mercoledì 22 dicembre 2010

A cavallo della guerra

Il sangue infinito
Giampaolo Pansa, I vinti non dimenticano, Milano, Rizzoli, 2010

Sugli scritti storici di Giampaolo Pansa ci siamo già soffermati in diverse occasioni; si ritiene comunque opportuno riportare anche in questa sede il nostro giudizio sul giornalista monferrino: Pansa, sbeffeggiato, criticato e accusato a pieni polmoni di “revisionismo” da una parte della comunità accademica, minacciato (anche de visu) da settori dell’opinione pubblica “progressista e democratica” poco tolleranti nei confronti dell’espressione del libero pensiero, non ha avuto una singola contestazione di avere raccontato falsità nei suoi lavori. Anzi, nei pochi casi in cui qualche esponente di associazioni reducistiche con velleità storiche ha malamente cercato di ricomporre vulgate rassicuranti su fatti e persone meritevoli di giudizi non lusinghieri, è stato successivamente smentito da studiosi della stessa parte politica. I quali, spesso, si sono ben guardati di dare meriti all’autore de “Il sangue dei vinti”.
Quello che Pansa scrive ormai da quasi un decennio, quindi, può piacere o non piacere e si può anche aprire un dibattito sul modo in cui la storia è diventata (non da oggi beninteso) un manganello con cui fare politica nel nostro paese. Mettere però lo scrittore piemontese sullo stesso piano di Faurisson o di Mattogno, ci è sempre parso però una operazione assai discutibile sul piano culturale, e poco edificante per la comunità scientifica.
Detto questo, in “I vinti non dimenticano” si avverte una sorta di stanchezza nel ripercorrere i sentieri tracciati negli anni precedenti e nel raccontare episodi che ormai si assomigliano tutti in un canovaccio piuttosto consunto (anche se rammentare nuovamente ai posteri che il povero Giuseppe Fanin non morì di sonno ci pare opera meritoria); le vicende riportate nello studio, in sostanza, poco aggiungono a quanto sino ad oggi Giampaolo Pansa ha scritto sul tema delle violenze post-belliche. L’inserimento di aree geografiche non studiate, come la Toscana o la Venezia Giulia, conferma comunque ad abundantiam che quella stagione cruenta fu lunga, scarsamente contrastata da chi poteva farlo, e fu prova incivile per un paese democratico.
Resta però un fatto concreto su cui tutti gli storici dovrebbero continuare a confrontarsi. Pansa non va a ripescare gli scarti nei suoi cassetti, ma ha una continua alimentazione per i suoi volumi dalle lettere e dai documenti di centinaia di famiglie che hanno avuto padri, madri, sorelle o fratelli morti ammazzati a guerra finita, e che, come egli stesso testimonia, iniziano invariabilmente i loro scritti dicendo “… Nel suo ultimo volume lei non ha parlato dei fatti che hanno riguardato la mia famiglia. Ora glieli racconto …”.
E’ davvero tempo perso per uno studioso scientifico il domandarsi come mai a sessantacinque anni di distanza da quelle vicende, ci sono ancora persone che ritengono necessario dover mandare lettere a un giornalista, con la speranza di rendere pubbliche le proprie dolorose storie familiari?

Le sante bombe
Lodovico Galli, Riflessioni sui bombardamenti aerei: Brescia 1943-45, Arco, Tipolitografia Grafica 5, 2010

Galli è un prolifico studioso di storia contemporanea bresciana (una ventina di volumi pubblicati nell’ultimo quarto di secolo) che non ha mai fatto mistero delle proprie idee in merito alla stagione della Repubblica Sociale, di cui la sua città fu uno dei gangli vitali. In diversi studi ha espresso, sempre piuttosto pianamente, le proprie tesi sugli uomini e i fatti di quel periodo, suscitando frequentemente dibattiti accesi sui media locali.
In questo lavoro, pubblicato in proprio, ma non per questo meno degno di attenzione rispetto a tanti studi che escono per case editrici “di fama” e magari non hanno l’indice o l’indicazione della bibliografia, l’autore torna in modo documentato su un tema già trattato nelle sue prime ricerche, ossia i bombardamenti aerei in provincia di Brescia, che furono di gran lunga la causa di morte cruenta maggiore della popolazione civile in quell’area nel periodo 1943-45.
Soffermarsi sulle differenze e le analogie fra la guerra aerea ai civili condotta dagli Alleati, e la guerra ai civili “tout court” che contraddistinse l’operato della Wehrmacht è argomento troppo impegnativo da poter essere affrontato in questa sede. Galli si sofferma invece a paragonare il modo distruttivo con cui entrambi i contendenti concentrarono la loro azione contro la popolazione inerme, e questa involontaria faziosità talvolta nuoce allo scopo (nobile) di dare seguito alla memoria di migliaia di morti, uomini, donne, vecchi e bambini, i quali ebbero l’unica colpa di non essere stati abbastanza rapidi a raggiungere un rifugio sicuro durante le incursioni.
A conclusione della lettura di questo interessante volume, a nostro parere, due questioni restano sul tavolo in attesa di ulteriori approfondimenti. La prima riguarda la modalità, invero barbara, di alcuni mitragliamenti a bassa quota su obiettivi distintamente privi di alcun rilievo militare. Su tutti ci è parso paradigmatico l’episodio, sconosciuto ai più, dell’attacco aereo ad un tram nei pressi di Montichiari, avvenuta il 15 settembre 1944, ad opera di cacciabombardieri “Lightning” che secondo l’autore (il quale riporta una ricca documentazione d’archivio) erano quasi certamente appartenenti all’aviazione gaullista. Diciotto morti furono l’esito di una vera e propria caccia all’uomo effettuata nei campi circostanti la strada ferrata, che proseguì per diversi minuti dopo la distruzione delle carrozze e quindi con l’evidente scopo di provocare un eccidio.
Con il necessario distacco, chi scrive ritiene che la comunità scientifica dovrebbe affrontare in modo sistematico anche questi episodi, e con la stessa attenzione dedicata alla costellazione sanguinosa delle stragi naziste. Sempre con la dovuta cautela, sarebbe poi bene iniziare a chiedersi come mai, a Trivellini di Montichiari, nella civile e prosperosa Lombardia, si è dovuto attendere il 1999 per dedicare una lapide in cui fosse scritto, apertis verbis e in modo inequivocabile, che quei morti furono “vittime del mitragliamento aereo alleato” e non, come altrove si è voluto indicare, per generiche “cause di guerra”. La verità, secondo noi, non dovrebbe far paura a nessuno. Almeno in teoria.

Mussolini privato, Mussolini pubblico
Pasquale Chessa – Barbara Raggi, L’ultima lettera di Benito, Milano, Mondadori, 2010

L’intricata vicenda del carteggio intercorso fra Clara Petacci e Benito Mussolini è stata oggetto sino ad oggi più di cronache giornalistiche che di studi storici, e la pubblicazione di una parte delle lettere e dei diari erano già state edite lo scorso anno e comprensive del periodo 1937-39, non ha contribuito a rendere giustizia a questo materiale documentario, a parer nostro di notevole importanza storica. Una parte di questo “corpus”, invece – custodito presso l’archivio centrale dello stato nel cosiddetto “Fondo Petacci” – è stato studiato e analizzato in modo scientifico grazie alla cura e alla solerzia di Pasquale Chessa. Il ricercatore prende in considerazione esclusivamente la parte più omogenea del materiale: 318 missive inviate da Benito Mussolini alla sua amante e le più che altrettante risposte, spedite e non spedite, nel corso dei tragici mesi della repubblica di Salò. Emergono in questo consistente carteggio diversi elementi che, a nostro parere, sono di rilievo per l’indagine storica.
Il primo è il ruolo di Clara Petacci e del suo ingombrante entourage nel firmamento salotino. L’amante del duce ha un ruolo attivo non solo nel profluvio di consigli politici, ma anche nei giudizi e nelle scelte poi effettuate dal grigio duce di Gargnano. Ed è una consigliera ascoltata, nel bene e nel male, nel poco che Mussolini può decidere in autonomia: spostamenti di funzionari, allontanamenti di miliziani, e così via. La leggenda romantica di una Clara moderatrice, specie nella vicenda del processo-farsa a Galeazzo Ciano, esce fortemente ridimensionata. La Petacci è invece “superfascista”: vuole la morte per il genero di Mussolini, la morte per gli altri traditori (e non solo quelli del gran consiglio), l’epurazione violenta di tutti coloro che non rimasero fedeli a Mussolini dopo il 25 luglio. Clara spinge in modo incessante il duce a rivolgersi ad Adolf Hitler, ad emularlo nelle scelte più radicali, ad imitare il fuehrer nella spietatezza.
Il secondo aspetto è una conferma. Il malandato duce di Salò (gli accenni alla salute malferma costellano le lettere di Mussolini) ha un’ansia che sovrasta tutte le altre: essere preso sul serio, anche con le maniere forti, dai sudditi della RSI. E in questo si fa consigliare sempre per il peggio dall’amante. Le rappresaglie cruente e la nascita delle brigate nere, ossia il partito armato, nel luglio 1944 (confermando pienamente gli studi di Dianella Gagliani e Luigi Ganapini) rispondono a questa esigenza: il terrore come manifestazione della propria esistenza in vita. Ed è notevole il peso avuto in questa scelta dal noto articolo “se ci sei batti un colpo” del giornalista Concetto Pettinato, che proprio faceva leva sulla constatazione di una repubblica retta da un governo fantasma.
Il terzo e ultimo punto è anch’esso una conferma, sia pure parziale, ad alcune indagini storiche sugli ultimi giorni del regime, specie quelle condotte da Marino Viganò. Messo spalle al muro dalla ormai prossima e infausta conclusione delle vicende belliche, Mussolini tiene aperte diverse strade, non ultima quella dell’espatrio; già nell’autunno del 1944 a fronte della scarsa tenuta del fronte appenninico, il passaggio dell’intero governo di Salò in Germania, previa una tappa in Alto Adige o in Friuli, era ipotesi tenuta in seria possibilità dal duce e dai suoi. Dal carteggio emerge chiaramente come Mussolini, al di là delle chiacchiere di alcuni suoi agiografi del dopoguerra, pensava seriamente di potersene andare altrove per non pagare il salato conto della guerra civile; il metodo e la destinazione erano già stati predisposti: un aereo per la Spagna pronto all’aeroporto di Ghedi (quello che poi portò l’intera famiglia Petacci a Barcellona). Insomma, il duce non scartava l’ipotesi di finire la partita come altri leader collaborazionisti di rango inferiore, che riuscirono poi nell’intento di raggiungere la penisola iberica, su tutti Leon Degrelle e Pierre Laval. La reazione scomposta e irata che lo stesso Mussolini riferisce per iscritto alla Petacci di fronte alla comunicazione che la Spagna lo rifiutava, riferitagli de visu dall’ambasciatore nazista Rudolf Rahn, è eloquente più di ogni altra carta o testimonianza (memorabile il commento “ecco la riconoscenza della Spagna!”).
La fine è nota. E il fatto che al termine di questa, come di quasi tutte le altre lettere, il tragico duce ordini all’amante “straccia tutto”, fa ben comprendere come lo stesso Mussolini capisse che la sua ”immagine bugiarda” poteva risultare compromessa non solo per i contemporanei, ma anche per i posteri.

I buoni sentimenti dei generali italiani
Amedeo Osti Guerrazzi, Noi non sappiamo odiare, Torino, Utet, 2010

Gli “italiani brava gente”, anche se in divisa, sono da sempre uno degli stereotipi più duri a morire nella pubblicistica e nella storiografia italiana riferita alla seconda guerra mondiale; a essere sinceri, se si è stratificato questo tipo di definizione nel corso dei decenni, il merito (o il demerito) non è solo italiano, come l’autore invece sottolinea. Assieme agli studi di ricercatori (soprattutto sloveni, croati e più di recente greci) che hanno analizzato in modo critico il comportamento dei nostri militari nei vari teatri di guerra e nelle zone di occupazione, fino dagli anni ’60 era disponibile una nutrita memorialistica straniera in cui si sosteneva che a fronte della crudeltà tipica dell’agire nazista, gli italiani rappresentavano invece “il lato buono” dell’occupante. Su tutte ci vengono in mente alcune pagine di Simon Wiesenthal nel suo ultimo volume (“Giustizia non vendetta”, Milano, Mondadori, 1999) in cui questa distinzione, forse manichea ma evidentemente sentita, dei “tedeschi carnefici” contrapposti agli “italiani umani e comprensivi” era ben chiara ed evidente almeno per molti di coloro che subirono le violenze razziali.
Detto questo il pregevole studio di Osti Guerrazzi riguarda un piano sino ad oggi scarsamente esplorato, ossia la percezione che avevano del loro operato alcuni fra gli ufficiali di grado più elevato del nostro esercito, attraverso le loro stesse parole. Il fulcro documentario di “Noi non sappiamo odiare” sono infatti le trascrizioni dei dialoghi registrati presso la residenza di Wilton Park, in Inghilterra, dove furono trattenuti in prigionia alti esponenti delle forze armate regie: il maresciallo d’Italia Giovanni Messe, i generali di corpo d’armata Taddeo Orlando e Paolo Berardi, gli ammiragli Priamo Leonardi e Gino Pavesi, più numerosi altri ufficiali di stato maggiore fatti prigionieri in Tunisia e in Sicilia.
Il volume, nella scansione dei capitoli, affronta i temi più scottanti su cui questi uomini, sconfitti e prigionieri, giudicavano il proprio passato, e come queste opinioni subissero non indifferenti scossoni attraversi i sequenziali traumi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943.
Sul fascismo, l’atteggiamento generale di Messe e dei suoi è tendenzialmente benevolo, e rispecchia quello di ampi settori della borghesia italiana: una necessità dopo il cosiddetto biennio rosso del 1918-1919 (ricordato da tutti come un trauma ben oltre le sue reali conseguenze) un governo d’ordine, sia pure con annesse ridicolaggini come la smania per le divise e le liturgie di regime, una dittatura necessaria, che il re aveva comunque accettato avendone in cambio l’impero, e un disastro dal punto di vista militare, di cui peraltro nessuno dei prigionieri pare voler accettare la responsabilità. Resta da chiedersi, a parer nostro, per quale motivo gli umori delle forze armate italiane avrebbero dovuto essere venate di progressismo se quelle di ogni altro paese europeo, democratico o meno, non lo erano minimamente nel corso del ventennio 1919-1939.
I capitoli dedicati alla preparazione dell’esercito e alle campagne militari sono forse fra i più interessanti, in quanto in essi davvero si distingue l’”aurea mediocritas” del nostro stato maggiore durante il 1940-43: l’ignoranza in termini di tattica, strategia, combinazione fra azioni aeree, navali e terrestri, l’inadeguatezza di armamento ed equipaggiamento della truppa. Tutti questi argomenti appaiono come segreti svelati soltanto al momento della scesa in campo dell’Italia: i modesti carri medi britannici sono “eccellenti” rispetto ai nostri corazzati, e il commento di un colonnello dell’aeronautica alla visita degli interni di un bombardiere B24 è “questi sono avanti dieci anni rispetto a noi”. Le disastrose prove sul campo, specie le ultime nello scacchiere siciliano, sono narrate con sfoggio di “colpaltrismo” in dosi omeopatiche. Gli ammiragli Pavesi e Leonardi narrano le poco onorevoli rese di Pantelleria e Augusta con un corollario di scuse e mezze verità da primato, senza contestazioni da parte di alcuno, evidentemente perché anche gli altri presenti avevano simili scheletri nell’armadio.
I rapporti coi tedeschi e i crimini di guerra sono anch’essi oggetto di discussione fra i prigionieri. Gli alleati scomodi e sgradevoli sono comunque ammirati per il loro grado di efficienza (anche quando essa è spietata) mentre i crimini di guerra sono una autentica sorpresa. La percezione che il generale Taddeo Orlando ha delle accuse rivoltegli per come comandò la spietata divisione “Granatieri” durante l’occupazione in Slovenia, è soprattutto di stupore, meraviglia e indignazione, non diversamente dagli altri prigionieri. Il fatto che gli italiani “non sapessero odiare” era talmente consolidato nelle menti di questi uomini da non essere scalfito neppure dal profluvio delle circolari e degli ordini che essi stessi avevano emanato sul campo durante la loro presenza nei Balcani. Vi è quasi una operazione di rigetto e rifiuto dei dati di fatto, o quantomeno, una loro giustificazione dovuta all’incessante guerriglia condotta dai partigiani di Tito.
Anche Amedeo Osti Guerrazzi, come Eric Gobetti, sposa la tesi di una nostra generale auto-assoluzione (militare, politica e nell’opinione pubblica) che forse ci fu, visto che si passò da guerra combattuta a guerra fredda nel giro di un biennio, ma a parer nostro la questione ci pare mal posta. Oltre a italiani e tedeschi (e senza contare le robuste forze collaborazioniste slovene, croate, serbe e montenegrine), in Jugoslavia agirono anche gli eserciti ungheresi e bulgari, nessuno dei quali brillò per moderazione, e se diversi ufficiali dell’esercito magiaro furono condotti davanti a corti jugoslave, con estradizioni successive all’instaurazione del regime comunista in Ungheria, non ci risulta che alcun esponente dell’establishment militare bulgaro sia mai stato portato davanti a giudici titini; non fosse altro perché questa nazione fu svelta almeno quanto l’Italia a cambiare fronte nell’estate del 1944, e si pose totalmente sotto l’abbraccio protettore dei sovietici.
Anche per quanto riguarda il dopoguerra, in tutta onestà non si vedono straordinarie differenze nei percorsi di carriera di questi militari rispetto ai loro commilitoni tedeschi; grazie all’instaurarsi della cortina di ferro, tutti furono reintegrati in gradi e funzioni passando senza scossoni dal giuramento al re a quello alla repubblica. Giovanni Messe fece carriera in politica (anche qui non diversamente da molti ex ufficiali della Wehrmacht), ed altri conclusero con una lauta pensione erogata dall’INPS. Sia pure con rammarico rispetto al nostro non commendevole operato in Slovenia e Croazia, non poteva essere diversamente che così. Concedere le estradizioni avrebbe implicato richiederle a nostra volta alla Germania per i crimini commessi in Italia (e perché non anche alla Francia per i crimini commessi durante l’avanzata nel meridione della nostra penisola?).
James Burgwyn, attento studioso della nostra presenza militare nei Balcani ha scritto che per Mario Roatta si sarebbe dovuto concedere una onorificenza per come tutelò la comunità ebraica e condurlo contemporaneamente davanti a una corte marziale per le bestialità commesse contro civili e partigiani jugoslavi.
Questa è a nostro avviso la migliore analisi su quella intricata e sanguinosa stagione. E siamo grati ad Amedeo Osti Guerrazzi che ci offre un ulteriore strumento per comprenderla appieno
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giovedì 28 ottobre 2010

Gli anni sereni della balena bianca.

Auto-revisionismo
Giampaolo Pansa, I cari estinti, Milano, Rizzoli, 2010

“L’Inps è la nostra Fiat”, pare avesse dichiarato nei primi anni ’80 Ciriaco De Mita a Giampaolo Pansa. Ed è forse da cercare in questa frase lo spirito del libro; già, perché il giornalista e storico piemontese, quando trent’anni fa raccontava nelle sue interviste e nelle sue inchieste l’immagine di quell’Italia che prima, durante e dopo gli anni di piombo aveva nella DC e nei suoi “ras” la propria stella polare, lasciava trasparire senza infingimenti il disprezzo e il disgusto per l’odiosa “balena bianca” che corrompeva, guastava, copriva e colludeva.
Oggi “il revisionista”, come si è definito nel suo volume dello scorso anno, a differenza di alcuni suoi colleghi rimasti tetragoni nel loro odio per ciò che eravamo (giacché anche non volendolo l’Italia fu largamente, e in alcune regioni totalmente, democristiana), rilegge quelle pagine e quelle note, e onestamente ammette quello che è sotto gli occhi di tutti: gli uomini di governo di quella stagione appaiono statisti di non comune profilo rispetto ai mestieranti e ai “prestati alla politica” che da quindici anni a questa parte si sono alternati al governo del paese.
Questa, a nostro avviso, la morale che emerge con chiarezza dalle agende e dagli appunti di vent’anni della storia politica del nostro paese: il saggio infatti copre gli anni dal 1970 al 1990, ossia dall’inizio della stagione del terrorismo nero e rosso alla fine della prima repubblica. E ci scorrono davanti agli occhi in quadri vividi i nomi e i volti del ventennio che ci fece passare dal bianco e nero della TV e degli scontri di piazza al colore dei ruggenti anni ’80: Antonio Gava, Ciriaco de Mita, Arnaldo Forlani, Franco Evangelisti; gente perbene come Benigno Zaccagnini e persone inquietanti come Salvo Lima, “desaparecidos” come Pierre Carniti, e padri nobili e meno nobili della destra, da Giorgio Almirante a Valerio Borghese. I grigi compagni di Botteghe Oscure come Enrico Berlinguer e Giorgio Pajetta e gli sgargianti socialisti di Bettino Craxi e Claudio Martelli.
E poi i fatti: la strage di piazza Fontana, l’omicidio di Aldo Moro, le lotte talvolta sordide nel mondo giornalistico e finanziario e quelle non meno limacciose nel mondo politico. Pagine dimenticate (o fatte dimenticare?), come l’innamoramento dei vertici di “Repubblica” per la DC di De Mita, il leader di Avellino che sognava un popolarismo forse impossibile, e che venne defenestrato dall’asse Andreotti, Craxi, Forlani alla fine degli anni ’80. L’inizio del decennio successivo, che segna le pagine conclusive del volume, fu l’apogeo e il declino di una stagione politica probabilmente irripetibile.
Ebbene si: questa era (ed è) l’Italia che aveva come Fiat l’Inps, almeno nel Mezzogiorno. E viene da chiedersi: fossimo stati invece l’Italia impossibile, quella governata da improbabili politici illuminati dalle ponderose riflessioni degli azionisti “duri e puri” alla Giorgio Bocca (il cuneese da qualche tempo bestia nera del revisionista monferrino) inflessibili contro l’ingerenza statale e vaticana, implacabili contro l’assistenzialismo e ovviamente incorruttibili, saremmo stati davvero migliori? Saremmo davvero diventati la Gran Bretagna (in sedicesimo)?
Oppure quella DC, dei Remo Gaspari e dei Mariano Rumor, dove convivevano e collaboravano Aldo Moro e Antonio Gava era, e in gran parte è, lo specchio esatto del paese?
E allora lasciateci almeno la nostalgia. Un sentimento che esce acuìto dalla lettura delle riflessioni del giornalista e storico di Casale Monferrato, il quale onestamente ammette di aver cambiato idea su molte cose e molte persone del periodo in cui tratteggiava, in pagine fitte di appunti, la cronaca di una nazione che oggi non esiste più. Purtroppo.


Una storia del bianco Nordest
Leonardo Raito, Laura Frigeri, Antonio Bisaglia nella storia della DC, Rovigo, CRAMS, 2010.

Il miracolo economico del Triveneto ha molti padri (tutti, nessuno escluso, scudocrociati), ma quello del Polesine ne ha uno solo: Antonio “Toni” Bisaglia. A oltre venticinque anni dalla morte un volume illustra finalmente la narrazione dell’opera e del pensiero del politico rodigino, tramite una densa raccolta di scritti, riflessioni e interviste, e una interessante rassegna iconografica, ricca di fotografie inedite.
Lo studio di Leonardo Raito e Laura Frigeri mette finalmente un punto fermo nella biografia di questo leader della DC veneta, e fa riflettere su un fatto, ossia che sino ad oggi su Bisaglia esistevano, per quanto ci è dato conoscere, solo due volumi: un indagine giornalistica del sopra citato Giampaolo Pansa risalente al 1975 e uno scadente “instant book” redatto da Carlo Brambilla e Daniele Vimercati nel 1992 e dedicata al presunto mistero legato alla morte di Bisaglia nel 1984, avvenuta per una caduta accidentale da una imbarcazione, e quella del fratello sacerdote Mario, deceduto nel 1992, probabilmente suicida. Di quali misteri d’Italia fosse depositario il parlamentare polesano (che già nel 1980 aveva abbandonato ogni incarico nella DC) e chi abbia ucciso il parroco rodigino per nascondere inconfessabili segreti non è dato sapere. Certo è che questo tipo di letteratura spesso al confine fra il verosimile e il grottesco, pare avere grosso seguito nel nostro paese, tanto da rendere difficile tutt’oggi qualsiasi seria riflessione sull’attività politica di personaggi come Enrico Mattei o lo stesso Aldo Moro; è inutile sottolineare infatti la mole di pubblicazioni concentrate sulla morte (e non invece sulla vita) di questi personaggi.
Il quadro che emerge dal saggio è comunque esemplare per comprendere i meccanismi che hanno portato prima allo sviluppo e successivamente al boom in una delle aree più arretrate del nord Italia; Antonio Bisaglia fece leva senz’altro sulle risorse messe largamente a disposizione nel corso degli anni ’50 a seguito dell’alluvione del 1951, ma in modo non dissennato, come avvenuto poi nelle “ricostruzioni” successive ad altre catastrofi nazionali. Anzi, l’azione da lobbista ante litteram e i legami puntuali che Bisaglia teneva con il suo elettorato, avevano al centro dell’agire una profonda comprensione del territorio e delle sue peculiarità. Le infrastrutture – tutte puntualmente realizzate – dovevano essere (e furono) il volano per una crescita endogena e non di una rendita politico-sociale parassitaria; fu in quella stagione che si crearono i presupposti per la spettacolosa crescita dell’intera provincia di Rovigo. Di fronte all’attività frenetica svolta dal parlamentare polesano nell’arco di un ventennio, appaiono risibili alcuni odierni accenni ad un presunto “partito del fare” che non pare avere riscontro nella infelice realtà di oggidì.
Il volume fa poi giustizia di un luogo comune che rappresentava Bisaglia come uomo “d’azione” ma di scarsa propensione alla riflessione e alla progettualità. In realtà la puntuale raccolta dei suoi interventi pubblici fa emergere come il leader della DC rodigina avesse ad esempio perfettamente compreso, già alla fine degli anni ’70, che un grande partito centrista doveva iniziare ad evolversi verso il federalismo, magari prendendo l’esempio tedesco della suddivisione fra CDU e CSU.
Purtroppo la scomparsa repentina impedì lo sviluppo di queste ed altre tesi politiche; resta il rammarico che si è dovuto attendere oltre un quarto di secolo prima di leggere uno studio serio, documentato e ben ordinato come quello di Raito e Frigeri, a cui siamo grati per aver fatto luce su un uomo politico che avrebbe meritato maggiori attenzioni da parte degli studiosi e dei ricercatori di storia contemporanea.

Misteri e dintorni
Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, Milano, Mondadori, 2010.

Mimmo Franzinelli con il suo lavoro dedicato alle delicate vicende politiche e sociali dell’estate 1964, ci propone il consueto studio dettagliato e puntuale, sia dal punto di vista documentale che nelle testimonianze raccolte in una corposa appendice.
Restano però, secondo chi scrive, alcune perplessità sul taglio dato a questa indagine dello studioso bresciano. In primo luogo c’è qualcosa da “teatro dell’assurdo” in tutta la storia narrata nel volume; si parla infatti di un golpe paventato (e fortunatamente non effettuato) dall’arma dei Carabinieri con la regia dei servizi segreti militari, i quali avevano suggestionato in modo talmente ossessivo il capo dello stato Antonio Segni da fargli ritenere a sua volta imminente un colpo di mano da parte dei comunisti italiani. Ce n’è abbastanza per farne una commedia di Georges Feydeau, come in numerosi (presunti) misteri d’Italia, i quali spolpati dall’alone “blu notte” appaiono frequentemente come eventi di una banalità sconcertante.
In sostanza le uniche cose certe in questo mare di intenzioni, supposizioni, chiacchiere e giornalismo d’assalto, furono l’irrituale invito dei vertici militari alle consultazioni indette dal capo dello stato successive alla crisi del primo governo di centro-sinistra, e un incontro fra il generale comandante dell’arma Giovanni de Lorenzo, il capo della polizia Angelo Vicari e i vertici democristiani, nel quale, paradossalmente, ognuno degli intervenuti fece a gara per tranquillizzare gli altri presenti sul fatto che l’ordine pubblico non appariva turbato da alcunché, tantomeno da un possibile nuovo governo di centro-sinistra.
C’era poi la famigerata lista dei cosiddetti “enucleandi”, qualche centinaio di militanti del PCI e di organizzazioni sindacali e associative legate al partito di Palmiro Togliatti che – in teoria – dovevano essere posti sotto custodia da parte della “benemerita” e inviati in Sardegna; un documento inquietante ma allo stesso tempo grottesco, non fosse altro perché chi decise di redigerlo non pensava al ridicolo e al discredito di un piano (il “Piano Solo”, appunto) in cui il Carabinieri facevano e disfacevano, arrestavano e occupavano sedi telefoniche e radiotelevisive con il resto dei poteri dello stato (a partire dalla pubblica sicurezza) che restavano a guardare: cosa questa che alcuni tra i più avveduti ufficiali dell’Arma avevano immediatamente osservato e compreso, specie nei comandi delle grandi città, come Milano o Roma.
Appare purtroppo incomprensibile la totale assenza – persino in bibliografia o in nota – dell’azione dei servizi “civili”, ossia l’attività incessante di informazione (e disinformazione) condotta nello stesso periodo da Federico Umberto d’Amato, il capo indiscusso dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno.
Più grave la carenza un altro pezzo del mosaico decisivo per inquadrare quel momento storico, ossia l’attività del partito comunista, del quale Franzinelli poco o nulla descrive l’apparato clandestino, che pure esisteva ed era ben lungi dall’essere stato smantellato. Non un rigo dagli studi ormai pluriennali di Salvatore Sechi, Gianni Donno o Victor Zaslavsky illumina le vicende del più forte partito marxista dell’Europa occidentale: il PCI dai solidi e ininterrotti legami con l’URSS viene rappresentato, in modo piuttosto manicheo, come un partito socialdemocratico di stampo europeo sul quale ingiustamente si accentrava l’attenzione e la sorveglianza degli apparati statali. Le cose erano invece assai diverse.
In conclusione come in altri suoi lavori, questa ricerca di Mimmo Franzinelli non è discutibile per quanto viene narrato, ma per quello che è assente. Anche perché la sensazione è di una “storia coi buchi”, che assomiglia vagamente a un groviera in cui quello che è sgradevole, spiacevole o poco utile alla tesi dell’autore, viene semplicemente cassato.

venerdì 27 agosto 2010

Tedeschi in guerra e dopo.

Soldati normali?
Guido Knopp, Wehrmacht, Milano, Corbaccio 2010

Guido Knopp è un divulgatore televisivo serio e preparato; nelle indagini sulla dittatura nazista il suo tratto distintivo è quello di privilegiare, con stile giornalistico, l’osservazione “dal basso”, specie tramite testimonianze, narrazioni, diari e memorie di coloro che vissero in prima persona la stagione del 3° Reich.
In questo volume, sintesi di una indagine condotta per la rete TV tedesca ZDF, l’autore affronta un tema scabroso e impegnativo, ossia la nazificazione delle forze armate dopo il 1933. Il dibattito su questo tema, come è noto, è ancora acceso e aperto fra gli studiosi tedeschi. Nel lungo excursus che caratterizza la parte iniziale dello studio, in verità, Knopp non si distacca troppo da alcune interpretazioni “mainstream”; per l’autore, infatti, l’influsso del regime ci fu, e in molti casi fu proprio la nobiltà di rango a mostrarsi entusiasta del nuovo corso ideologico imposto dal Fuehrer. Il “blasone immacolato” della Wehrmacht, insomma, è poco meno di una favola, e i cavalieri senza macchia e senza paura di questo stendardo, l’”Offizialitat” prussiana, erano in realtà ben felici di un regime da cui avevano ottenuto cospicui vantaggi sociali ed economici.
La parte a nostro avviso più interessante, come spesso accade nelle opere di Knopp, è comunque quella dei racconti, specie di chi militava nella truppa durante la seconda guerra mondiale. Il quadro che emerge è quello di un esercito in cui si combatteva, si moriva e si uccideva (anche compiendo atrocità sistematiche) con una genuina fede nel Fuehrer, confortata dal filotto di vittorie del 1939-42. Sono infatti scarse le testimonianze di opposizione alla condotta senza scrupoli delle operazioni belliche in questa fase. Poi, soprattutto dal 1943 (e dalla sconfitta di Stalingrado, vero spartiacque), la discrasia fra la propaganda di Joseph Goebbels e la realtà, inizia ad essere evidente per tutti.
Nonostante il susseguirsi di sconfitte, però, il fronte interno tiene, e l’esercito non mostra cedimenti; dalle memorie dei giovani di allora emerge un quadro di generale acquiescenza: si compie il proprio dovere non più per fede nazista (anche se alcuni fanatici terranno duro proprio per quel motivo sino al 1945), ma per altri valori non meno importanti: il cameratismo su tutto, ma anche la sensazione di dover difendere la madrepatria dall’Armata Rossa (di tenore assai diverso le testimonianze di chi combatteva inglesi e americani) o il senso del dovere a cui non ci si può sottrarre, nemmeno di fronte a ordini sanguinari.
La disfatta del maggio 1945 giungerà quindi attesa da tutti, ma il modo di affrontarla sarà molto diverso a seconda dei fronti e della condizione psicologica di chi si troverà a dover affrontare le conseguenze della sconfitta. Si va quindi dal soldato qualsiasi, in fondo lieto di essere arrivato vivo al termine dell’avventura, alle paradossali situazioni dei comandanti dei vari fronti, i quali dopo aver invitato alla resistenza sino all’ultimo sangue, sono costretti ad accettare l’amaro calice della capitolazione senza condizioni.
Ricordiamo, fra i singoli episodi, almeno due degni di nota, riguardanti alti ufficiali di provata fede hitleriana: il feldmaresciallo Walter Model, che dopo aver compreso di essere stato abbandonato dal Fuehrer nella sacca della Ruhr, maledice la sua dabbenaggine e il regime nazista, e si suicida. Un altro feldmaresciallo, il durissimo Ferdinand Schoerner (noto come l’impiccatore dei disertori) troverà invece una soluzione meno cruenta: l’abito borghese e la fuga in aereo da Praga verso i sicuri lidi degli alleati occidentali. I quali però lo rinvieranno come criminale di guerra verso una poco acquiescente alta corte di giustizia sovietica.


Italiani, gente così così.
Thomas Schlemmer, Invasori non vittime, Bari, Laterza, 2010

Il lavoro di Thomas Schlemmer andrebbe letto assieme, o immediatamente dopo qualsiasi volume della sterminata bibliografia dedicata alla campagna di Russia, quantomeno per dare un senso della misura ad alcune descrizioni zuccherose tipiche della memorialistica nostrana.
La sintesi dell’opera è ben rappresentata dal titolo del volume: fummo invasori in Russia al pari dei tedeschi, ne’ più ne’ meno, così come fummo occupanti in Francia, Jugoslavia e in Grecia, con l’unica differenza che per queste ultime aree esiste oggi - e finalmente - una bibliografia scientifica consolidata; forse (ma questo Schlemmer non lo dice) nel caso dell’URSS siamo stati pure più vigliacchetti, in quanto a differenza dei casi precedentemente elencati, non eravamo nemmeno confinanti con l’Unione Sovietica: gli ungheresi, i romeni e persino gli slovacchi potevano accampare rivendicazioni territoriali su regioni oggetto di dispute secolari; chi aveva inviato truppe per la “battaglia contro il bolscevismo” si era invece limitato a contingenti poco più che simbolici, come la “Division Azul” spagnola, il reggimento dei volontari francesi, o il battaglione vallone, tutti comunque in perfetta uniforme tedesca, come del resto i volontari europei delle SS.
Schlemmer fa giustizia delle innumerevoli descrizioni tese a esaltare l’italico valore a fronte delle carenze in armamento ed equipaggiamento: l’inverno sovietico fu durissimo per tutte le forze dell’asse, e gli stivali di cuoio dei tedeschi non erano di tanto migliori dei terribili scarponi italiani, così come i cappotti della Wehrmacht non proteggevano dal freddo meglio di quelli nostrani. Allo stesso tempo alcune vittoriose azioni del CSIR condotte nell’estate 1941 furono brillanti come e forse più di quelle tedesche.
Proseguendo in questo parallelo, l’autore evidenzia come la tradizionale bonomia nostrana risulti parecchio ridimensionata: fummo crudeli con i civili, sfruttatori sistematici delle risorse agricole ed economiche del territorio occupato, razzisti (terribili alcune testimonianze di odio antisemita da parte di “soldati qualunque”). E pure fucilatori.
Si dirà, a questo punto, che contano le dimensioni; nell’esperienza italiana in URSS manca la sistematica e selvaggia azione degli Einsatzkommando, o dei battaglioni di polizia nazisti. Ed è certamente vero. Però è soltanto questo il criterio che ci rende “italiani brava gente”? Eravamo poi così migliori dai romeni o dagli ungheresi (mancano purtroppo nel volume paragoni con le esperienze degli altri invasori) o dei falangisti spagnoli?
Crediamo che il pregio principale dell’opera, ben costruita e documentata, sia soprattutto quello di aprire questioni e stimolare la ricerca, magari proprio sul versante della comparazione con le esperienze degli altri alleati-occupanti dell’Asse.
L’unica riserva che ci sentiamo di esprimere riguarda la tipologia di quella guerra, che comportò anche in molti luoghi il disfacimento delle strutture di governo staliniane. Gli italiani, specie nel periodo in cui furono in Ucraina, ebbero a che fare con un robusto collaborazionismo a sfondo nazionalista di cui però non c’è quasi traccia nel volume. La locale polizia ausiliaria dai distintivi gialloblù, che per noi come per i tedeschi fu indispensabile strumento di controllo e cruenta repressione, compare in modo sporadico, e per episodi marginali. Crediamo invece che – non per sminuire le nostre responsabilità di occupanti – anche questa pagina andasse analizzata in modo più dettagliato: tanti, nei luoghi dove fummo presenti prima col CSIR e poi con l’ARMIR videro in noi, come nei tedeschi, una tenue speranza di emancipazione dalla dittatura comunista. Le foto dei contadini che offrivano pane e sale ai soldati con la svastica come a quelli con il tricolore sabaudo, a parer nostro, non erano solo ad uso della propaganda nazifascista.


Pretacci e nazisti?
Gerald Steinacher, La via segreta dei nazisti, Milano, Rizzoli, 2010

Nell’affrontare la lettura di questo eccellente saggio di Gerald Steinacher, abbiamo dovuto superare uno scoglio di non lieve entità, ossia un sottotitolo repulsivo, che per la posizione sulla copertina risulta in apparenza il vero titolo del volume, ossia: “come l’Italia e il Vaticano salvarono la vita ai nazisti”.
E’ una dimostrazione palese di come questa casa editrice, a scopo pubblicitario e promozionale, abbia sfruttato l’ondata anticlericale che scuote tanta parte della nazione, immaginiamo per far presa su chi, come acutamente sosteneva monsignor Ersilio Tonini, “ha smesso di essere credente per diventare credulone”.
Lo studio è invece cosa ben diversa e assai più seria dei tanti volumi denigratori che costellano le librerie italiane; fare un’operazione di scadente marketing di questo tipo ci appare davvero deprimente per un editore come Rizzoli, ma evidentemente in tempi di crisi non si guarda in faccia a nessuno, e forse si legge poco anche dentro ai libri che si decide di stampare…
L’Autore infatti dimostra che nella triste vicenda della fuga dei criminali nazisti, si intrecciarono istituzioni e autorità diverse, spesso con interessi divergenti. Fra i responsabili infatti, a differenza di quel che si legge in copertina, non ci fu “il Vaticano”, ma singoli elementi di ogni livello e responsabilità nella gerarchia ecclesiastica, così come ebbero responsabilità singoli elementi dei servizi segreti americani (anche in questo caso con notevoli conflittualità interne) e singoli elementi della Croce rossa internazionale.
E’ peraltro vero che alcuni di questi soggetti avevano posizioni di rilievo in varie organizzazioni, come Alois Hudal, rettore del Collegio germanico a Roma, o Krunoslav Draganovic, segretario dell’Istituto croato di San Girolamo, sempre nella capitale. Emerge però che altri appartenenti alla Chiesa cattolica i quali agirono anch’essi in modo torbido (i sacerdoti altoatesini che protessero e ri-battezzarono con formule discutibili alcuni ex-nazisti di alto rango) erano animati da sentimenti e interessi diversi dai sopra citati prelati. Quindi è lo stesso Steinacher a smentire la categorica e insulsa copertina del volume.
La verità è che l’immediato dopoguerra fu lungo e difficile da smaltire, ed ebbe un inizio che si fatica persino a posizionare sul calendario, visto che ancora alla fine di maggio del 1945, a Bolzano c’erano pattuglie miste di SS ed MP statunitensi e il traffico dei camion americani era regolato dalla Feldgendarmerie della Wehrmacht, come si vede in alcune stupefacenti fotografie all’interno del volume. L’immenso numero di profughi provenienti da ogni dove e diretti verso le zone più disparate, ebbe nell’Alto adige un suo punto focale: qui i nazisti (ma va detto chiaramente, tutti gli ex soldati tedeschi in generale) poterono contare sulla solidarietà etnica della comunità germanica, nella quale c’erano, in posizione preminente, gli esponenti del clero locale.
In questa già confusa situazione agivano i servizi segreti USA, i quali cercavano i criminali in fuga con squadre di specialisti che rispondevano a interessi eterodossi: chi li voleva per portarli a Norimberga e chi per servirsene per la guerra fredda, ovviamente gli uni all’insaputa degli altri. Ma a volere ex SS, ingegneri, aviatori e specialisti di ogni tipo del defunto regime hitleriano c’erano anche decine di paesi sudamericani, i quali fecero carte false per portarli verso i loro accoglienti lidi, a partire dall’Argentina peronista.
La Croce rossa internazionale, assieme alla Pontificia commissione di assistenza, furono il tramite per dotare di carte credibili i personaggi in questione; ma va detto che, in realtà, queste organizzazioni fecero ogni sforzo per dare documenti di identità a tutti i profughi tedeschi e per aiutare senza distinzione coloro che fuggivano dai paesi diventati comunisti, come la Jugoslavia di Tito, o nazioni che erano ormai nella zona di influenza sovietica, come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Che ci fosse un orientamento anticomunista in questa azione, è fuori di dubbio. Occorre però rammentare – e Steinacher lo fa – che decine di migliaia di persone scappavano da luoghi in cui erano stati instaurati regimi brutali e autoritari. Insomma, chi aveva il potere per farlo, fu di manica assai larga; forse fin troppo. Ma i tempi erano quelli che erano.
In conclusione, esaminiamo una vicenda che Steinacher affronta in modo marginale (e non preciso) ma che è esemplare per comprendere la situazione venutasi a creare al termine della guerra. Migliaia di militari ucraini collaborazionisti, con la consueta rete di aiuti della Chiesa cattolica e della Croce rossa, riuscirono ad evitare il rimpatrio e approdarono nel nord america (specie in Canada), dove rimasero indisturbati e si rifecero una vita. In questo caso più che l’intervento del clero cattolico uniate citato dall’Autore, fu la posizione del loro leader a creare le condizioni del salvataggio: Pavlo Shandruk, infatti, era contemporaneamente comandante della 1° divisione ucraina (all’epoca della resa questi uomini non facevano più parte delle SS, come erroneamente sostiene l’autore) e colonnello dell’esercito polacco, decorato per eroismo dal governo in esilio a Londra per la campagna del 1939. Come lui, quasi tutti i suoi uomini erano assieme polacchi e ucraini, essendo in prevalenza galiziani. Fu Shandruk a trattare personalmente con il comandante del corpo polacco Wladislaw Anders la resa e la posizione giuridica dei suoi soldati. Restituire questi uomini a Stalin, a tutti gli effetti sarebbe stato un abuso; da qui le vicende successive.
Morale: a fare semplici le cose difficili, si rischia di scrivere stupidaggini. Cosa che Steinacher non ha fatto, a differenza di alcuni zelanti addetti al marketing di Rizzoli.

mercoledì 30 giugno 2010

Violenza

L’ideologia della violenza
Guido Panvini, Ordine nero, Guerriglia rossa, Torino, Einaudi, 2009.

La sintesi – terribile – di questa importante ricerca di Guido Panvini, è nelle pagine centrali, dove, una sopra l’altra, troviamo la riproduzione di due testate coeve, una di estrema destra e una di ultrasinistra. La prima, nel cinquantesimo della fondazione dei fasci di combattimento, esalta in una illustrazione apologetica tutto l’armamentario ideologico (e pratico) dei post-fascisti: i valori patriottici trasmessi dai padri ai figli, l’acqua del piave (!) e il santo manganello.
Dall’altro lato, il contraltare cartaceo marxista apre con una descrizione minuziosa su come fabbricare una bottiglia molotov. Incredibilmente, i colori dominanti dei due giornali sono gli stessi: rosso e nero. E in entrambi i casi, a completare il quadro, troviamo l’esposizione claudicante dei cascami tradizionali di entrambe le tradizioni, ossia l’uso della violenza come strumento politico. E’ questa, in buona sostanza, la dimostrazione – offerta, spiegata e dimostrata ad abundantiam dall’autore – che Georges Sorel è stato il lievito ideologico secolare sia per gli eredi di Mussolini che per quelli di Gramsci e Bordiga.
Concentrato nei fatti ed eventi che caratterizzarono il plumbeo quinquennio 1969-1974 (ma con un ampio “prequel” sulla solo apparentemente tranquilla stagione 1966-69), il lavoro di Panvini è fra quelli che crediamo siano destinati a restare anche negli anni futuri; senza timori reverenziali, con un equilibrio frutto di studi approfonditi e documentati, l’autore dipana una dolorosa matassa che è stata in passato “drogata” da interpretazioni frutto dell’una o dell’altra ideologia. Il quadro che emerge è inquietante, spietato e in certi casi mortificante (si veda l’ampio spazio dedicato al favore con cui una certa classe intellettuale guardò alla violenza marxista) ma almeno per quel che ci riguarda, non inedito. Che non esista una violenza politica “buona” ci è sempre parso un dato self evident, ma evidentemente molte cose scontate, in fondo non lo sono per nulla…
Panvini dimostra invece, dati e fatti alla mano come la violenza, ancora una volta nella storia d’Italia (e peccato l’assenza in bibliografia delle limpide analisi di Richard Drake su questo tema) fosse diventato l’abbecedario di entrambi gli oltranzismi. Una violenza diffusa, capillare, nello stile linguistico e nell’azione politica, con forme estreme più di interesse psichiatrico che sociologico o storico, come la vicenda della schedatura sistematica dei componenti delle opposte fazioni, condotta in modo maniacale dai neri e dai rossi (come pure dagli apparati di polizia).
Il fatto che entrambi i contendenti, sia pure con i loro limiti (la scarsa adesione popolare per i neofascisti, il contrasto sistematico operato dalle forze dell’ordine per quel che riguarda le frange estreme del marxismo) non temessero la prospettiva di una guerra civile, la dice infine lunga su quanto sia salvabile, moralmente e ideologicamente, di quella orrenda stagione: anni che furono “fantastici” solo per chi non li visse in prima persona.
Lo studioso fa inoltre trasparire lo sforzo, quello sì immane, di milioni di famiglie che cercarono, nonostante i lacrimogeni, le sirene, le catene, le chiavi inglesi, i coltelli, le spranghe, le macchine alle fiamme, di garantire un’esistenza serena ai figli che nacquero e crebbero in quella stagione.
Anche per questo dobbiamo gratitudine all’autore e al suo lavoro; molte volte, infatti, chi opera ordinariamente per il bene, in silenzio, finisce nel silenzio della storia.

Violenza di stato?
Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere, Roma, Nutrimenti, 2010

Federico Umberto d’Amato fu per un quarantennio al vertice dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, una struttura mai formalizzata nella sua funzione prevalente, ossia quello di servizio segreto dalle finalità alquanto torbide e scarsamente controllate.
Pacini affronta questo tema con la stessa serenità con cui, in passato, aveva studiato le formazioni paramilitari dei partiti politici italiani (Le organizzazioni paramilitari segrete nell'Italia Repubblicana, Roma, Prospettiva Editrice, 2008), osservando un dato che a noi pare abbastanza scontato, ma che evidentemente non è ancora stato digerito da una buona fetta dei contemporaneisti italiani: in un paese confinante con la cortina di ferro e nel contempo caratterizzato dal Partito comunista più forte dell’Europa occidentale, la democrazia migliore possibile fu quella che effettivamente avemmo per il quarantennio in questione. Era in sostanza inevitabile – e ben lo si vede nel “work in progress” di cordate antagoniste che portò D’Amato ai vertici dello UAR – che si creassero condizioni per la nascita e lo sviluppo di un servizio eterodiretto, iper-atlantista e dai fini non chiari.
Non è superfluo constatare che strutture analoghe si vennero a creare in tutta l’Europa occidentale, con deviazioni e infiltrazioni di diverso genere (anche di segno opposto, ossia di parte sovietica) e che il livello di libertà istituzionale scandinavo era comunque una pura utopia nello scenario mediterraneo degli anni ’60-’70. Emerge poi con limpidamente che pagando lo scotto di un controllo e un sistema di collaborazione-infiltrazione-ricatto con elementi estremisti di ogni colore, si evitò di piombare nel buio di una dittatura militare di tipo greco, scenario plausibile e considerato a più riprese dalle ali estreme dei servizi italiani.
Certo è che l’attività di D’Amato brillò soprattutto per la sua abilità a restare al di fuori da ogni indagine sulla stagione stragista; nella ricerca si vede con chiarezza come l’ufficio AR non venne praticamente mai coinvolto nelle indagini della magistratura, che invece centrò la sua attenzione sui servizi militari e civili. Risulta invece dalla ricerca una presenza inquietante degli uomini di D’Amato attorno agli autori della strage di Piazza Fontana, cosa peraltro apertamente dichiarata già una quindicina di anni fa da Giorgio Pisanò, giornalista fascista irriducibile, ma uomo poco avvezzo ai maneggi del potere e quindi credibile nelle sue affermazioni.
La parabola del direttore dello UAR si concluse a metà degli anni ottanta; Federico Umberto d’Amato continuò invece la sua attività di gourmet e di redattore della rubrica di cucina de “L’Espresso”, a dimostrazione dell’incredibile poliedricità del personaggio.
Pacini si rivela narratore abile, poco avvezzo alle fumisterie ideologiche che hanno condizionato altri studi sul tema, e scrupoloso ricercatore (oltre ai numerosi testi consultati, l’autore aggiunge l’analisi di una cospicua mole di atti giudiziari). Un libro di sintesi che è utile a chiunque si voglia avvicinare all’argomento.

Violenza tradizionale
Giano Accame, La morte dei fascisti, Milano, Mursia, 2010

L’ultima, appassionata testimonianza di uno dei migliori intellettuali della destra post fascista prima della scomparsa (avvenuta lo scorso anno a causa di un tumore) è un volume dotto e colto, non propriamente “storico”, ma che con la storia ha a che fare continuamente.
L’analisi che Accame svolge, su vari piani e in vari periodi - il lavoro è in realtà costituito da una raccolta di saggi - ruota attorno ad un tema classico della mitologia fascista, ossia l’ossessione, se non il vero e proprio culto della “bella morte” che fu il canovaccio ideologico del regime e successivamente, in modo univoco, della RSI.
Emendato da alcuni errori evitabili da parte di chi ha corretto le bozze del volume (su tutti la descrizione a p. 32 dei franchi tiratori fiorentini ripresa per l’ennesima volta da “La Pelle” di Curzio Malaparte senza nessun accenno agli studi successivi sul tema, e la vicenda delle esecuzioni sommarie dei fascisti a guerra finita, dove l’autore si contenta delle “sparate” di alcuni pubblicisti, ignorando gli studi di Crainz e Onofri, gli unici a offrire la credibile cifra di 10.000 morti), il volume lascia spazio per riflessioni interessanti anche per gli storici di professione.
Ci è parso, al riguardo, davvero illuminante il paragrafo dedicato alla storia della truculenza, dove si osserva assai bene come lo stile denso di immagini mortuarie, cimiteriali e granguignolesche della poetica, della ritualità e soprattutto delle canzoni fasciste, fosse pienamente iscrivibile nella tradizione risorgimentale e liberale del nostro paese; ed effettivamente i “siam pronti alla morte”, i “procomberò sol io”, i “caldi bagni di sangue”, i giuramenti cruenti di carboneria e massoneria contengono quasi tutti gli elementi della retorica mussoliniana, per troppo tempo ritenuta avulsa dalla storia dell’Italia liberale.
Nel seguito del lavoro, Accame concentra la sua attenzione su quelli che furono i “màitre a penser” della sua generazione e di quella dei post-fascisti, la quale sostanzialmente interpretò e comprese il regime (o la propria diretta esperienza giovanile nella RSI) non tanto mentre i fatti si svolgevano, ma a cose fatte e spesso con spirito critico. Ed ecco quindi una carrellata su Gentile, Celine, Codreanu, Cioran, Brasillach, Heidegger, Primo de Rivera (elencati qui in ordine sparso), per i quali l’autore cerca, non diversamente da quanto detto dianzi, di far comprendere come la loro esperienza umana, letteraria e filosofica, non fosse totalmente avulsa dalla storia degli intellettuali del loro periodo.
Quella cultura, insomma, per disperata, insofferente, violenta e razzista che fosse, non era un “altro da se” rispetto a quella europea del XX secolo. Ne era invece parte integrante e forse insostituibile.
Chi scrive queste note condivide solo in parte il lavoro di Accame; resta comunque inteso che ogni intellettuale dovrebbe disturbare la propria coscienza anche con la lettura di cose lontane dal proprio sentire, non fosse altro per comprendere come ci si sente nei panni di un altro. Specie se perdente e sconfitto.

giovedì 29 aprile 2010

Venticinque aprile e dintorni

Dal sangue dei vinti all’ira dei vincitori
Angelo del Boca (a cura di), La storia negata, Vicenza, Neri Pozza, 2009

Il lavoro collettaneo coordinato da Angelo del Boca è un volume degno di nota e denso di spunti di riflessione; autori con competenze vaste e riconosciute si sono cimentati, ognuno nei propri ambiti di studio, a commentare i lavori che hanno analizzato criticamente (o hanno “revisionato” come vedremo fra poco) alcune tra le principali pagine della storia contemporanea del nostro paese: il Risorgimento, le imprese coloniali, il ventennio mussoliniano, la guerra mondiale, la Resistenza, le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei, i rapporti tra Chiesa (ça va sans dire…) e Stato, il patto costituente e il ruolo del PCI nel secondo dopoguerra. Abbiamo ritenuto che a uno studio di questo genere dovesse essere lasciato uno spazio maggiore della consueta recensione, e quindi ORIENTAMENTI STORICI si occuperà integralmente dei saggi in esso contenuti.

La prima considerazione, a monte rispetto a tutte le altre, riguarda l’atteggiamento di chi scrive queste note rispetto alla storiografia contemporanea. Per quanto ci riguarda – e non sappiamo onestamente se altri studiosi sono arrivati alle stesse nostre modeste considerazioni – esistono due tipi di fatti e due tipi di storia; i fatti si dividono fra quelli che sono avvenuti e quelli che non sono avvenuti, mentre le due tipologie di storia sono queste: quella cattiva e quella buona, indipendentemente da ideologie, filosofie, scuole di pensiero o politiche. Una buona ricostruzione storica è quella che in modo documentato affronta un argomento, indipendentemente dalle conclusioni a cui arrivi. Una cattiva ricostruzione storica è quella che presentando lavori scarsamente documentati, monchi o reticenti, pretende di raccontare le cose in modo diverso da come sono avvenute, o peggio, di negare che alcune cose sono accadute, o ancora, di sostenere che sono accadute cose in realtà mai avvenute.
Se dovessimo rifarci ad un concetto espresso da altri, ci è sempre piaciuto quanto sosteneva Renzo de Felice a metà degli anni ’70, con una frase che oggi ci pare uscita dalle massime di monsieur de La Palisse, ma che alla luce delle fumose ideologie che hanno condizionato una parte della storiografia del nostro paese, non appare tanto scontata, ossia: “prima di interpretare un fatto, sarebbe bene ricostruirlo, e non il contrario”.
Arriviamo quindi all’oggi e al tema del revisionismo, che è centrale nel volume che analizziamo, e su cui Angelo del Boca riversa la sua dolorosa intemerata, sostenendo che esso è un fenomeno “… che ha raggiunto i suoi vertici e speriamo la sua fase finale nel primo decennio del nuovo millennio…” (p. 9). Se cercassimo una spiegazione razionale da parte del Curatore di cosa ci sia di deleterio nel “revisionismo” potremmo restare delusi, almeno per quel che ci riguarda, in quanto il egli parla di “subdola offensiva tesa alla cancellazione della memoria storica”, il che purtroppo vuol dire tutto e nulla. I riferimenti a fatti concreti sono discontinui e non sempre coerenti: Del Boca se la rifà - con qualche ragione - alle memorie dei generali italiani che condussero il secondo conflitto mondiale (Roatta, Badoglio ed altri) ai volumi di storia coloniale pubblicati sotto egida governativa negli anni ’50 (anch’essi non commendevoli) e alle opere di Renzo de Felice, di cui pare invidi la veste grafica e critichi il periodare. Fin qui ci sarebbe da chiedersi, visto che siamo lontani diversi lustri dall’attualità, dove sia l’urgenza civile del volume. Di seguito rinveniamo un “j’accuse” nei confronti della politica culturale di centro destra in generale e di alcuni exploit di singoli esponenti dell’attuale maggioranza, che onestamente non ci paiono in grado di dare turbativa o condizionamento alla ricerca storica del nostro paese. Ma questa è solo la nostra opinione.
Dopo una ventina di pagine di rampogne si giunge al presente, e crediamo, allo snodo centrale del libro, ossia le opere recenti che Giampaolo Pansa ha dedicato agli episodi di sangue avvenuti alla fine della guerra nel nord Italia; su Pansa ci limitiamo a far presente che ci è parsa sgradevole l’attenzione di Del Boca ai rapporti personali tra i due e crediamo che una amicizia guastata non giustifichi la stesura di un libro.
Purtroppo, anche in questa parte, manca un riferimento ad un episodio, ad un fatto, ad una ricostruzione storica inventata o fallace. Unica (giusta) considerazione critica su una questione precisa, è quella sul computo dei caduti fascisti a guerra finita, che, sino a prova contraria, sono i circa 10.000 dell’indagine che curò negli anni ’50 la direzione centrale della Pubblica Sicurezza. Poi Del Boca ritorna a tuonare sino a p. 40, ossia al termine della sua introduzione, contro il rovescismo, ossia “il sistematico rovesciamento di giudizio sul 1943-45” operato da Giampaolo Pansa ed altri studiosi.
A questo punto ci chiediamo, davvero in modo non provocatorio: e se anche fosse? Cioè: se il giornalista piemontese oggetto degli strali di Del Boca avesse ribaltato l’interpretazione corrente (il “senso comune della storia”, criptica espressione che si rinviene anche nei saggi di Mimmo Franzinelli e Aldo Agosti), come dovrebbe reagire la comunità degli storici? Torniamo all’inizio: i fatti di cui parla Pansa, sono accaduti o no? Se non fossero accaduti, bene si farebbe a dare di righello sulle dita dell’ex editorialista de L’Espresso, ma così non è. Ed infatti, paradossalmente, non uno degli studiosi sbugiarda l’autore de “Il sangue dei vinti”. Non un solo episodio fra quelli narrati da Pansa viene presentato come fasullo, inventato, falsificato, inesistente o anche soltanto esagerato. Si sostiene che ci si trova di fronte ad opere senza citazione delle fonti (e così non è: su questo rimandiamo all’attenta analisi di Paolo Martinucci in Cultura e Identità n. 1-2009), come se non ci fossero testi resistenziali pubblicati a decine, a centinaia senza uno straccio di nota in calce e nonostante ciò ritenuti per decenni non modificabili, ignorando errori marchiani nelle ricostruzioni storiche che si sono riprodotti per lustri. Sono questi i “testi sacri” di cui occorre tutelare la memoria? E’ questo il “senso comune della storia”? Queste domande non ci appaiono esercizio retorico e pensiamo invece che debbano essere al centro del dibattito sugli spinosi aspetti della guerra di Liberazione.
Tornando al volume, in realtà ci si trova di fronte a saggi di diseguale contenuto e valore, alcuni dei quali contrastano in modo piuttosto stridente con gli obiettivi elencati dal curatore.

Mario Isnenghi svolge una puntuta e interessante analisi di studi e romanzi che nel corso del ‘900 hanno “revisionato” i valori fondanti della nazione, anzi “i miti fondativi della Nazione” come lo storico veneziano tiene a distinguere, aggiungendo che da sempre opere divulgative o di modesto valore storico, quando prendono le parti degli sconfitti (esemplare il caso de “L’alfiere” di Carlo Alianello) suscitano l’empatia del lettore, anche se questi magari non è un amante del cardinal Ruffo o di Franceschiello. In questo Isnenghi centra il bersaglio non solo per l’800 ma anche per la stagione del fascismo e della Resistenza.
Nicola Labanca nell’affrontare le alterne vicende della storiografia coloniale non può non constatare come esistano studi di valore assai diseguale, e che appare duro a morire il mito degli “italiani brava gente. Di seguito però anch’egli ammette che le voci critiche a questo mito non sono mai mancate (gli stessi volumi di Angelo del Boca hanno avuto ampissima diffusione) e che alcuni ricercatori anti-colonialisti in realtà, hanno svolto indagini di livello men che mediocre esattamente come gli esaltatori postumi dell’Africa italiana, a dimostrazione ulteriore che la discriminante è fra buona e cattiva storiografia, e non “revisione si o no”.
Di Nicola Tranfaglia ricordiamo pagine migliori; la sua analisi della presa del potere del fascismo è un onesto saggio di storiografia marxista, nel quale scoprire (a p. 119) che don Luigi Sturzo “fu inviato in esilio dal Vaticano” (fu espulso da piazza San Pietro, ossia dai confini territoriali di quello stato?) lascia qualche perplessità.
Giorgio Rochat con la franchezza che lo contraddistingue, evita di entrare nella diatriba sui pregi e le nequizie del revisionismo, e bastona in modo equanime (con nostro sommo gaudio) tutti quegli studiosi che hanno marginalizzato la storia militare del ventennio e delle sue guerre, che furono invece la cartina di tornasole del fallimento politico del fascismo; in questo non si salva nessuno, ne’ a destra ne’ a sinistra. E non possiamo dargli torto.
A occuparsi delle pagine anticlericali, che evidentemente sono un dazio dovuto in ogni opera di studio contemporaneo, è Lucia Ceci. Le affermazioni di questa ricercatrice, in verità, non sono particolarmente critiche; anzi, nell’analizzare alcune delle più recenti opere che intendono confutare “la leggenda nera” della Chiesa in Italia, la Ceci ammette le superficialità di una certa storiografia anticattolica. Anche qui emerge – anche se a fatica – la vera distinzione, che resta quella tra studi storici attendibili e quelli non verificabili. Possiamo dissentire, per ovvi motivi, dal suo giudizio su San Josemaria Escrivà, ma quantomeno sul fondatore dell’Opus Dei si evitano i terribili sfondoni alla Dan Brown.
Mimmo Franzinelli si mostra scandalizzato per il culto postumo del duce, facendone risalire le origini alle opere giornalistiche e divulgative di Paolo Monelli, Indro Montanelli ed altri, trovando un improbabile nesso causale fra questi volumi e i pellegrinaggi predappiani che da oltre cinquant’anni fanno parte del folklore romagnolo. In ogni caso Angelo Maria Tam, citato da Franzinelli come celebrante dei vari riti commemorativi in camicia nera, non è un sacerdote cattolico, ma un appartenente al movimento scismatico dei lefevriani. Anzi, a quanto ci risulta le sue apparizioni sono precedute e seguite da ammonizioni chiare dei sacerdoti diocesani sui rapporti (inesistenti) fra questo personaggio e la Chiesa cattolica. Comunque perdoniamo a Franzinelli la poca dimestichezza su questi aspetti forse troppo “curiale”.
Il saggio di Enzo Collotti ci ha invece suscitato grande tristezza, in quanto questo autore ha scritto in passato pagine davvero fondamentali sull’occupazione tedesca nel nostro paese. Occupandosi della storiografia sulla Shoah, Collotti si mette in un ottica inutilmente polemica, con un paio di svarioni sconcertanti. Davvero non si capisce l’utilità di polemizzare con Raul Hilberg ed altri studiosi internazionali di alto e altissimo livello che, al contrario di Collotti, hanno sostenuto come l’esercito regio, per iniziativa di singoli e di capi, cercò di evitare lo sterminio degli ebrei jugoslavi o di quelli profughi nella nostra zona di occupazione in Francia. Lo storico maneggia poi malamente la vicenda di Giovanni Palatucci, la quale può essere forse ridimensionata, ma non ridotta a caricatura, con una incredibile imprecisione: “Laurus Robuffo” che secondo Collotti è lo pseudonimo dell’autore della biografia su Palatucci curata dalla Polizia di Stato (p. 249) è invece il nome della casa editrice (!). Basarsi anche su questo per dimostrare la scarsa qualità del volume è imbarazzante.
Le pagine redatte da Aldo Agosti hanno il profumo delle Botteghe Oscure del tempo che fu, con una visione e una descrizione del PCI togliattiano che pare uscire dalla penna di Luigi Longo; in esse si ignorano le acquisizioni storiografiche degli ultimi vent’anni, anzi: esse vengono, anche in questo caso, ridotte a caricatura, a inutile fastidio, se non addirittura come – seguendo l’antica logica complottistica – un disegno ordito ai danni del "grande partito dei lavoratori italiani". In quest’ottica c’è da chiedersi quale dovrebbe essere una visione non deviazionista della storia del PCI secondo Agosti. Probabilmente, a leggere alcuni brani di sue corrispondenze, neppure Antonio Gramsci avrebbe avuto il giusto “pedigree” per parlare di comunismo.
Giovanni de Luna, nel trattare il centrale argomento del revisionismo e della Resistenza, dice in modo documentato cose che non condividiamo; in questo è in piena libertà di farlo, anche se pare non concedere la stessa dignità alle correnti storiografiche diverse dalla sua. L’analisi dell’evoluzione del pensiero defeliciano è sostanzialmente corretta, ma davvero non comprendiamo l’irritazione per il fatto che lo studioso reatino sostenesse che quella dell’antifascismo e della Resistenza era una storia di una minoranza in lotta con un’altra minoranza, quella dei fascisti di Salò, mentre la maggioranza della borghesia (la “ggente” che evidentemente de Luna non sopporta) sperava solo che tutto finisse quanto prima. Ma anche se fosse davvero andata così, non si capisce il problema. Perché chi scrive queste note non dovrebbe avere diritto a dire che “la dura pedagogia azionista” di cui parla de Luna a parer nostro è una solenne baggianata? Perché le parole di un personaggio che poco amiamo come Guglielmo Giannini citato dall’autore del saggio in quanto sosteneva: “noi vogliamo vivere tranquilli, vogliamo un abito nuovo, poter andare in villeggiatura” (p. 324), deve essere aborrito come esempio di “medietas”? E perché dovremmo essere tutti amanti delle minoranze eroiche? Anche queste domande non ci paiono oziose specie fra chi si occupa di storia in modo scientifico.
Infine il “flamboyant” Angelo d’Orsi, che ci sta troppo simpatico per dedicargli una stroncatura. Le sue “colonne di fuoco” sulla fase estrema del revisionismo, ossia il “rovescismo pansiano” da un lato sono piacevolissime da leggere, e dall’altro mancano di un requisito non irrilevante: la citazione di un singolo caso in cui il deprecato giornalista monferrino abbia riportato fatti non avvenuti.
Ma ad Angelo perdoniamo questo ed altro: siamo plurali, democratici, e pure ecumenici. Anche se non si direbbe.

domenica 21 febbraio 2010

Ingerenze vaticane?

Una democrazia impossibile
Maurizio Serio, Il mito della democrazia sociale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009


La vicenda politica e umana di Giovanni Gronchi, il primo democristiano eletto capo dello stato, è stata studiata negli scorsi anni in modo disattento, fermo restando il fatto che i leader della DC hanno goduto generalmente di considerazioni parziali e intermittenti da parte degli studiosi accademici italiani: si è dovuto ad esempio attendere il XX anniversario della morte di Benigno Zaccagnini per vedere finalmente indagini serie e ponderate sullo statista romagnolo. Maurizio Serio, sin dalle premesse, più che compiere un’analisi biografica, svolge un inchiesta accurata sul motivo conduttore dell’azione politica del politico di Pontedera, ossia il “mito” – da sempre oggetto delle analisi dell’Autore – di un partito cattolico attore prevalente della rivoluzione che avrebbe dovuto portare il lavoro al centro dell’azione politica dello stato: la “democrazia sociale” che da il titolo al volume. In realtà, come si osserva nella ricerca, questo mito non fu mai descritto in modo chiaro da Gronchi, anzi, se possibile egli lo declinò sempre “al negativo”; l’azione politica del futuro presidente della repubblica fu infatti una incessante lotta contro il liberalismo, sia inteso in senso classico, come pure nelle correnti che avevano fatto presa all’interno del cattolicesimo italiano. Se osservato in quest’ottica, ci fu un filo conduttore nel contraddittorio percorso del politico toscano, il quale nel giro di trent’anni ebbe modo di essere al fianco di Luigi Sturzo nel Partito Popolare, poi sottosegretario nel primo gabinetto di Benito Mussolini, fino a giungere al governo con Alcide de Gasperi. Lo studio di Maurizio Serio, condotto su rigorose indagini d’archivio e una ricca bibliografia, restituisce a parer nostro non solo il percorso umano dello statista pisano, ma anche lo specchio di un’epoca; furono infatti molti i leader politico di ogni colore, nel corso del XX secolo, a preconizzare la fine del liberalismo e della democrazia, che doveva essere sostituita da “stati sociali” ed “equilibri avanzati” di ogni colore politico, dal salazarismo portoghese al socialismo di stato sovietico, passando attraverso lo stato-partito nazista e le corporazioni fasciste (di cui Gronchi si innamorò per qualche tempo). Pochi – forse solo il ramingo don Luigi Sturzo – capirono fin da subito i limiti di questa prospettiva, la quale nessun legame aveva con le esigenze vere e vive dei popoli europei. Egli fu buon profeta, purtroppo poco ascoltato, come spesso avviene. Il “mito” della democrazia sociale, infatti è in gran parte intatto ancora oggi per molti politici italiani.
La storia non si riscrive?
Giuseppe Brienza, Unità senza identità, Chieti, Solfanelli, 2009

Giuseppe Brienza, a differenza di diversi maître à penser, non ha la pretesa di dare autorevoli conferme o altrettanto ingombranti smentite alle consolidate (mummificate?) interpretazioni sul risorgimento italiano, ma semplicemente di far riflettere il lettore su alcune pagine ritenute “inalterabili” nella storia del secondo cinquantennio del secolo XIX. Il compito dello studioso romano è arduo, in quanto nel nostro paese pare che tutto ciò che in qualche modo possa mettere in discussione una storiografia che talvolta odora di ideologie fallite e stantìe, è in genere considerato operazione effettuata da potenze oscure, illiberali e reazionarie, per fini (ovviamente!) non limpidi.
E’ questa, a parer nostro, una vera e propria forma di “horror vacui”: si teme che spiegando o ricostruendo i fatti in altro modo, possano crollare non tanto le affastellate vestigia di studi talvolta ultracentenari, ma addirittura l’architettura costituzionale e l’unità nazionale; perfino uno studioso non tacciabile di simpatie verso questa forma di “revisionismo”, come Mario Isnenghi, ha parlato con grande spregiudicatezza di questo tema nel volume collettaneo curato da Angelo del Boca La storia negata (Vicenza, Neri Pozza, 2009).
Brienza non ha la pretesa di dare lezioni a nessuno, ma solo di far riflettere sul fatto che la “piallatura” – talvolta sanguinosa e intollerante verso le tradizioni di molte regioni italiane – avvenuta nel trentennio successivo all’unità d’Italia, fu il vero e proprio “peccato orginale” da cui discesero i mali di cui la nazione soffre da un secolo e mezzo: la scarsa coesione sociale, il progresso di una parte costruito sull’abbandono dell’altra, l’abolizione di molti usi e costumi, talvolta anche fortemente indipendenti da loro, per un’uniformità di facciata che poco ha giovato alla costruzione del paese.
E’ davvero meritevole di un’anatema “laico, liberale e libertario” chi si pone in quest’ottica? E, di grazia, per quale ragione non possiamo ragionare attorno a quei temi? Infelice epoca davvero, quella in cui non ci si fanno domande per paura delle risposte…



Un pastore e la sua epoca
Paolo Gheda (a cura di), Siri, la Chiesa, l’Italia, Genova, Marietti, 2010

E’ noto che alcune “leggende nere” create per fini politici attorno ad alcune figure di pastori della Chiesa, siano rimaste tali anche nei libri di storia. E così, come molti miti e leggende, il cardinale Giuseppe Siri, anche a causa di furbesche estrapolazioni dei suoi pensieri e delle sue parole, è passato dalla cronaca dei giornali di partito alla storia titolata come il “reazionario Siri”, non diversamente da come Giovanni Lercaro è divenuto per contrapposizione “il progressista Lercaro”. Tutto ciò sarebbe risibile se gli studiosi, almeno quelli in buona fede, si fossero attenuti alla mai abbastanza ricordata regola di Renzo de Felice, per cui la storia prima si ricostruisce e poi si interpreta, e non il contrario.

Questo pregevole volume collettaneo curato da Paolo Gheda, non ha la pretesa di rendere giustizia nei confronti di questa o quella tesi, ma semplicemente di studiare Giuseppe Siri come si farebbe con qualsiasi altra figura storica: senza pregiudizi, e ripartendo da documenti, bibliografia, carteggi e testimonianze. Da questa imponente raccolta di scritti emerge un quadro assai composito dell’attività pastorale del cardinale di Genova, e il ruolo tutt’altro che marginale che ebbe nelle scelte della chiesa a cavallo degli snodi cruciali della conclusione del Concilio e dell’ondata rivoluzionaria del 1968. A tessere i fili della narrazione studiosi e ricercatori di primo piano, coordinati con grande bravura da Gheda: Benny Lai, Gaetano Quagliarello, Lorenzo Ornaghi, Danilo Veneruso, Pietro Borzomati, Roberto de Mattei e lo steso curatore, ci offrono tasselli inediti o poco noti dell’intensa attività pastorale di Giuseppe Siri, e dell’influenza che ebbe in alcune scelte decisive del complesso pontificato di Paolo VI, a partire dalla contrarietà all’uso dei mezzi di contraccezione, poi esplicitata nell’enciclica “Humanae Vitae”; il volume è di facile e appassionante lettura, nonostante i nodi affrontati siano tutt’altro che semplici. Resta da chiedersi, anche in questo caso, come mai si sia dovuto attendere più di vent'anni dalla scomparsa dell'illustre presule prima che sia stata possibile analizzare senza pregiudizi questa stagione della chiesa italiana. Ci auguriamo che questo articolato lavoro d'equipe potrà essere sufficiente a smontare l'ombra nera calata su questo protagonista del concilio vaticano secondo.