Auto-revisionismo
Giampaolo Pansa, I cari estinti, Milano, Rizzoli, 2010
“L’Inps è la nostra Fiat”, pare avesse dichiarato nei primi anni ’80 Ciriaco De Mita a Giampaolo Pansa. Ed è forse da cercare in questa frase lo spirito del libro; già, perché il giornalista e storico piemontese, quando trent’anni fa raccontava nelle sue interviste e nelle sue inchieste l’immagine di quell’Italia che prima, durante e dopo gli anni di piombo aveva nella DC e nei suoi “ras” la propria stella polare, lasciava trasparire senza infingimenti il disprezzo e il disgusto per l’odiosa “balena bianca” che corrompeva, guastava, copriva e colludeva.
Oggi “il revisionista”, come si è definito nel suo volume dello scorso anno, a differenza di alcuni suoi colleghi rimasti tetragoni nel loro odio per ciò che eravamo (giacché anche non volendolo l’Italia fu largamente, e in alcune regioni totalmente, democristiana), rilegge quelle pagine e quelle note, e onestamente ammette quello che è sotto gli occhi di tutti: gli uomini di governo di quella stagione appaiono statisti di non comune profilo rispetto ai mestieranti e ai “prestati alla politica” che da quindici anni a questa parte si sono alternati al governo del paese.
Questa, a nostro avviso, la morale che emerge con chiarezza dalle agende e dagli appunti di vent’anni della storia politica del nostro paese: il saggio infatti copre gli anni dal 1970 al 1990, ossia dall’inizio della stagione del terrorismo nero e rosso alla fine della prima repubblica. E ci scorrono davanti agli occhi in quadri vividi i nomi e i volti del ventennio che ci fece passare dal bianco e nero della TV e degli scontri di piazza al colore dei ruggenti anni ’80: Antonio Gava, Ciriaco de Mita, Arnaldo Forlani, Franco Evangelisti; gente perbene come Benigno Zaccagnini e persone inquietanti come Salvo Lima, “desaparecidos” come Pierre Carniti, e padri nobili e meno nobili della destra, da Giorgio Almirante a Valerio Borghese. I grigi compagni di Botteghe Oscure come Enrico Berlinguer e Giorgio Pajetta e gli sgargianti socialisti di Bettino Craxi e Claudio Martelli.
E poi i fatti: la strage di piazza Fontana, l’omicidio di Aldo Moro, le lotte talvolta sordide nel mondo giornalistico e finanziario e quelle non meno limacciose nel mondo politico. Pagine dimenticate (o fatte dimenticare?), come l’innamoramento dei vertici di “Repubblica” per la DC di De Mita, il leader di Avellino che sognava un popolarismo forse impossibile, e che venne defenestrato dall’asse Andreotti, Craxi, Forlani alla fine degli anni ’80. L’inizio del decennio successivo, che segna le pagine conclusive del volume, fu l’apogeo e il declino di una stagione politica probabilmente irripetibile.
Ebbene si: questa era (ed è) l’Italia che aveva come Fiat l’Inps, almeno nel Mezzogiorno. E viene da chiedersi: fossimo stati invece l’Italia impossibile, quella governata da improbabili politici illuminati dalle ponderose riflessioni degli azionisti “duri e puri” alla Giorgio Bocca (il cuneese da qualche tempo bestia nera del revisionista monferrino) inflessibili contro l’ingerenza statale e vaticana, implacabili contro l’assistenzialismo e ovviamente incorruttibili, saremmo stati davvero migliori? Saremmo davvero diventati la Gran Bretagna (in sedicesimo)?
Oppure quella DC, dei Remo Gaspari e dei Mariano Rumor, dove convivevano e collaboravano Aldo Moro e Antonio Gava era, e in gran parte è, lo specchio esatto del paese?
E allora lasciateci almeno la nostalgia. Un sentimento che esce acuìto dalla lettura delle riflessioni del giornalista e storico di Casale Monferrato, il quale onestamente ammette di aver cambiato idea su molte cose e molte persone del periodo in cui tratteggiava, in pagine fitte di appunti, la cronaca di una nazione che oggi non esiste più. Purtroppo.
Una storia del bianco Nordest
Leonardo Raito, Laura Frigeri, Antonio Bisaglia nella storia della DC, Rovigo, CRAMS, 2010.
Il miracolo economico del Triveneto ha molti padri (tutti, nessuno escluso, scudocrociati), ma quello del Polesine ne ha uno solo: Antonio “Toni” Bisaglia. A oltre venticinque anni dalla morte un volume illustra finalmente la narrazione dell’opera e del pensiero del politico rodigino, tramite una densa raccolta di scritti, riflessioni e interviste, e una interessante rassegna iconografica, ricca di fotografie inedite.
Lo studio di Leonardo Raito e Laura Frigeri mette finalmente un punto fermo nella biografia di questo leader della DC veneta, e fa riflettere su un fatto, ossia che sino ad oggi su Bisaglia esistevano, per quanto ci è dato conoscere, solo due volumi: un indagine giornalistica del sopra citato Giampaolo Pansa risalente al 1975 e uno scadente “instant book” redatto da Carlo Brambilla e Daniele Vimercati nel 1992 e dedicata al presunto mistero legato alla morte di Bisaglia nel 1984, avvenuta per una caduta accidentale da una imbarcazione, e quella del fratello sacerdote Mario, deceduto nel 1992, probabilmente suicida. Di quali misteri d’Italia fosse depositario il parlamentare polesano (che già nel 1980 aveva abbandonato ogni incarico nella DC) e chi abbia ucciso il parroco rodigino per nascondere inconfessabili segreti non è dato sapere. Certo è che questo tipo di letteratura spesso al confine fra il verosimile e il grottesco, pare avere grosso seguito nel nostro paese, tanto da rendere difficile tutt’oggi qualsiasi seria riflessione sull’attività politica di personaggi come Enrico Mattei o lo stesso Aldo Moro; è inutile sottolineare infatti la mole di pubblicazioni concentrate sulla morte (e non invece sulla vita) di questi personaggi.
Il quadro che emerge dal saggio è comunque esemplare per comprendere i meccanismi che hanno portato prima allo sviluppo e successivamente al boom in una delle aree più arretrate del nord Italia; Antonio Bisaglia fece leva senz’altro sulle risorse messe largamente a disposizione nel corso degli anni ’50 a seguito dell’alluvione del 1951, ma in modo non dissennato, come avvenuto poi nelle “ricostruzioni” successive ad altre catastrofi nazionali. Anzi, l’azione da lobbista ante litteram e i legami puntuali che Bisaglia teneva con il suo elettorato, avevano al centro dell’agire una profonda comprensione del territorio e delle sue peculiarità. Le infrastrutture – tutte puntualmente realizzate – dovevano essere (e furono) il volano per una crescita endogena e non di una rendita politico-sociale parassitaria; fu in quella stagione che si crearono i presupposti per la spettacolosa crescita dell’intera provincia di Rovigo. Di fronte all’attività frenetica svolta dal parlamentare polesano nell’arco di un ventennio, appaiono risibili alcuni odierni accenni ad un presunto “partito del fare” che non pare avere riscontro nella infelice realtà di oggidì.
Il volume fa poi giustizia di un luogo comune che rappresentava Bisaglia come uomo “d’azione” ma di scarsa propensione alla riflessione e alla progettualità. In realtà la puntuale raccolta dei suoi interventi pubblici fa emergere come il leader della DC rodigina avesse ad esempio perfettamente compreso, già alla fine degli anni ’70, che un grande partito centrista doveva iniziare ad evolversi verso il federalismo, magari prendendo l’esempio tedesco della suddivisione fra CDU e CSU.
Purtroppo la scomparsa repentina impedì lo sviluppo di queste ed altre tesi politiche; resta il rammarico che si è dovuto attendere oltre un quarto di secolo prima di leggere uno studio serio, documentato e ben ordinato come quello di Raito e Frigeri, a cui siamo grati per aver fatto luce su un uomo politico che avrebbe meritato maggiori attenzioni da parte degli studiosi e dei ricercatori di storia contemporanea.
Giampaolo Pansa, I cari estinti, Milano, Rizzoli, 2010
“L’Inps è la nostra Fiat”, pare avesse dichiarato nei primi anni ’80 Ciriaco De Mita a Giampaolo Pansa. Ed è forse da cercare in questa frase lo spirito del libro; già, perché il giornalista e storico piemontese, quando trent’anni fa raccontava nelle sue interviste e nelle sue inchieste l’immagine di quell’Italia che prima, durante e dopo gli anni di piombo aveva nella DC e nei suoi “ras” la propria stella polare, lasciava trasparire senza infingimenti il disprezzo e il disgusto per l’odiosa “balena bianca” che corrompeva, guastava, copriva e colludeva.
Oggi “il revisionista”, come si è definito nel suo volume dello scorso anno, a differenza di alcuni suoi colleghi rimasti tetragoni nel loro odio per ciò che eravamo (giacché anche non volendolo l’Italia fu largamente, e in alcune regioni totalmente, democristiana), rilegge quelle pagine e quelle note, e onestamente ammette quello che è sotto gli occhi di tutti: gli uomini di governo di quella stagione appaiono statisti di non comune profilo rispetto ai mestieranti e ai “prestati alla politica” che da quindici anni a questa parte si sono alternati al governo del paese.
Questa, a nostro avviso, la morale che emerge con chiarezza dalle agende e dagli appunti di vent’anni della storia politica del nostro paese: il saggio infatti copre gli anni dal 1970 al 1990, ossia dall’inizio della stagione del terrorismo nero e rosso alla fine della prima repubblica. E ci scorrono davanti agli occhi in quadri vividi i nomi e i volti del ventennio che ci fece passare dal bianco e nero della TV e degli scontri di piazza al colore dei ruggenti anni ’80: Antonio Gava, Ciriaco de Mita, Arnaldo Forlani, Franco Evangelisti; gente perbene come Benigno Zaccagnini e persone inquietanti come Salvo Lima, “desaparecidos” come Pierre Carniti, e padri nobili e meno nobili della destra, da Giorgio Almirante a Valerio Borghese. I grigi compagni di Botteghe Oscure come Enrico Berlinguer e Giorgio Pajetta e gli sgargianti socialisti di Bettino Craxi e Claudio Martelli.
E poi i fatti: la strage di piazza Fontana, l’omicidio di Aldo Moro, le lotte talvolta sordide nel mondo giornalistico e finanziario e quelle non meno limacciose nel mondo politico. Pagine dimenticate (o fatte dimenticare?), come l’innamoramento dei vertici di “Repubblica” per la DC di De Mita, il leader di Avellino che sognava un popolarismo forse impossibile, e che venne defenestrato dall’asse Andreotti, Craxi, Forlani alla fine degli anni ’80. L’inizio del decennio successivo, che segna le pagine conclusive del volume, fu l’apogeo e il declino di una stagione politica probabilmente irripetibile.
Ebbene si: questa era (ed è) l’Italia che aveva come Fiat l’Inps, almeno nel Mezzogiorno. E viene da chiedersi: fossimo stati invece l’Italia impossibile, quella governata da improbabili politici illuminati dalle ponderose riflessioni degli azionisti “duri e puri” alla Giorgio Bocca (il cuneese da qualche tempo bestia nera del revisionista monferrino) inflessibili contro l’ingerenza statale e vaticana, implacabili contro l’assistenzialismo e ovviamente incorruttibili, saremmo stati davvero migliori? Saremmo davvero diventati la Gran Bretagna (in sedicesimo)?
Oppure quella DC, dei Remo Gaspari e dei Mariano Rumor, dove convivevano e collaboravano Aldo Moro e Antonio Gava era, e in gran parte è, lo specchio esatto del paese?
E allora lasciateci almeno la nostalgia. Un sentimento che esce acuìto dalla lettura delle riflessioni del giornalista e storico di Casale Monferrato, il quale onestamente ammette di aver cambiato idea su molte cose e molte persone del periodo in cui tratteggiava, in pagine fitte di appunti, la cronaca di una nazione che oggi non esiste più. Purtroppo.
Una storia del bianco Nordest
Leonardo Raito, Laura Frigeri, Antonio Bisaglia nella storia della DC, Rovigo, CRAMS, 2010.
Il miracolo economico del Triveneto ha molti padri (tutti, nessuno escluso, scudocrociati), ma quello del Polesine ne ha uno solo: Antonio “Toni” Bisaglia. A oltre venticinque anni dalla morte un volume illustra finalmente la narrazione dell’opera e del pensiero del politico rodigino, tramite una densa raccolta di scritti, riflessioni e interviste, e una interessante rassegna iconografica, ricca di fotografie inedite.
Lo studio di Leonardo Raito e Laura Frigeri mette finalmente un punto fermo nella biografia di questo leader della DC veneta, e fa riflettere su un fatto, ossia che sino ad oggi su Bisaglia esistevano, per quanto ci è dato conoscere, solo due volumi: un indagine giornalistica del sopra citato Giampaolo Pansa risalente al 1975 e uno scadente “instant book” redatto da Carlo Brambilla e Daniele Vimercati nel 1992 e dedicata al presunto mistero legato alla morte di Bisaglia nel 1984, avvenuta per una caduta accidentale da una imbarcazione, e quella del fratello sacerdote Mario, deceduto nel 1992, probabilmente suicida. Di quali misteri d’Italia fosse depositario il parlamentare polesano (che già nel 1980 aveva abbandonato ogni incarico nella DC) e chi abbia ucciso il parroco rodigino per nascondere inconfessabili segreti non è dato sapere. Certo è che questo tipo di letteratura spesso al confine fra il verosimile e il grottesco, pare avere grosso seguito nel nostro paese, tanto da rendere difficile tutt’oggi qualsiasi seria riflessione sull’attività politica di personaggi come Enrico Mattei o lo stesso Aldo Moro; è inutile sottolineare infatti la mole di pubblicazioni concentrate sulla morte (e non invece sulla vita) di questi personaggi.
Il quadro che emerge dal saggio è comunque esemplare per comprendere i meccanismi che hanno portato prima allo sviluppo e successivamente al boom in una delle aree più arretrate del nord Italia; Antonio Bisaglia fece leva senz’altro sulle risorse messe largamente a disposizione nel corso degli anni ’50 a seguito dell’alluvione del 1951, ma in modo non dissennato, come avvenuto poi nelle “ricostruzioni” successive ad altre catastrofi nazionali. Anzi, l’azione da lobbista ante litteram e i legami puntuali che Bisaglia teneva con il suo elettorato, avevano al centro dell’agire una profonda comprensione del territorio e delle sue peculiarità. Le infrastrutture – tutte puntualmente realizzate – dovevano essere (e furono) il volano per una crescita endogena e non di una rendita politico-sociale parassitaria; fu in quella stagione che si crearono i presupposti per la spettacolosa crescita dell’intera provincia di Rovigo. Di fronte all’attività frenetica svolta dal parlamentare polesano nell’arco di un ventennio, appaiono risibili alcuni odierni accenni ad un presunto “partito del fare” che non pare avere riscontro nella infelice realtà di oggidì.
Il volume fa poi giustizia di un luogo comune che rappresentava Bisaglia come uomo “d’azione” ma di scarsa propensione alla riflessione e alla progettualità. In realtà la puntuale raccolta dei suoi interventi pubblici fa emergere come il leader della DC rodigina avesse ad esempio perfettamente compreso, già alla fine degli anni ’70, che un grande partito centrista doveva iniziare ad evolversi verso il federalismo, magari prendendo l’esempio tedesco della suddivisione fra CDU e CSU.
Purtroppo la scomparsa repentina impedì lo sviluppo di queste ed altre tesi politiche; resta il rammarico che si è dovuto attendere oltre un quarto di secolo prima di leggere uno studio serio, documentato e ben ordinato come quello di Raito e Frigeri, a cui siamo grati per aver fatto luce su un uomo politico che avrebbe meritato maggiori attenzioni da parte degli studiosi e dei ricercatori di storia contemporanea.
Misteri e dintorni
Mimmo Franzinelli, Il Piano Solo, Milano, Mondadori, 2010.
Mimmo Franzinelli con il suo lavoro dedicato alle delicate vicende politiche e sociali dell’estate 1964, ci propone il consueto studio dettagliato e puntuale, sia dal punto di vista documentale che nelle testimonianze raccolte in una corposa appendice.
Restano però, secondo chi scrive, alcune perplessità sul taglio dato a questa indagine dello studioso bresciano. In primo luogo c’è qualcosa da “teatro dell’assurdo” in tutta la storia narrata nel volume; si parla infatti di un golpe paventato (e fortunatamente non effettuato) dall’arma dei Carabinieri con la regia dei servizi segreti militari, i quali avevano suggestionato in modo talmente ossessivo il capo dello stato Antonio Segni da fargli ritenere a sua volta imminente un colpo di mano da parte dei comunisti italiani. Ce n’è abbastanza per farne una commedia di Georges Feydeau, come in numerosi (presunti) misteri d’Italia, i quali spolpati dall’alone “blu notte” appaiono frequentemente come eventi di una banalità sconcertante.
In sostanza le uniche cose certe in questo mare di intenzioni, supposizioni, chiacchiere e giornalismo d’assalto, furono l’irrituale invito dei vertici militari alle consultazioni indette dal capo dello stato successive alla crisi del primo governo di centro-sinistra, e un incontro fra il generale comandante dell’arma Giovanni de Lorenzo, il capo della polizia Angelo Vicari e i vertici democristiani, nel quale, paradossalmente, ognuno degli intervenuti fece a gara per tranquillizzare gli altri presenti sul fatto che l’ordine pubblico non appariva turbato da alcunché, tantomeno da un possibile nuovo governo di centro-sinistra.
C’era poi la famigerata lista dei cosiddetti “enucleandi”, qualche centinaio di militanti del PCI e di organizzazioni sindacali e associative legate al partito di Palmiro Togliatti che – in teoria – dovevano essere posti sotto custodia da parte della “benemerita” e inviati in Sardegna; un documento inquietante ma allo stesso tempo grottesco, non fosse altro perché chi decise di redigerlo non pensava al ridicolo e al discredito di un piano (il “Piano Solo”, appunto) in cui il Carabinieri facevano e disfacevano, arrestavano e occupavano sedi telefoniche e radiotelevisive con il resto dei poteri dello stato (a partire dalla pubblica sicurezza) che restavano a guardare: cosa questa che alcuni tra i più avveduti ufficiali dell’Arma avevano immediatamente osservato e compreso, specie nei comandi delle grandi città, come Milano o Roma.
Appare purtroppo incomprensibile la totale assenza – persino in bibliografia o in nota – dell’azione dei servizi “civili”, ossia l’attività incessante di informazione (e disinformazione) condotta nello stesso periodo da Federico Umberto d’Amato, il capo indiscusso dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno.
Più grave la carenza un altro pezzo del mosaico decisivo per inquadrare quel momento storico, ossia l’attività del partito comunista, del quale Franzinelli poco o nulla descrive l’apparato clandestino, che pure esisteva ed era ben lungi dall’essere stato smantellato. Non un rigo dagli studi ormai pluriennali di Salvatore Sechi, Gianni Donno o Victor Zaslavsky illumina le vicende del più forte partito marxista dell’Europa occidentale: il PCI dai solidi e ininterrotti legami con l’URSS viene rappresentato, in modo piuttosto manicheo, come un partito socialdemocratico di stampo europeo sul quale ingiustamente si accentrava l’attenzione e la sorveglianza degli apparati statali. Le cose erano invece assai diverse.
In conclusione come in altri suoi lavori, questa ricerca di Mimmo Franzinelli non è discutibile per quanto viene narrato, ma per quello che è assente. Anche perché la sensazione è di una “storia coi buchi”, che assomiglia vagamente a un groviera in cui quello che è sgradevole, spiacevole o poco utile alla tesi dell’autore, viene semplicemente cassato.