dalla correzione delle bozze: troviamo
ripetizioni, periodi in cui le parole sono appiccicate fra loro senza
spaziatura, frasi monche, e soprattutto marchiani errori nella citazione di
autori notissimi, come lo storico militare americano Jack Greene che è
continuamente indicato come “Green” e soprattutto il povero Ricciotti Lazzero a
cui viene invertito il nome col cognome. Gli argomenti sono trattati in modo
approssimativo, affastellando ricostruzioni e interpretazioni, con poco
criterio; senza soffermarsi sulla stagione pre armistiziale, che a differenza
di quanto narrato da Capra Casadio, fu tutt’altro che splendida (a fronte di
modesti successi i mezzi d’assalto della flottiglia e i relativi equipaggi
furono decimati in azioni suicide) per la parte dall’armistizio in avanti,
davvero ci si trova a riciclare le cronache reducistiche più datate: non è vero
che Borghese fu lasciato senza ordini, ma scientemente si ammutinò a quelli
ricevuti, e che furono ubbiditi non soltanto dalla flotta della regia marina a
La Spezia, ma anche da alcuni dei suoi stessi uomini; gli accordi con i
tedeschi non furono una scelta obbligata per “l’autonomia”, ma quasi certamente
frutto di intelligenza fra il principe romano e le autorità naziste già in
tempi precedenti alla resa italiana; la possibilità offerta alla X Mas di
arruolare personale di terra fu autorizzata non tanto da Wihlelm
Meendsen-Bohlken, responsabile della marina tedesca in Italia, ma direttamente
dai vertici delle SS e della polizia, in funzione antipartigiana; i battaglioni
restarono autonomi non tanto perche Borghese volle così, ma perché questo era
il progetto di Karl Wolff, inviato di Heinrich Himmler nel nostro paese con
pieni poteri; l’utilizzo al fronte, sporadico e di scarsissimo peso, fu sempre
centellinato dallo stesso generale, senza la cui autorizzazione nessun reparto
poteva uscire dalle caserme; dopo aver rastrellato in mezza Italia, al momento
dell’insurrezione, Borghese invece che essere coi suoi uomini al fronte sul Po,
era a Milano a trattare la propria personale sorte, cosa che gli riuscì
perfettamente, a differenza di decine dei suoi sottoposti, i quali, specie
nella Venezia Giulia, ebbero sorte tutt’altro che benigna; nel dopoguerra e
negli anni ’60, il principe non subì ingiustizie di sorta, anzi, invece di
ringraziare la sua buona stella e le autorità democratiche del nostro paese che
con lui furono di manica assai larga, tanto brigò e fece nell’ambito
dell’estrema destra da essere costretto a fuggire in Spagna dopo l’abortito
golpe del dicembre 1970; qui morì nelle braccia di una entraineuse, conclusione
a suo modo in linea con il personaggio, ma tutt’altro che eroica. Questo è.
Dire e scrivere cose diverse nel 2016, appare risibile. Sapere che questo
lavoro, davvero mediocre, è stato premiato dalla marina militare italiana ci
pare invece stupefacente. E a suo modo grottesco.