Cesare Catananti, Il Vaticano nella tormenta, Edizioni
San Paolo, Milano, 2020
In genere quando i ricercatori storici si sono interessati
dell’azione del Vaticano nel corso della seconda guerra mondiale e durante
l’occupazione tedesca di Roma, l’attenzione è andata soprattutto agli atti
diplomatici della Santa Sede. Il volume di Catananti, frutto di uno studio
attento degli archivi della Gendarmeria pontificia, osserva invece il piccolo
mondo della Città del Vaticano, una minuscola enclave pacifica in mezzo ad una
guerra mondiale, ed uno scoglio di libertà nel corso del tragico periodo del
dominio nazista. Stato indipendente riconosciuto da tutte le forze in campo, il
Vaticano ospitò corpi diplomatici di paesi in guerra o sconfitti dal terzo
Reich, sotto stretta sorveglianza dalla polizia fascista, e riuscì a dare
ospitalità a prigionieri di guerra alleati che, in qualche modo, oltrepassavano
il colonnato del Bernini; i vertici della Gendarmeria, che assieme alla Guardia
svizzera provvedeva alla sicurezza dei labili confini della città leonina, erano
ben consci di come la sicurezza del Pontefice fosse tutt’altro che un dato
acquisito, tanto che nella cruciale estate del 1943 fu redatto un dettagliato
piano di difesa dei palazzi apostolici, nell’eventualità che una azione armata
potesse mettere a repentaglio la vita di Pio XII. Ovviamente, se un commando
tedesco avesse cercato, come era effettivamente stato progettato, di rapire il
Papa, ben poco avrebbero potuto fare poche centinaia di guardie male armate e
poco addestrate, se non “difendere col proprio corpo” il Pontefice, come si
legge in una parte della relazione. Con l’arrivo degli Alleati, a giugno del
1944, non finirono comunque i grattacapi per il piccolo corpo militare che
operava all’ombra del cupolone, con decine di militari e civili tedeschi che in
qualche modo cercavano di evitare la prigionia scavalcando a loro volta le
transenne di piazza san Pietro. L’autore affronta anche questo conclusivo
periodo con precisione e puntualità, tratti distintivi dell’intero studio.
Mimmo Franzinelli, Storia della Repubblica Sociale
Italiana, Laterza, Bari, 2020
La storia della repubblica di Mussolini ha conosciuto
nell’ultimo ventennio una rinnovata attenzione da parte degli storici, con
lavori di diseguale livello, soprattutto per la tendenza di molti studiosi di
voler dimostrare i propri teoremi ideologici prima ancora di aver ricostruito i
fatti effettivamente accaduti. Il corposo e approfondito studio di Franzinelli
rappresenta un po’ la “summa” di una lunga stagione di ricerche che lo storico
bresciano ha svolto nell’arco di un quarto di secolo sulla storia della resistenza,
del fascismo e dell’occupazione tedesca. Non casualmente molti dei temi
affrontati dall’autore nel corso degli anni ritornano nel volume: la sudditanza
verso gli occupanti nazisti, il declino umano e politico di Mussolini, la
violenza come tratto distintivo del fascismo di Salò, la corte dei miracoli
raccolta attorno a villa Feltrinelli, e la persecuzione degli ebrei attuata
senza pietà in stretta collaborazione con le SS. Certamente tutto questo è ben
documentato nella ricerca, ed appare innegabile nei fatti; tuttavia non
convincono alcune interpretazioni frettolose o la sufficienza con cui viene
analizzato il ritorno in campo di intellettuali e politici tutt’altro che
sconosciuti come Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti o Nicola Bombacci,
i quali avrebbero forse meritato una attenzione maggiore e ritratti umani meno
“tranchant”. Allo stesso modo il tema delle rappresaglie verso i fascisti
dell’aprile e maggio 1945 probabilmente poteva essere affrontato in modo
diverso dal semplice rapporto “causa effetto” (violenza inferta e violenza
ricevuta), anche alla luce di una geografia della violenza che fu diseguale in
tutto il nord Italia. Detto questo, la ricerca di Franzinelli è comunque un
utile lavoro di insieme, che può servire da guida per chi affronti da neofita
l’argomento o da chi intenda approfondire una delle stagioni più tragiche della
storia della nostra nazione.
AA. VV., Di guerra e di genti: 100 racconti della Linea
Gotica, Pendragon, Bologna, 2020
Andrea Marchi, Gabriele Ronchetti e Massimo Turchi, curatori di questo volume collettaneo, hanno condotto un lungo e proficuo lavoro di raccolta di testimonianze, scritte e orali che si è dipanato in luoghi diversi per oltre un decennio. Il canovaccio è la Linea Gotica, dove il fronte italiano si fermò per più di sei mesi a cavallo fra 1944 e 1945, e che scorreva lungo l’Appennino fra Toscana, Emilia e Romagna; vissero a cavallo di questo fronte, non sempre definito in modo chiaro, le comunità locali, i partigiani, i tedeschi, i fascisti, gli americani, i britannici e i brasiliani, civili e militari, uomini di paesi lontani che nell’ultimo inverno di guerra combattevano in Italia, “fronte secondario” per gli alti comandi alleati e del III Reich. Troviamo così storie piccole di soldati e famiglie, stragi e scampoli di civiltà, azioni eroiche e vigliaccherie, come in ogni vicenda bellica. Con la differenza che tutto è raccontato dal basso, dal punto di vista della “gente comune”, in un continuo confronto fra narrazioni di episodi conosciuti, e il vissuto di chi si trovò dentro a quel pezzo di storia. In un periodo in cui molte volte la storia è ormai ridotta a sorella povera delle altre discipline scolastiche, la lettura di questo lavoro potrebbe fare comprendere anche alle generazioni più giovani cosa fu il vissuto dei nostri nonni, gli ultimi ormai ad aver osservato in prima persona i fatti narrati; e qui c’è molto di narrazione a livello familiare, forse l’unica capace di coinvolgere, almeno emotivamente, chi è nato decenni dopo quella guerra che finì per attraversare tutto il nostro paese, senza risparmiare nessuno. Dopo settantacinque anni, probabilmente, sarebbe necessario trovare nuovi strumenti didattici ( ad esempio come questo volume) per tenere viva la memoria di quella stagione, ammesso e non concesso che nella società contemporanea la memoria abbia ancora un significato.
Mario Avagliano, Marco Palmieri, I militari italiani nei
lager nazisti, Il Mulino, Bologna, 2020
Avagliano e Palmieri, con la consueta cura e precisione,
descrivono una pagina a lungo dimenticata nella storia del nostro paese, ossia
quella della resistenza senza armi dei nostri soldati fatti prigionieri (senza
diritti) dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il fatto che ci
sia stata una “dimenticanza” nei manuali e nelle tante storie più o meno
ufficiali del periodo, è un dato certo: non si spiega altrimenti la miriade di testimonianze diaristiche e da
una memorialistica di ogni livello e di ogni genere che fin dall’immediato
dopoguerra ha avuto come oggetto gli IMI (internati militari italiani) e come
fine l’imperioso desiderio di rendere nota una vicenda dai più ignorata o scarsamente
conosciuta; ed effettivamente bisognerebbe chiedersi come si fece a sottovalutare
in modo così ingeneroso la sofferenza di seicentomila soldati deportati nel
Reich, la loro riduzione in schiavitù tramite fame e violenze fisiche e morali
(il leit motiv di ogni ricordo raccolto dagli autori) al fine di aderire al
governo del grigio duce di Salò, e successivamente il loro sfruttamento senza
pietà dall’apparato industriale bellico di Albert Speer e di Fritz Sauckel, i
proconsoli hitleriani addetti alla “guerra totale”. Una vicenda con pagine
limpide di eroismo testimoniate dalle decine di migliaia che persero la vita in
Germania per tener fede al loro giuramento, e vigliaccherie, come le adesioni
al fascismo repubblicano o i piccoli razzismi di casa nostra, con i meridionali
senza pacchi viveri, emarginati e ridotti ad una sofferenza ancora più
devastante rispetto ai loro connazionali del nord, ai quali era comunque
permesso un minimo di assistenza da parte delle famiglie ancora sotto
l’occupazione tedesca. I vari aspetti
della vicenda sono esposti in una narrazione senza retorica, lontana dai toni
delle commemorazioni ufficiali di questi ultimi anni; anche per questo siamo
grati agli autori, i quali aggiungono un nuovo tassello al mosaico della storia
dei nostri anni ’40 fra guerra e dopoguerra.
Volker Ullrich, Otto giorni a maggio, Feltrinelli,
Milano, 2020
La settimana decisiva per gli equilibri post bellici della
seconda guerra mondiale, incredibilmente, è una delle meno studiate dalla
storiografia, e forse una di quelle meno conosciute nell’ambito della storia
del XX secolo. Per decenni si è fatto coincidere il suicidio di Adolf Hitler
con il collasso del Reich e la fine della guerra; in realtà i sette giorni
successivi alla morte del Fuehrer, appaiono straordinariamente importanti, con
un incrocio di vicende e di fatti ancora in molti casi da esplorare, e furono
di guerra combattuta, ancora ferocemente, in mezza Europa. Mentre il governo di
Karl Doenitz temporeggiava nell’accademia navale di Flensburg, dotato di pieni
poteri civili e militari, centinaia di migliaia di tedeschi cercavano in ogni
modo di raggiungere le zone sotto controllo degli angloamericani, e intere
armate della Wehrmacht procedevano, con lo stesso obiettivo, verso occidente,
per sfuggire ad una vendetta sicura da parte dell’Armata rossa. I collaboratori
del terzo Reich ovunque furono sottoposti a rese dei conti cruente e spietate,
mentre la cortina di ferro iniziava a calare da Danzica fino a Trieste. Il
fatto compiuto, unica legge di guerra, avrebbe avuto risvolti fondamentali dal
1945 fino alla caduta del muro di Berlino, tanto è vero che i confini destinati
a restare in piedi fino al 1989 furono quelli stabiliti all’atto della resa
firmata a Reims da Wilhelm Keitel e dai suoi collaboratori. Inutili e superflui,
infatti, furono gli incontri e le conferenze tenutesi il mese successivo a
Berlino: la guerra fredda sostituiva quella combattuta con una sovrapposizione in
cui gli scadenziari temporali appaiono privi di senso. Ullrich comprende bene
questo passaggio epocale, e scandisce le giornate del maggio 1945 finalmente
con l’attenzione che meritano, e che dovrebbero essere il canovaccio per nuovi
studi, su una stagione che spiega molte cose dell’Europa di ieri e di oggi.