Il sangue infinito
Giampaolo Pansa, I vinti non dimenticano, Milano, Rizzoli, 2010
Sugli scritti storici di Giampaolo Pansa ci siamo già soffermati in diverse occasioni; si ritiene comunque opportuno riportare anche in questa sede il nostro giudizio sul giornalista monferrino: Pansa, sbeffeggiato, criticato e accusato a pieni polmoni di “revisionismo” da una parte della comunità accademica, minacciato (anche de visu) da settori dell’opinione pubblica “progressista e democratica” poco tolleranti nei confronti dell’espressione del libero pensiero, non ha avuto una singola contestazione di avere raccontato falsità nei suoi lavori. Anzi, nei pochi casi in cui qualche esponente di associazioni reducistiche con velleità storiche ha malamente cercato di ricomporre vulgate rassicuranti su fatti e persone meritevoli di giudizi non lusinghieri, è stato successivamente smentito da studiosi della stessa parte politica. I quali, spesso, si sono ben guardati di dare meriti all’autore de “Il sangue dei vinti”.
Quello che Pansa scrive ormai da quasi un decennio, quindi, può piacere o non piacere e si può anche aprire un dibattito sul modo in cui la storia è diventata (non da oggi beninteso) un manganello con cui fare politica nel nostro paese. Mettere però lo scrittore piemontese sullo stesso piano di Faurisson o di Mattogno, ci è sempre parso però una operazione assai discutibile sul piano culturale, e poco edificante per la comunità scientifica.
Detto questo, in “I vinti non dimenticano” si avverte una sorta di stanchezza nel ripercorrere i sentieri tracciati negli anni precedenti e nel raccontare episodi che ormai si assomigliano tutti in un canovaccio piuttosto consunto (anche se rammentare nuovamente ai posteri che il povero Giuseppe Fanin non morì di sonno ci pare opera meritoria); le vicende riportate nello studio, in sostanza, poco aggiungono a quanto sino ad oggi Giampaolo Pansa ha scritto sul tema delle violenze post-belliche. L’inserimento di aree geografiche non studiate, come la Toscana o la Venezia Giulia, conferma comunque ad abundantiam che quella stagione cruenta fu lunga, scarsamente contrastata da chi poteva farlo, e fu prova incivile per un paese democratico.
Resta però un fatto concreto su cui tutti gli storici dovrebbero continuare a confrontarsi. Pansa non va a ripescare gli scarti nei suoi cassetti, ma ha una continua alimentazione per i suoi volumi dalle lettere e dai documenti di centinaia di famiglie che hanno avuto padri, madri, sorelle o fratelli morti ammazzati a guerra finita, e che, come egli stesso testimonia, iniziano invariabilmente i loro scritti dicendo “… Nel suo ultimo volume lei non ha parlato dei fatti che hanno riguardato la mia famiglia. Ora glieli racconto …”.
E’ davvero tempo perso per uno studioso scientifico il domandarsi come mai a sessantacinque anni di distanza da quelle vicende, ci sono ancora persone che ritengono necessario dover mandare lettere a un giornalista, con la speranza di rendere pubbliche le proprie dolorose storie familiari?
Le sante bombe
Lodovico Galli, Riflessioni sui bombardamenti aerei: Brescia 1943-45, Arco, Tipolitografia Grafica 5, 2010
Galli è un prolifico studioso di storia contemporanea bresciana (una ventina di volumi pubblicati nell’ultimo quarto di secolo) che non ha mai fatto mistero delle proprie idee in merito alla stagione della Repubblica Sociale, di cui la sua città fu uno dei gangli vitali. In diversi studi ha espresso, sempre piuttosto pianamente, le proprie tesi sugli uomini e i fatti di quel periodo, suscitando frequentemente dibattiti accesi sui media locali.
In questo lavoro, pubblicato in proprio, ma non per questo meno degno di attenzione rispetto a tanti studi che escono per case editrici “di fama” e magari non hanno l’indice o l’indicazione della bibliografia, l’autore torna in modo documentato su un tema già trattato nelle sue prime ricerche, ossia i bombardamenti aerei in provincia di Brescia, che furono di gran lunga la causa di morte cruenta maggiore della popolazione civile in quell’area nel periodo 1943-45.
Soffermarsi sulle differenze e le analogie fra la guerra aerea ai civili condotta dagli Alleati, e la guerra ai civili “tout court” che contraddistinse l’operato della Wehrmacht è argomento troppo impegnativo da poter essere affrontato in questa sede. Galli si sofferma invece a paragonare il modo distruttivo con cui entrambi i contendenti concentrarono la loro azione contro la popolazione inerme, e questa involontaria faziosità talvolta nuoce allo scopo (nobile) di dare seguito alla memoria di migliaia di morti, uomini, donne, vecchi e bambini, i quali ebbero l’unica colpa di non essere stati abbastanza rapidi a raggiungere un rifugio sicuro durante le incursioni.
A conclusione della lettura di questo interessante volume, a nostro parere, due questioni restano sul tavolo in attesa di ulteriori approfondimenti. La prima riguarda la modalità, invero barbara, di alcuni mitragliamenti a bassa quota su obiettivi distintamente privi di alcun rilievo militare. Su tutti ci è parso paradigmatico l’episodio, sconosciuto ai più, dell’attacco aereo ad un tram nei pressi di Montichiari, avvenuta il 15 settembre 1944, ad opera di cacciabombardieri “Lightning” che secondo l’autore (il quale riporta una ricca documentazione d’archivio) erano quasi certamente appartenenti all’aviazione gaullista. Diciotto morti furono l’esito di una vera e propria caccia all’uomo effettuata nei campi circostanti la strada ferrata, che proseguì per diversi minuti dopo la distruzione delle carrozze e quindi con l’evidente scopo di provocare un eccidio.
Con il necessario distacco, chi scrive ritiene che la comunità scientifica dovrebbe affrontare in modo sistematico anche questi episodi, e con la stessa attenzione dedicata alla costellazione sanguinosa delle stragi naziste. Sempre con la dovuta cautela, sarebbe poi bene iniziare a chiedersi come mai, a Trivellini di Montichiari, nella civile e prosperosa Lombardia, si è dovuto attendere il 1999 per dedicare una lapide in cui fosse scritto, apertis verbis e in modo inequivocabile, che quei morti furono “vittime del mitragliamento aereo alleato” e non, come altrove si è voluto indicare, per generiche “cause di guerra”. La verità, secondo noi, non dovrebbe far paura a nessuno. Almeno in teoria.
Mussolini privato, Mussolini pubblico
Pasquale Chessa – Barbara Raggi, L’ultima lettera di Benito, Milano, Mondadori, 2010
L’intricata vicenda del carteggio intercorso fra Clara Petacci e Benito Mussolini è stata oggetto sino ad oggi più di cronache giornalistiche che di studi storici, e la pubblicazione di una parte delle lettere e dei diari erano già state edite lo scorso anno e comprensive del periodo 1937-39, non ha contribuito a rendere giustizia a questo materiale documentario, a parer nostro di notevole importanza storica. Una parte di questo “corpus”, invece – custodito presso l’archivio centrale dello stato nel cosiddetto “Fondo Petacci” – è stato studiato e analizzato in modo scientifico grazie alla cura e alla solerzia di Pasquale Chessa. Il ricercatore prende in considerazione esclusivamente la parte più omogenea del materiale: 318 missive inviate da Benito Mussolini alla sua amante e le più che altrettante risposte, spedite e non spedite, nel corso dei tragici mesi della repubblica di Salò. Emergono in questo consistente carteggio diversi elementi che, a nostro parere, sono di rilievo per l’indagine storica.
Il primo è il ruolo di Clara Petacci e del suo ingombrante entourage nel firmamento salotino. L’amante del duce ha un ruolo attivo non solo nel profluvio di consigli politici, ma anche nei giudizi e nelle scelte poi effettuate dal grigio duce di Gargnano. Ed è una consigliera ascoltata, nel bene e nel male, nel poco che Mussolini può decidere in autonomia: spostamenti di funzionari, allontanamenti di miliziani, e così via. La leggenda romantica di una Clara moderatrice, specie nella vicenda del processo-farsa a Galeazzo Ciano, esce fortemente ridimensionata. La Petacci è invece “superfascista”: vuole la morte per il genero di Mussolini, la morte per gli altri traditori (e non solo quelli del gran consiglio), l’epurazione violenta di tutti coloro che non rimasero fedeli a Mussolini dopo il 25 luglio. Clara spinge in modo incessante il duce a rivolgersi ad Adolf Hitler, ad emularlo nelle scelte più radicali, ad imitare il fuehrer nella spietatezza.
Il secondo aspetto è una conferma. Il malandato duce di Salò (gli accenni alla salute malferma costellano le lettere di Mussolini) ha un’ansia che sovrasta tutte le altre: essere preso sul serio, anche con le maniere forti, dai sudditi della RSI. E in questo si fa consigliare sempre per il peggio dall’amante. Le rappresaglie cruente e la nascita delle brigate nere, ossia il partito armato, nel luglio 1944 (confermando pienamente gli studi di Dianella Gagliani e Luigi Ganapini) rispondono a questa esigenza: il terrore come manifestazione della propria esistenza in vita. Ed è notevole il peso avuto in questa scelta dal noto articolo “se ci sei batti un colpo” del giornalista Concetto Pettinato, che proprio faceva leva sulla constatazione di una repubblica retta da un governo fantasma.
Il terzo e ultimo punto è anch’esso una conferma, sia pure parziale, ad alcune indagini storiche sugli ultimi giorni del regime, specie quelle condotte da Marino Viganò. Messo spalle al muro dalla ormai prossima e infausta conclusione delle vicende belliche, Mussolini tiene aperte diverse strade, non ultima quella dell’espatrio; già nell’autunno del 1944 a fronte della scarsa tenuta del fronte appenninico, il passaggio dell’intero governo di Salò in Germania, previa una tappa in Alto Adige o in Friuli, era ipotesi tenuta in seria possibilità dal duce e dai suoi. Dal carteggio emerge chiaramente come Mussolini, al di là delle chiacchiere di alcuni suoi agiografi del dopoguerra, pensava seriamente di potersene andare altrove per non pagare il salato conto della guerra civile; il metodo e la destinazione erano già stati predisposti: un aereo per la Spagna pronto all’aeroporto di Ghedi (quello che poi portò l’intera famiglia Petacci a Barcellona). Insomma, il duce non scartava l’ipotesi di finire la partita come altri leader collaborazionisti di rango inferiore, che riuscirono poi nell’intento di raggiungere la penisola iberica, su tutti Leon Degrelle e Pierre Laval. La reazione scomposta e irata che lo stesso Mussolini riferisce per iscritto alla Petacci di fronte alla comunicazione che la Spagna lo rifiutava, riferitagli de visu dall’ambasciatore nazista Rudolf Rahn, è eloquente più di ogni altra carta o testimonianza (memorabile il commento “ecco la riconoscenza della Spagna!”).
La fine è nota. E il fatto che al termine di questa, come di quasi tutte le altre lettere, il tragico duce ordini all’amante “straccia tutto”, fa ben comprendere come lo stesso Mussolini capisse che la sua ”immagine bugiarda” poteva risultare compromessa non solo per i contemporanei, ma anche per i posteri.
I buoni sentimenti dei generali italiani
Amedeo Osti Guerrazzi, Noi non sappiamo odiare, Torino, Utet, 2010
Gli “italiani brava gente”, anche se in divisa, sono da sempre uno degli stereotipi più duri a morire nella pubblicistica e nella storiografia italiana riferita alla seconda guerra mondiale; a essere sinceri, se si è stratificato questo tipo di definizione nel corso dei decenni, il merito (o il demerito) non è solo italiano, come l’autore invece sottolinea. Assieme agli studi di ricercatori (soprattutto sloveni, croati e più di recente greci) che hanno analizzato in modo critico il comportamento dei nostri militari nei vari teatri di guerra e nelle zone di occupazione, fino dagli anni ’60 era disponibile una nutrita memorialistica straniera in cui si sosteneva che a fronte della crudeltà tipica dell’agire nazista, gli italiani rappresentavano invece “il lato buono” dell’occupante. Su tutte ci vengono in mente alcune pagine di Simon Wiesenthal nel suo ultimo volume (“Giustizia non vendetta”, Milano, Mondadori, 1999) in cui questa distinzione, forse manichea ma evidentemente sentita, dei “tedeschi carnefici” contrapposti agli “italiani umani e comprensivi” era ben chiara ed evidente almeno per molti di coloro che subirono le violenze razziali.
Detto questo il pregevole studio di Osti Guerrazzi riguarda un piano sino ad oggi scarsamente esplorato, ossia la percezione che avevano del loro operato alcuni fra gli ufficiali di grado più elevato del nostro esercito, attraverso le loro stesse parole. Il fulcro documentario di “Noi non sappiamo odiare” sono infatti le trascrizioni dei dialoghi registrati presso la residenza di Wilton Park, in Inghilterra, dove furono trattenuti in prigionia alti esponenti delle forze armate regie: il maresciallo d’Italia Giovanni Messe, i generali di corpo d’armata Taddeo Orlando e Paolo Berardi, gli ammiragli Priamo Leonardi e Gino Pavesi, più numerosi altri ufficiali di stato maggiore fatti prigionieri in Tunisia e in Sicilia.
Il volume, nella scansione dei capitoli, affronta i temi più scottanti su cui questi uomini, sconfitti e prigionieri, giudicavano il proprio passato, e come queste opinioni subissero non indifferenti scossoni attraversi i sequenziali traumi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943.
Sul fascismo, l’atteggiamento generale di Messe e dei suoi è tendenzialmente benevolo, e rispecchia quello di ampi settori della borghesia italiana: una necessità dopo il cosiddetto biennio rosso del 1918-1919 (ricordato da tutti come un trauma ben oltre le sue reali conseguenze) un governo d’ordine, sia pure con annesse ridicolaggini come la smania per le divise e le liturgie di regime, una dittatura necessaria, che il re aveva comunque accettato avendone in cambio l’impero, e un disastro dal punto di vista militare, di cui peraltro nessuno dei prigionieri pare voler accettare la responsabilità. Resta da chiedersi, a parer nostro, per quale motivo gli umori delle forze armate italiane avrebbero dovuto essere venate di progressismo se quelle di ogni altro paese europeo, democratico o meno, non lo erano minimamente nel corso del ventennio 1919-1939.
I capitoli dedicati alla preparazione dell’esercito e alle campagne militari sono forse fra i più interessanti, in quanto in essi davvero si distingue l’”aurea mediocritas” del nostro stato maggiore durante il 1940-43: l’ignoranza in termini di tattica, strategia, combinazione fra azioni aeree, navali e terrestri, l’inadeguatezza di armamento ed equipaggiamento della truppa. Tutti questi argomenti appaiono come segreti svelati soltanto al momento della scesa in campo dell’Italia: i modesti carri medi britannici sono “eccellenti” rispetto ai nostri corazzati, e il commento di un colonnello dell’aeronautica alla visita degli interni di un bombardiere B24 è “questi sono avanti dieci anni rispetto a noi”. Le disastrose prove sul campo, specie le ultime nello scacchiere siciliano, sono narrate con sfoggio di “colpaltrismo” in dosi omeopatiche. Gli ammiragli Pavesi e Leonardi narrano le poco onorevoli rese di Pantelleria e Augusta con un corollario di scuse e mezze verità da primato, senza contestazioni da parte di alcuno, evidentemente perché anche gli altri presenti avevano simili scheletri nell’armadio.
I rapporti coi tedeschi e i crimini di guerra sono anch’essi oggetto di discussione fra i prigionieri. Gli alleati scomodi e sgradevoli sono comunque ammirati per il loro grado di efficienza (anche quando essa è spietata) mentre i crimini di guerra sono una autentica sorpresa. La percezione che il generale Taddeo Orlando ha delle accuse rivoltegli per come comandò la spietata divisione “Granatieri” durante l’occupazione in Slovenia, è soprattutto di stupore, meraviglia e indignazione, non diversamente dagli altri prigionieri. Il fatto che gli italiani “non sapessero odiare” era talmente consolidato nelle menti di questi uomini da non essere scalfito neppure dal profluvio delle circolari e degli ordini che essi stessi avevano emanato sul campo durante la loro presenza nei Balcani. Vi è quasi una operazione di rigetto e rifiuto dei dati di fatto, o quantomeno, una loro giustificazione dovuta all’incessante guerriglia condotta dai partigiani di Tito.
Anche Amedeo Osti Guerrazzi, come Eric Gobetti, sposa la tesi di una nostra generale auto-assoluzione (militare, politica e nell’opinione pubblica) che forse ci fu, visto che si passò da guerra combattuta a guerra fredda nel giro di un biennio, ma a parer nostro la questione ci pare mal posta. Oltre a italiani e tedeschi (e senza contare le robuste forze collaborazioniste slovene, croate, serbe e montenegrine), in Jugoslavia agirono anche gli eserciti ungheresi e bulgari, nessuno dei quali brillò per moderazione, e se diversi ufficiali dell’esercito magiaro furono condotti davanti a corti jugoslave, con estradizioni successive all’instaurazione del regime comunista in Ungheria, non ci risulta che alcun esponente dell’establishment militare bulgaro sia mai stato portato davanti a giudici titini; non fosse altro perché questa nazione fu svelta almeno quanto l’Italia a cambiare fronte nell’estate del 1944, e si pose totalmente sotto l’abbraccio protettore dei sovietici.
Anche per quanto riguarda il dopoguerra, in tutta onestà non si vedono straordinarie differenze nei percorsi di carriera di questi militari rispetto ai loro commilitoni tedeschi; grazie all’instaurarsi della cortina di ferro, tutti furono reintegrati in gradi e funzioni passando senza scossoni dal giuramento al re a quello alla repubblica. Giovanni Messe fece carriera in politica (anche qui non diversamente da molti ex ufficiali della Wehrmacht), ed altri conclusero con una lauta pensione erogata dall’INPS. Sia pure con rammarico rispetto al nostro non commendevole operato in Slovenia e Croazia, non poteva essere diversamente che così. Concedere le estradizioni avrebbe implicato richiederle a nostra volta alla Germania per i crimini commessi in Italia (e perché non anche alla Francia per i crimini commessi durante l’avanzata nel meridione della nostra penisola?).
James Burgwyn, attento studioso della nostra presenza militare nei Balcani ha scritto che per Mario Roatta si sarebbe dovuto concedere una onorificenza per come tutelò la comunità ebraica e condurlo contemporaneamente davanti a una corte marziale per le bestialità commesse contro civili e partigiani jugoslavi.
Questa è a nostro avviso la migliore analisi su quella intricata e sanguinosa stagione. E siamo grati ad Amedeo Osti Guerrazzi che ci offre un ulteriore strumento per comprenderla appieno.
Giampaolo Pansa, I vinti non dimenticano, Milano, Rizzoli, 2010
Sugli scritti storici di Giampaolo Pansa ci siamo già soffermati in diverse occasioni; si ritiene comunque opportuno riportare anche in questa sede il nostro giudizio sul giornalista monferrino: Pansa, sbeffeggiato, criticato e accusato a pieni polmoni di “revisionismo” da una parte della comunità accademica, minacciato (anche de visu) da settori dell’opinione pubblica “progressista e democratica” poco tolleranti nei confronti dell’espressione del libero pensiero, non ha avuto una singola contestazione di avere raccontato falsità nei suoi lavori. Anzi, nei pochi casi in cui qualche esponente di associazioni reducistiche con velleità storiche ha malamente cercato di ricomporre vulgate rassicuranti su fatti e persone meritevoli di giudizi non lusinghieri, è stato successivamente smentito da studiosi della stessa parte politica. I quali, spesso, si sono ben guardati di dare meriti all’autore de “Il sangue dei vinti”.
Quello che Pansa scrive ormai da quasi un decennio, quindi, può piacere o non piacere e si può anche aprire un dibattito sul modo in cui la storia è diventata (non da oggi beninteso) un manganello con cui fare politica nel nostro paese. Mettere però lo scrittore piemontese sullo stesso piano di Faurisson o di Mattogno, ci è sempre parso però una operazione assai discutibile sul piano culturale, e poco edificante per la comunità scientifica.
Detto questo, in “I vinti non dimenticano” si avverte una sorta di stanchezza nel ripercorrere i sentieri tracciati negli anni precedenti e nel raccontare episodi che ormai si assomigliano tutti in un canovaccio piuttosto consunto (anche se rammentare nuovamente ai posteri che il povero Giuseppe Fanin non morì di sonno ci pare opera meritoria); le vicende riportate nello studio, in sostanza, poco aggiungono a quanto sino ad oggi Giampaolo Pansa ha scritto sul tema delle violenze post-belliche. L’inserimento di aree geografiche non studiate, come la Toscana o la Venezia Giulia, conferma comunque ad abundantiam che quella stagione cruenta fu lunga, scarsamente contrastata da chi poteva farlo, e fu prova incivile per un paese democratico.
Resta però un fatto concreto su cui tutti gli storici dovrebbero continuare a confrontarsi. Pansa non va a ripescare gli scarti nei suoi cassetti, ma ha una continua alimentazione per i suoi volumi dalle lettere e dai documenti di centinaia di famiglie che hanno avuto padri, madri, sorelle o fratelli morti ammazzati a guerra finita, e che, come egli stesso testimonia, iniziano invariabilmente i loro scritti dicendo “… Nel suo ultimo volume lei non ha parlato dei fatti che hanno riguardato la mia famiglia. Ora glieli racconto …”.
E’ davvero tempo perso per uno studioso scientifico il domandarsi come mai a sessantacinque anni di distanza da quelle vicende, ci sono ancora persone che ritengono necessario dover mandare lettere a un giornalista, con la speranza di rendere pubbliche le proprie dolorose storie familiari?
Le sante bombe
Lodovico Galli, Riflessioni sui bombardamenti aerei: Brescia 1943-45, Arco, Tipolitografia Grafica 5, 2010
Galli è un prolifico studioso di storia contemporanea bresciana (una ventina di volumi pubblicati nell’ultimo quarto di secolo) che non ha mai fatto mistero delle proprie idee in merito alla stagione della Repubblica Sociale, di cui la sua città fu uno dei gangli vitali. In diversi studi ha espresso, sempre piuttosto pianamente, le proprie tesi sugli uomini e i fatti di quel periodo, suscitando frequentemente dibattiti accesi sui media locali.
In questo lavoro, pubblicato in proprio, ma non per questo meno degno di attenzione rispetto a tanti studi che escono per case editrici “di fama” e magari non hanno l’indice o l’indicazione della bibliografia, l’autore torna in modo documentato su un tema già trattato nelle sue prime ricerche, ossia i bombardamenti aerei in provincia di Brescia, che furono di gran lunga la causa di morte cruenta maggiore della popolazione civile in quell’area nel periodo 1943-45.
Soffermarsi sulle differenze e le analogie fra la guerra aerea ai civili condotta dagli Alleati, e la guerra ai civili “tout court” che contraddistinse l’operato della Wehrmacht è argomento troppo impegnativo da poter essere affrontato in questa sede. Galli si sofferma invece a paragonare il modo distruttivo con cui entrambi i contendenti concentrarono la loro azione contro la popolazione inerme, e questa involontaria faziosità talvolta nuoce allo scopo (nobile) di dare seguito alla memoria di migliaia di morti, uomini, donne, vecchi e bambini, i quali ebbero l’unica colpa di non essere stati abbastanza rapidi a raggiungere un rifugio sicuro durante le incursioni.
A conclusione della lettura di questo interessante volume, a nostro parere, due questioni restano sul tavolo in attesa di ulteriori approfondimenti. La prima riguarda la modalità, invero barbara, di alcuni mitragliamenti a bassa quota su obiettivi distintamente privi di alcun rilievo militare. Su tutti ci è parso paradigmatico l’episodio, sconosciuto ai più, dell’attacco aereo ad un tram nei pressi di Montichiari, avvenuta il 15 settembre 1944, ad opera di cacciabombardieri “Lightning” che secondo l’autore (il quale riporta una ricca documentazione d’archivio) erano quasi certamente appartenenti all’aviazione gaullista. Diciotto morti furono l’esito di una vera e propria caccia all’uomo effettuata nei campi circostanti la strada ferrata, che proseguì per diversi minuti dopo la distruzione delle carrozze e quindi con l’evidente scopo di provocare un eccidio.
Con il necessario distacco, chi scrive ritiene che la comunità scientifica dovrebbe affrontare in modo sistematico anche questi episodi, e con la stessa attenzione dedicata alla costellazione sanguinosa delle stragi naziste. Sempre con la dovuta cautela, sarebbe poi bene iniziare a chiedersi come mai, a Trivellini di Montichiari, nella civile e prosperosa Lombardia, si è dovuto attendere il 1999 per dedicare una lapide in cui fosse scritto, apertis verbis e in modo inequivocabile, che quei morti furono “vittime del mitragliamento aereo alleato” e non, come altrove si è voluto indicare, per generiche “cause di guerra”. La verità, secondo noi, non dovrebbe far paura a nessuno. Almeno in teoria.
Mussolini privato, Mussolini pubblico
Pasquale Chessa – Barbara Raggi, L’ultima lettera di Benito, Milano, Mondadori, 2010
L’intricata vicenda del carteggio intercorso fra Clara Petacci e Benito Mussolini è stata oggetto sino ad oggi più di cronache giornalistiche che di studi storici, e la pubblicazione di una parte delle lettere e dei diari erano già state edite lo scorso anno e comprensive del periodo 1937-39, non ha contribuito a rendere giustizia a questo materiale documentario, a parer nostro di notevole importanza storica. Una parte di questo “corpus”, invece – custodito presso l’archivio centrale dello stato nel cosiddetto “Fondo Petacci” – è stato studiato e analizzato in modo scientifico grazie alla cura e alla solerzia di Pasquale Chessa. Il ricercatore prende in considerazione esclusivamente la parte più omogenea del materiale: 318 missive inviate da Benito Mussolini alla sua amante e le più che altrettante risposte, spedite e non spedite, nel corso dei tragici mesi della repubblica di Salò. Emergono in questo consistente carteggio diversi elementi che, a nostro parere, sono di rilievo per l’indagine storica.
Il primo è il ruolo di Clara Petacci e del suo ingombrante entourage nel firmamento salotino. L’amante del duce ha un ruolo attivo non solo nel profluvio di consigli politici, ma anche nei giudizi e nelle scelte poi effettuate dal grigio duce di Gargnano. Ed è una consigliera ascoltata, nel bene e nel male, nel poco che Mussolini può decidere in autonomia: spostamenti di funzionari, allontanamenti di miliziani, e così via. La leggenda romantica di una Clara moderatrice, specie nella vicenda del processo-farsa a Galeazzo Ciano, esce fortemente ridimensionata. La Petacci è invece “superfascista”: vuole la morte per il genero di Mussolini, la morte per gli altri traditori (e non solo quelli del gran consiglio), l’epurazione violenta di tutti coloro che non rimasero fedeli a Mussolini dopo il 25 luglio. Clara spinge in modo incessante il duce a rivolgersi ad Adolf Hitler, ad emularlo nelle scelte più radicali, ad imitare il fuehrer nella spietatezza.
Il secondo aspetto è una conferma. Il malandato duce di Salò (gli accenni alla salute malferma costellano le lettere di Mussolini) ha un’ansia che sovrasta tutte le altre: essere preso sul serio, anche con le maniere forti, dai sudditi della RSI. E in questo si fa consigliare sempre per il peggio dall’amante. Le rappresaglie cruente e la nascita delle brigate nere, ossia il partito armato, nel luglio 1944 (confermando pienamente gli studi di Dianella Gagliani e Luigi Ganapini) rispondono a questa esigenza: il terrore come manifestazione della propria esistenza in vita. Ed è notevole il peso avuto in questa scelta dal noto articolo “se ci sei batti un colpo” del giornalista Concetto Pettinato, che proprio faceva leva sulla constatazione di una repubblica retta da un governo fantasma.
Il terzo e ultimo punto è anch’esso una conferma, sia pure parziale, ad alcune indagini storiche sugli ultimi giorni del regime, specie quelle condotte da Marino Viganò. Messo spalle al muro dalla ormai prossima e infausta conclusione delle vicende belliche, Mussolini tiene aperte diverse strade, non ultima quella dell’espatrio; già nell’autunno del 1944 a fronte della scarsa tenuta del fronte appenninico, il passaggio dell’intero governo di Salò in Germania, previa una tappa in Alto Adige o in Friuli, era ipotesi tenuta in seria possibilità dal duce e dai suoi. Dal carteggio emerge chiaramente come Mussolini, al di là delle chiacchiere di alcuni suoi agiografi del dopoguerra, pensava seriamente di potersene andare altrove per non pagare il salato conto della guerra civile; il metodo e la destinazione erano già stati predisposti: un aereo per la Spagna pronto all’aeroporto di Ghedi (quello che poi portò l’intera famiglia Petacci a Barcellona). Insomma, il duce non scartava l’ipotesi di finire la partita come altri leader collaborazionisti di rango inferiore, che riuscirono poi nell’intento di raggiungere la penisola iberica, su tutti Leon Degrelle e Pierre Laval. La reazione scomposta e irata che lo stesso Mussolini riferisce per iscritto alla Petacci di fronte alla comunicazione che la Spagna lo rifiutava, riferitagli de visu dall’ambasciatore nazista Rudolf Rahn, è eloquente più di ogni altra carta o testimonianza (memorabile il commento “ecco la riconoscenza della Spagna!”).
La fine è nota. E il fatto che al termine di questa, come di quasi tutte le altre lettere, il tragico duce ordini all’amante “straccia tutto”, fa ben comprendere come lo stesso Mussolini capisse che la sua ”immagine bugiarda” poteva risultare compromessa non solo per i contemporanei, ma anche per i posteri.
I buoni sentimenti dei generali italiani
Amedeo Osti Guerrazzi, Noi non sappiamo odiare, Torino, Utet, 2010
Gli “italiani brava gente”, anche se in divisa, sono da sempre uno degli stereotipi più duri a morire nella pubblicistica e nella storiografia italiana riferita alla seconda guerra mondiale; a essere sinceri, se si è stratificato questo tipo di definizione nel corso dei decenni, il merito (o il demerito) non è solo italiano, come l’autore invece sottolinea. Assieme agli studi di ricercatori (soprattutto sloveni, croati e più di recente greci) che hanno analizzato in modo critico il comportamento dei nostri militari nei vari teatri di guerra e nelle zone di occupazione, fino dagli anni ’60 era disponibile una nutrita memorialistica straniera in cui si sosteneva che a fronte della crudeltà tipica dell’agire nazista, gli italiani rappresentavano invece “il lato buono” dell’occupante. Su tutte ci vengono in mente alcune pagine di Simon Wiesenthal nel suo ultimo volume (“Giustizia non vendetta”, Milano, Mondadori, 1999) in cui questa distinzione, forse manichea ma evidentemente sentita, dei “tedeschi carnefici” contrapposti agli “italiani umani e comprensivi” era ben chiara ed evidente almeno per molti di coloro che subirono le violenze razziali.
Detto questo il pregevole studio di Osti Guerrazzi riguarda un piano sino ad oggi scarsamente esplorato, ossia la percezione che avevano del loro operato alcuni fra gli ufficiali di grado più elevato del nostro esercito, attraverso le loro stesse parole. Il fulcro documentario di “Noi non sappiamo odiare” sono infatti le trascrizioni dei dialoghi registrati presso la residenza di Wilton Park, in Inghilterra, dove furono trattenuti in prigionia alti esponenti delle forze armate regie: il maresciallo d’Italia Giovanni Messe, i generali di corpo d’armata Taddeo Orlando e Paolo Berardi, gli ammiragli Priamo Leonardi e Gino Pavesi, più numerosi altri ufficiali di stato maggiore fatti prigionieri in Tunisia e in Sicilia.
Il volume, nella scansione dei capitoli, affronta i temi più scottanti su cui questi uomini, sconfitti e prigionieri, giudicavano il proprio passato, e come queste opinioni subissero non indifferenti scossoni attraversi i sequenziali traumi del 25 luglio e dell’8 settembre 1943.
Sul fascismo, l’atteggiamento generale di Messe e dei suoi è tendenzialmente benevolo, e rispecchia quello di ampi settori della borghesia italiana: una necessità dopo il cosiddetto biennio rosso del 1918-1919 (ricordato da tutti come un trauma ben oltre le sue reali conseguenze) un governo d’ordine, sia pure con annesse ridicolaggini come la smania per le divise e le liturgie di regime, una dittatura necessaria, che il re aveva comunque accettato avendone in cambio l’impero, e un disastro dal punto di vista militare, di cui peraltro nessuno dei prigionieri pare voler accettare la responsabilità. Resta da chiedersi, a parer nostro, per quale motivo gli umori delle forze armate italiane avrebbero dovuto essere venate di progressismo se quelle di ogni altro paese europeo, democratico o meno, non lo erano minimamente nel corso del ventennio 1919-1939.
I capitoli dedicati alla preparazione dell’esercito e alle campagne militari sono forse fra i più interessanti, in quanto in essi davvero si distingue l’”aurea mediocritas” del nostro stato maggiore durante il 1940-43: l’ignoranza in termini di tattica, strategia, combinazione fra azioni aeree, navali e terrestri, l’inadeguatezza di armamento ed equipaggiamento della truppa. Tutti questi argomenti appaiono come segreti svelati soltanto al momento della scesa in campo dell’Italia: i modesti carri medi britannici sono “eccellenti” rispetto ai nostri corazzati, e il commento di un colonnello dell’aeronautica alla visita degli interni di un bombardiere B24 è “questi sono avanti dieci anni rispetto a noi”. Le disastrose prove sul campo, specie le ultime nello scacchiere siciliano, sono narrate con sfoggio di “colpaltrismo” in dosi omeopatiche. Gli ammiragli Pavesi e Leonardi narrano le poco onorevoli rese di Pantelleria e Augusta con un corollario di scuse e mezze verità da primato, senza contestazioni da parte di alcuno, evidentemente perché anche gli altri presenti avevano simili scheletri nell’armadio.
I rapporti coi tedeschi e i crimini di guerra sono anch’essi oggetto di discussione fra i prigionieri. Gli alleati scomodi e sgradevoli sono comunque ammirati per il loro grado di efficienza (anche quando essa è spietata) mentre i crimini di guerra sono una autentica sorpresa. La percezione che il generale Taddeo Orlando ha delle accuse rivoltegli per come comandò la spietata divisione “Granatieri” durante l’occupazione in Slovenia, è soprattutto di stupore, meraviglia e indignazione, non diversamente dagli altri prigionieri. Il fatto che gli italiani “non sapessero odiare” era talmente consolidato nelle menti di questi uomini da non essere scalfito neppure dal profluvio delle circolari e degli ordini che essi stessi avevano emanato sul campo durante la loro presenza nei Balcani. Vi è quasi una operazione di rigetto e rifiuto dei dati di fatto, o quantomeno, una loro giustificazione dovuta all’incessante guerriglia condotta dai partigiani di Tito.
Anche Amedeo Osti Guerrazzi, come Eric Gobetti, sposa la tesi di una nostra generale auto-assoluzione (militare, politica e nell’opinione pubblica) che forse ci fu, visto che si passò da guerra combattuta a guerra fredda nel giro di un biennio, ma a parer nostro la questione ci pare mal posta. Oltre a italiani e tedeschi (e senza contare le robuste forze collaborazioniste slovene, croate, serbe e montenegrine), in Jugoslavia agirono anche gli eserciti ungheresi e bulgari, nessuno dei quali brillò per moderazione, e se diversi ufficiali dell’esercito magiaro furono condotti davanti a corti jugoslave, con estradizioni successive all’instaurazione del regime comunista in Ungheria, non ci risulta che alcun esponente dell’establishment militare bulgaro sia mai stato portato davanti a giudici titini; non fosse altro perché questa nazione fu svelta almeno quanto l’Italia a cambiare fronte nell’estate del 1944, e si pose totalmente sotto l’abbraccio protettore dei sovietici.
Anche per quanto riguarda il dopoguerra, in tutta onestà non si vedono straordinarie differenze nei percorsi di carriera di questi militari rispetto ai loro commilitoni tedeschi; grazie all’instaurarsi della cortina di ferro, tutti furono reintegrati in gradi e funzioni passando senza scossoni dal giuramento al re a quello alla repubblica. Giovanni Messe fece carriera in politica (anche qui non diversamente da molti ex ufficiali della Wehrmacht), ed altri conclusero con una lauta pensione erogata dall’INPS. Sia pure con rammarico rispetto al nostro non commendevole operato in Slovenia e Croazia, non poteva essere diversamente che così. Concedere le estradizioni avrebbe implicato richiederle a nostra volta alla Germania per i crimini commessi in Italia (e perché non anche alla Francia per i crimini commessi durante l’avanzata nel meridione della nostra penisola?).
James Burgwyn, attento studioso della nostra presenza militare nei Balcani ha scritto che per Mario Roatta si sarebbe dovuto concedere una onorificenza per come tutelò la comunità ebraica e condurlo contemporaneamente davanti a una corte marziale per le bestialità commesse contro civili e partigiani jugoslavi.
Questa è a nostro avviso la migliore analisi su quella intricata e sanguinosa stagione. E siamo grati ad Amedeo Osti Guerrazzi che ci offre un ulteriore strumento per comprenderla appieno.