Soldati normali?
Guido Knopp, Wehrmacht, Milano, Corbaccio 2010
Guido Knopp è un divulgatore televisivo serio e preparato; nelle indagini sulla dittatura nazista il suo tratto distintivo è quello di privilegiare, con stile giornalistico, l’osservazione “dal basso”, specie tramite testimonianze, narrazioni, diari e memorie di coloro che vissero in prima persona la stagione del 3° Reich.
In questo volume, sintesi di una indagine condotta per la rete TV tedesca ZDF, l’autore affronta un tema scabroso e impegnativo, ossia la nazificazione delle forze armate dopo il 1933. Il dibattito su questo tema, come è noto, è ancora acceso e aperto fra gli studiosi tedeschi. Nel lungo excursus che caratterizza la parte iniziale dello studio, in verità, Knopp non si distacca troppo da alcune interpretazioni “mainstream”; per l’autore, infatti, l’influsso del regime ci fu, e in molti casi fu proprio la nobiltà di rango a mostrarsi entusiasta del nuovo corso ideologico imposto dal Fuehrer. Il “blasone immacolato” della Wehrmacht, insomma, è poco meno di una favola, e i cavalieri senza macchia e senza paura di questo stendardo, l’”Offizialitat” prussiana, erano in realtà ben felici di un regime da cui avevano ottenuto cospicui vantaggi sociali ed economici.
La parte a nostro avviso più interessante, come spesso accade nelle opere di Knopp, è comunque quella dei racconti, specie di chi militava nella truppa durante la seconda guerra mondiale. Il quadro che emerge è quello di un esercito in cui si combatteva, si moriva e si uccideva (anche compiendo atrocità sistematiche) con una genuina fede nel Fuehrer, confortata dal filotto di vittorie del 1939-42. Sono infatti scarse le testimonianze di opposizione alla condotta senza scrupoli delle operazioni belliche in questa fase. Poi, soprattutto dal 1943 (e dalla sconfitta di Stalingrado, vero spartiacque), la discrasia fra la propaganda di Joseph Goebbels e la realtà, inizia ad essere evidente per tutti.
Nonostante il susseguirsi di sconfitte, però, il fronte interno tiene, e l’esercito non mostra cedimenti; dalle memorie dei giovani di allora emerge un quadro di generale acquiescenza: si compie il proprio dovere non più per fede nazista (anche se alcuni fanatici terranno duro proprio per quel motivo sino al 1945), ma per altri valori non meno importanti: il cameratismo su tutto, ma anche la sensazione di dover difendere la madrepatria dall’Armata Rossa (di tenore assai diverso le testimonianze di chi combatteva inglesi e americani) o il senso del dovere a cui non ci si può sottrarre, nemmeno di fronte a ordini sanguinari.
La disfatta del maggio 1945 giungerà quindi attesa da tutti, ma il modo di affrontarla sarà molto diverso a seconda dei fronti e della condizione psicologica di chi si troverà a dover affrontare le conseguenze della sconfitta. Si va quindi dal soldato qualsiasi, in fondo lieto di essere arrivato vivo al termine dell’avventura, alle paradossali situazioni dei comandanti dei vari fronti, i quali dopo aver invitato alla resistenza sino all’ultimo sangue, sono costretti ad accettare l’amaro calice della capitolazione senza condizioni.
Ricordiamo, fra i singoli episodi, almeno due degni di nota, riguardanti alti ufficiali di provata fede hitleriana: il feldmaresciallo Walter Model, che dopo aver compreso di essere stato abbandonato dal Fuehrer nella sacca della Ruhr, maledice la sua dabbenaggine e il regime nazista, e si suicida. Un altro feldmaresciallo, il durissimo Ferdinand Schoerner (noto come l’impiccatore dei disertori) troverà invece una soluzione meno cruenta: l’abito borghese e la fuga in aereo da Praga verso i sicuri lidi degli alleati occidentali. I quali però lo rinvieranno come criminale di guerra verso una poco acquiescente alta corte di giustizia sovietica.
Italiani, gente così così.
Thomas Schlemmer, Invasori non vittime, Bari, Laterza, 2010
Il lavoro di Thomas Schlemmer andrebbe letto assieme, o immediatamente dopo qualsiasi volume della sterminata bibliografia dedicata alla campagna di Russia, quantomeno per dare un senso della misura ad alcune descrizioni zuccherose tipiche della memorialistica nostrana.
La sintesi dell’opera è ben rappresentata dal titolo del volume: fummo invasori in Russia al pari dei tedeschi, ne’ più ne’ meno, così come fummo occupanti in Francia, Jugoslavia e in Grecia, con l’unica differenza che per queste ultime aree esiste oggi - e finalmente - una bibliografia scientifica consolidata; forse (ma questo Schlemmer non lo dice) nel caso dell’URSS siamo stati pure più vigliacchetti, in quanto a differenza dei casi precedentemente elencati, non eravamo nemmeno confinanti con l’Unione Sovietica: gli ungheresi, i romeni e persino gli slovacchi potevano accampare rivendicazioni territoriali su regioni oggetto di dispute secolari; chi aveva inviato truppe per la “battaglia contro il bolscevismo” si era invece limitato a contingenti poco più che simbolici, come la “Division Azul” spagnola, il reggimento dei volontari francesi, o il battaglione vallone, tutti comunque in perfetta uniforme tedesca, come del resto i volontari europei delle SS.
Schlemmer fa giustizia delle innumerevoli descrizioni tese a esaltare l’italico valore a fronte delle carenze in armamento ed equipaggiamento: l’inverno sovietico fu durissimo per tutte le forze dell’asse, e gli stivali di cuoio dei tedeschi non erano di tanto migliori dei terribili scarponi italiani, così come i cappotti della Wehrmacht non proteggevano dal freddo meglio di quelli nostrani. Allo stesso tempo alcune vittoriose azioni del CSIR condotte nell’estate 1941 furono brillanti come e forse più di quelle tedesche.
Proseguendo in questo parallelo, l’autore evidenzia come la tradizionale bonomia nostrana risulti parecchio ridimensionata: fummo crudeli con i civili, sfruttatori sistematici delle risorse agricole ed economiche del territorio occupato, razzisti (terribili alcune testimonianze di odio antisemita da parte di “soldati qualunque”). E pure fucilatori.
Si dirà, a questo punto, che contano le dimensioni; nell’esperienza italiana in URSS manca la sistematica e selvaggia azione degli Einsatzkommando, o dei battaglioni di polizia nazisti. Ed è certamente vero. Però è soltanto questo il criterio che ci rende “italiani brava gente”? Eravamo poi così migliori dai romeni o dagli ungheresi (mancano purtroppo nel volume paragoni con le esperienze degli altri invasori) o dei falangisti spagnoli?
Crediamo che il pregio principale dell’opera, ben costruita e documentata, sia soprattutto quello di aprire questioni e stimolare la ricerca, magari proprio sul versante della comparazione con le esperienze degli altri alleati-occupanti dell’Asse.
L’unica riserva che ci sentiamo di esprimere riguarda la tipologia di quella guerra, che comportò anche in molti luoghi il disfacimento delle strutture di governo staliniane. Gli italiani, specie nel periodo in cui furono in Ucraina, ebbero a che fare con un robusto collaborazionismo a sfondo nazionalista di cui però non c’è quasi traccia nel volume. La locale polizia ausiliaria dai distintivi gialloblù, che per noi come per i tedeschi fu indispensabile strumento di controllo e cruenta repressione, compare in modo sporadico, e per episodi marginali. Crediamo invece che – non per sminuire le nostre responsabilità di occupanti – anche questa pagina andasse analizzata in modo più dettagliato: tanti, nei luoghi dove fummo presenti prima col CSIR e poi con l’ARMIR videro in noi, come nei tedeschi, una tenue speranza di emancipazione dalla dittatura comunista. Le foto dei contadini che offrivano pane e sale ai soldati con la svastica come a quelli con il tricolore sabaudo, a parer nostro, non erano solo ad uso della propaganda nazifascista.
Pretacci e nazisti?
Gerald Steinacher, La via segreta dei nazisti, Milano, Rizzoli, 2010
Nell’affrontare la lettura di questo eccellente saggio di Gerald Steinacher, abbiamo dovuto superare uno scoglio di non lieve entità, ossia un sottotitolo repulsivo, che per la posizione sulla copertina risulta in apparenza il vero titolo del volume, ossia: “come l’Italia e il Vaticano salvarono la vita ai nazisti”.
E’ una dimostrazione palese di come questa casa editrice, a scopo pubblicitario e promozionale, abbia sfruttato l’ondata anticlericale che scuote tanta parte della nazione, immaginiamo per far presa su chi, come acutamente sosteneva monsignor Ersilio Tonini, “ha smesso di essere credente per diventare credulone”.
Lo studio è invece cosa ben diversa e assai più seria dei tanti volumi denigratori che costellano le librerie italiane; fare un’operazione di scadente marketing di questo tipo ci appare davvero deprimente per un editore come Rizzoli, ma evidentemente in tempi di crisi non si guarda in faccia a nessuno, e forse si legge poco anche dentro ai libri che si decide di stampare…
L’Autore infatti dimostra che nella triste vicenda della fuga dei criminali nazisti, si intrecciarono istituzioni e autorità diverse, spesso con interessi divergenti. Fra i responsabili infatti, a differenza di quel che si legge in copertina, non ci fu “il Vaticano”, ma singoli elementi di ogni livello e responsabilità nella gerarchia ecclesiastica, così come ebbero responsabilità singoli elementi dei servizi segreti americani (anche in questo caso con notevoli conflittualità interne) e singoli elementi della Croce rossa internazionale.
E’ peraltro vero che alcuni di questi soggetti avevano posizioni di rilievo in varie organizzazioni, come Alois Hudal, rettore del Collegio germanico a Roma, o Krunoslav Draganovic, segretario dell’Istituto croato di San Girolamo, sempre nella capitale. Emerge però che altri appartenenti alla Chiesa cattolica i quali agirono anch’essi in modo torbido (i sacerdoti altoatesini che protessero e ri-battezzarono con formule discutibili alcuni ex-nazisti di alto rango) erano animati da sentimenti e interessi diversi dai sopra citati prelati. Quindi è lo stesso Steinacher a smentire la categorica e insulsa copertina del volume.
La verità è che l’immediato dopoguerra fu lungo e difficile da smaltire, ed ebbe un inizio che si fatica persino a posizionare sul calendario, visto che ancora alla fine di maggio del 1945, a Bolzano c’erano pattuglie miste di SS ed MP statunitensi e il traffico dei camion americani era regolato dalla Feldgendarmerie della Wehrmacht, come si vede in alcune stupefacenti fotografie all’interno del volume. L’immenso numero di profughi provenienti da ogni dove e diretti verso le zone più disparate, ebbe nell’Alto adige un suo punto focale: qui i nazisti (ma va detto chiaramente, tutti gli ex soldati tedeschi in generale) poterono contare sulla solidarietà etnica della comunità germanica, nella quale c’erano, in posizione preminente, gli esponenti del clero locale.
In questa già confusa situazione agivano i servizi segreti USA, i quali cercavano i criminali in fuga con squadre di specialisti che rispondevano a interessi eterodossi: chi li voleva per portarli a Norimberga e chi per servirsene per la guerra fredda, ovviamente gli uni all’insaputa degli altri. Ma a volere ex SS, ingegneri, aviatori e specialisti di ogni tipo del defunto regime hitleriano c’erano anche decine di paesi sudamericani, i quali fecero carte false per portarli verso i loro accoglienti lidi, a partire dall’Argentina peronista.
La Croce rossa internazionale, assieme alla Pontificia commissione di assistenza, furono il tramite per dotare di carte credibili i personaggi in questione; ma va detto che, in realtà, queste organizzazioni fecero ogni sforzo per dare documenti di identità a tutti i profughi tedeschi e per aiutare senza distinzione coloro che fuggivano dai paesi diventati comunisti, come la Jugoslavia di Tito, o nazioni che erano ormai nella zona di influenza sovietica, come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Che ci fosse un orientamento anticomunista in questa azione, è fuori di dubbio. Occorre però rammentare – e Steinacher lo fa – che decine di migliaia di persone scappavano da luoghi in cui erano stati instaurati regimi brutali e autoritari. Insomma, chi aveva il potere per farlo, fu di manica assai larga; forse fin troppo. Ma i tempi erano quelli che erano.
In conclusione, esaminiamo una vicenda che Steinacher affronta in modo marginale (e non preciso) ma che è esemplare per comprendere la situazione venutasi a creare al termine della guerra. Migliaia di militari ucraini collaborazionisti, con la consueta rete di aiuti della Chiesa cattolica e della Croce rossa, riuscirono ad evitare il rimpatrio e approdarono nel nord america (specie in Canada), dove rimasero indisturbati e si rifecero una vita. In questo caso più che l’intervento del clero cattolico uniate citato dall’Autore, fu la posizione del loro leader a creare le condizioni del salvataggio: Pavlo Shandruk, infatti, era contemporaneamente comandante della 1° divisione ucraina (all’epoca della resa questi uomini non facevano più parte delle SS, come erroneamente sostiene l’autore) e colonnello dell’esercito polacco, decorato per eroismo dal governo in esilio a Londra per la campagna del 1939. Come lui, quasi tutti i suoi uomini erano assieme polacchi e ucraini, essendo in prevalenza galiziani. Fu Shandruk a trattare personalmente con il comandante del corpo polacco Wladislaw Anders la resa e la posizione giuridica dei suoi soldati. Restituire questi uomini a Stalin, a tutti gli effetti sarebbe stato un abuso; da qui le vicende successive.
Morale: a fare semplici le cose difficili, si rischia di scrivere stupidaggini. Cosa che Steinacher non ha fatto, a differenza di alcuni zelanti addetti al marketing di Rizzoli.
Guido Knopp, Wehrmacht, Milano, Corbaccio 2010
Guido Knopp è un divulgatore televisivo serio e preparato; nelle indagini sulla dittatura nazista il suo tratto distintivo è quello di privilegiare, con stile giornalistico, l’osservazione “dal basso”, specie tramite testimonianze, narrazioni, diari e memorie di coloro che vissero in prima persona la stagione del 3° Reich.
In questo volume, sintesi di una indagine condotta per la rete TV tedesca ZDF, l’autore affronta un tema scabroso e impegnativo, ossia la nazificazione delle forze armate dopo il 1933. Il dibattito su questo tema, come è noto, è ancora acceso e aperto fra gli studiosi tedeschi. Nel lungo excursus che caratterizza la parte iniziale dello studio, in verità, Knopp non si distacca troppo da alcune interpretazioni “mainstream”; per l’autore, infatti, l’influsso del regime ci fu, e in molti casi fu proprio la nobiltà di rango a mostrarsi entusiasta del nuovo corso ideologico imposto dal Fuehrer. Il “blasone immacolato” della Wehrmacht, insomma, è poco meno di una favola, e i cavalieri senza macchia e senza paura di questo stendardo, l’”Offizialitat” prussiana, erano in realtà ben felici di un regime da cui avevano ottenuto cospicui vantaggi sociali ed economici.
La parte a nostro avviso più interessante, come spesso accade nelle opere di Knopp, è comunque quella dei racconti, specie di chi militava nella truppa durante la seconda guerra mondiale. Il quadro che emerge è quello di un esercito in cui si combatteva, si moriva e si uccideva (anche compiendo atrocità sistematiche) con una genuina fede nel Fuehrer, confortata dal filotto di vittorie del 1939-42. Sono infatti scarse le testimonianze di opposizione alla condotta senza scrupoli delle operazioni belliche in questa fase. Poi, soprattutto dal 1943 (e dalla sconfitta di Stalingrado, vero spartiacque), la discrasia fra la propaganda di Joseph Goebbels e la realtà, inizia ad essere evidente per tutti.
Nonostante il susseguirsi di sconfitte, però, il fronte interno tiene, e l’esercito non mostra cedimenti; dalle memorie dei giovani di allora emerge un quadro di generale acquiescenza: si compie il proprio dovere non più per fede nazista (anche se alcuni fanatici terranno duro proprio per quel motivo sino al 1945), ma per altri valori non meno importanti: il cameratismo su tutto, ma anche la sensazione di dover difendere la madrepatria dall’Armata Rossa (di tenore assai diverso le testimonianze di chi combatteva inglesi e americani) o il senso del dovere a cui non ci si può sottrarre, nemmeno di fronte a ordini sanguinari.
La disfatta del maggio 1945 giungerà quindi attesa da tutti, ma il modo di affrontarla sarà molto diverso a seconda dei fronti e della condizione psicologica di chi si troverà a dover affrontare le conseguenze della sconfitta. Si va quindi dal soldato qualsiasi, in fondo lieto di essere arrivato vivo al termine dell’avventura, alle paradossali situazioni dei comandanti dei vari fronti, i quali dopo aver invitato alla resistenza sino all’ultimo sangue, sono costretti ad accettare l’amaro calice della capitolazione senza condizioni.
Ricordiamo, fra i singoli episodi, almeno due degni di nota, riguardanti alti ufficiali di provata fede hitleriana: il feldmaresciallo Walter Model, che dopo aver compreso di essere stato abbandonato dal Fuehrer nella sacca della Ruhr, maledice la sua dabbenaggine e il regime nazista, e si suicida. Un altro feldmaresciallo, il durissimo Ferdinand Schoerner (noto come l’impiccatore dei disertori) troverà invece una soluzione meno cruenta: l’abito borghese e la fuga in aereo da Praga verso i sicuri lidi degli alleati occidentali. I quali però lo rinvieranno come criminale di guerra verso una poco acquiescente alta corte di giustizia sovietica.
Italiani, gente così così.
Thomas Schlemmer, Invasori non vittime, Bari, Laterza, 2010
Il lavoro di Thomas Schlemmer andrebbe letto assieme, o immediatamente dopo qualsiasi volume della sterminata bibliografia dedicata alla campagna di Russia, quantomeno per dare un senso della misura ad alcune descrizioni zuccherose tipiche della memorialistica nostrana.
La sintesi dell’opera è ben rappresentata dal titolo del volume: fummo invasori in Russia al pari dei tedeschi, ne’ più ne’ meno, così come fummo occupanti in Francia, Jugoslavia e in Grecia, con l’unica differenza che per queste ultime aree esiste oggi - e finalmente - una bibliografia scientifica consolidata; forse (ma questo Schlemmer non lo dice) nel caso dell’URSS siamo stati pure più vigliacchetti, in quanto a differenza dei casi precedentemente elencati, non eravamo nemmeno confinanti con l’Unione Sovietica: gli ungheresi, i romeni e persino gli slovacchi potevano accampare rivendicazioni territoriali su regioni oggetto di dispute secolari; chi aveva inviato truppe per la “battaglia contro il bolscevismo” si era invece limitato a contingenti poco più che simbolici, come la “Division Azul” spagnola, il reggimento dei volontari francesi, o il battaglione vallone, tutti comunque in perfetta uniforme tedesca, come del resto i volontari europei delle SS.
Schlemmer fa giustizia delle innumerevoli descrizioni tese a esaltare l’italico valore a fronte delle carenze in armamento ed equipaggiamento: l’inverno sovietico fu durissimo per tutte le forze dell’asse, e gli stivali di cuoio dei tedeschi non erano di tanto migliori dei terribili scarponi italiani, così come i cappotti della Wehrmacht non proteggevano dal freddo meglio di quelli nostrani. Allo stesso tempo alcune vittoriose azioni del CSIR condotte nell’estate 1941 furono brillanti come e forse più di quelle tedesche.
Proseguendo in questo parallelo, l’autore evidenzia come la tradizionale bonomia nostrana risulti parecchio ridimensionata: fummo crudeli con i civili, sfruttatori sistematici delle risorse agricole ed economiche del territorio occupato, razzisti (terribili alcune testimonianze di odio antisemita da parte di “soldati qualunque”). E pure fucilatori.
Si dirà, a questo punto, che contano le dimensioni; nell’esperienza italiana in URSS manca la sistematica e selvaggia azione degli Einsatzkommando, o dei battaglioni di polizia nazisti. Ed è certamente vero. Però è soltanto questo il criterio che ci rende “italiani brava gente”? Eravamo poi così migliori dai romeni o dagli ungheresi (mancano purtroppo nel volume paragoni con le esperienze degli altri invasori) o dei falangisti spagnoli?
Crediamo che il pregio principale dell’opera, ben costruita e documentata, sia soprattutto quello di aprire questioni e stimolare la ricerca, magari proprio sul versante della comparazione con le esperienze degli altri alleati-occupanti dell’Asse.
L’unica riserva che ci sentiamo di esprimere riguarda la tipologia di quella guerra, che comportò anche in molti luoghi il disfacimento delle strutture di governo staliniane. Gli italiani, specie nel periodo in cui furono in Ucraina, ebbero a che fare con un robusto collaborazionismo a sfondo nazionalista di cui però non c’è quasi traccia nel volume. La locale polizia ausiliaria dai distintivi gialloblù, che per noi come per i tedeschi fu indispensabile strumento di controllo e cruenta repressione, compare in modo sporadico, e per episodi marginali. Crediamo invece che – non per sminuire le nostre responsabilità di occupanti – anche questa pagina andasse analizzata in modo più dettagliato: tanti, nei luoghi dove fummo presenti prima col CSIR e poi con l’ARMIR videro in noi, come nei tedeschi, una tenue speranza di emancipazione dalla dittatura comunista. Le foto dei contadini che offrivano pane e sale ai soldati con la svastica come a quelli con il tricolore sabaudo, a parer nostro, non erano solo ad uso della propaganda nazifascista.
Pretacci e nazisti?
Gerald Steinacher, La via segreta dei nazisti, Milano, Rizzoli, 2010
Nell’affrontare la lettura di questo eccellente saggio di Gerald Steinacher, abbiamo dovuto superare uno scoglio di non lieve entità, ossia un sottotitolo repulsivo, che per la posizione sulla copertina risulta in apparenza il vero titolo del volume, ossia: “come l’Italia e il Vaticano salvarono la vita ai nazisti”.
E’ una dimostrazione palese di come questa casa editrice, a scopo pubblicitario e promozionale, abbia sfruttato l’ondata anticlericale che scuote tanta parte della nazione, immaginiamo per far presa su chi, come acutamente sosteneva monsignor Ersilio Tonini, “ha smesso di essere credente per diventare credulone”.
Lo studio è invece cosa ben diversa e assai più seria dei tanti volumi denigratori che costellano le librerie italiane; fare un’operazione di scadente marketing di questo tipo ci appare davvero deprimente per un editore come Rizzoli, ma evidentemente in tempi di crisi non si guarda in faccia a nessuno, e forse si legge poco anche dentro ai libri che si decide di stampare…
L’Autore infatti dimostra che nella triste vicenda della fuga dei criminali nazisti, si intrecciarono istituzioni e autorità diverse, spesso con interessi divergenti. Fra i responsabili infatti, a differenza di quel che si legge in copertina, non ci fu “il Vaticano”, ma singoli elementi di ogni livello e responsabilità nella gerarchia ecclesiastica, così come ebbero responsabilità singoli elementi dei servizi segreti americani (anche in questo caso con notevoli conflittualità interne) e singoli elementi della Croce rossa internazionale.
E’ peraltro vero che alcuni di questi soggetti avevano posizioni di rilievo in varie organizzazioni, come Alois Hudal, rettore del Collegio germanico a Roma, o Krunoslav Draganovic, segretario dell’Istituto croato di San Girolamo, sempre nella capitale. Emerge però che altri appartenenti alla Chiesa cattolica i quali agirono anch’essi in modo torbido (i sacerdoti altoatesini che protessero e ri-battezzarono con formule discutibili alcuni ex-nazisti di alto rango) erano animati da sentimenti e interessi diversi dai sopra citati prelati. Quindi è lo stesso Steinacher a smentire la categorica e insulsa copertina del volume.
La verità è che l’immediato dopoguerra fu lungo e difficile da smaltire, ed ebbe un inizio che si fatica persino a posizionare sul calendario, visto che ancora alla fine di maggio del 1945, a Bolzano c’erano pattuglie miste di SS ed MP statunitensi e il traffico dei camion americani era regolato dalla Feldgendarmerie della Wehrmacht, come si vede in alcune stupefacenti fotografie all’interno del volume. L’immenso numero di profughi provenienti da ogni dove e diretti verso le zone più disparate, ebbe nell’Alto adige un suo punto focale: qui i nazisti (ma va detto chiaramente, tutti gli ex soldati tedeschi in generale) poterono contare sulla solidarietà etnica della comunità germanica, nella quale c’erano, in posizione preminente, gli esponenti del clero locale.
In questa già confusa situazione agivano i servizi segreti USA, i quali cercavano i criminali in fuga con squadre di specialisti che rispondevano a interessi eterodossi: chi li voleva per portarli a Norimberga e chi per servirsene per la guerra fredda, ovviamente gli uni all’insaputa degli altri. Ma a volere ex SS, ingegneri, aviatori e specialisti di ogni tipo del defunto regime hitleriano c’erano anche decine di paesi sudamericani, i quali fecero carte false per portarli verso i loro accoglienti lidi, a partire dall’Argentina peronista.
La Croce rossa internazionale, assieme alla Pontificia commissione di assistenza, furono il tramite per dotare di carte credibili i personaggi in questione; ma va detto che, in realtà, queste organizzazioni fecero ogni sforzo per dare documenti di identità a tutti i profughi tedeschi e per aiutare senza distinzione coloro che fuggivano dai paesi diventati comunisti, come la Jugoslavia di Tito, o nazioni che erano ormai nella zona di influenza sovietica, come la Cecoslovacchia e l’Ungheria. Che ci fosse un orientamento anticomunista in questa azione, è fuori di dubbio. Occorre però rammentare – e Steinacher lo fa – che decine di migliaia di persone scappavano da luoghi in cui erano stati instaurati regimi brutali e autoritari. Insomma, chi aveva il potere per farlo, fu di manica assai larga; forse fin troppo. Ma i tempi erano quelli che erano.
In conclusione, esaminiamo una vicenda che Steinacher affronta in modo marginale (e non preciso) ma che è esemplare per comprendere la situazione venutasi a creare al termine della guerra. Migliaia di militari ucraini collaborazionisti, con la consueta rete di aiuti della Chiesa cattolica e della Croce rossa, riuscirono ad evitare il rimpatrio e approdarono nel nord america (specie in Canada), dove rimasero indisturbati e si rifecero una vita. In questo caso più che l’intervento del clero cattolico uniate citato dall’Autore, fu la posizione del loro leader a creare le condizioni del salvataggio: Pavlo Shandruk, infatti, era contemporaneamente comandante della 1° divisione ucraina (all’epoca della resa questi uomini non facevano più parte delle SS, come erroneamente sostiene l’autore) e colonnello dell’esercito polacco, decorato per eroismo dal governo in esilio a Londra per la campagna del 1939. Come lui, quasi tutti i suoi uomini erano assieme polacchi e ucraini, essendo in prevalenza galiziani. Fu Shandruk a trattare personalmente con il comandante del corpo polacco Wladislaw Anders la resa e la posizione giuridica dei suoi soldati. Restituire questi uomini a Stalin, a tutti gli effetti sarebbe stato un abuso; da qui le vicende successive.
Morale: a fare semplici le cose difficili, si rischia di scrivere stupidaggini. Cosa che Steinacher non ha fatto, a differenza di alcuni zelanti addetti al marketing di Rizzoli.