venerdì 22 gennaio 2016

Frammenti di storie scomode

Versioni di comodo
Paolo Paoletti, Sant’Anna di Stazzema, una strage aggiustata, Firenze, Agemina, 2015

Paoletti è l’esempio di uno studioso lontano dalle liturgie accademiche e politiche, e per questo spesso ostracizzato dal mondo universitario italiano, che dei riti della memoria continua in molti casi ad essere gran cerimoniere, purtroppo con scarso discernimento fra le cose da rivedere e quelle da conservare. Ed è proprio attorno a questo snodo che l’autore propone la sua analisi dei fatti sanguinosi che si svolsero nell’agosto del 1944 a Sant’Anna di Stazzema, proponendo una ricostruzione della strage forse non sempre condivisibile, con accenti e giudizi talvolta sgradevoli, ma degni comunque dell’attenzione di chiunque si voglia occupare seriamente delle carneficine naziste e fasciste ai danni dei civili italiani. Non dimentichiamo che Paoletti, ormai quasi vent’anni fa, in assoluta solitudine, aveva sostenuto che l’eccidio non era attribuibile al reparto esplorante della 16° divisione SS guidato da Walter Reder, ma a elementi del 35° reggimento della stessa formazione nazista, tesi oggi acclarata e confermata anche dalle sentenze emesse dalla corte militare di La Spezia, dove dieci anni fa si svolsero i processi agli ottantenni reduci del reparto. Per aver detto quello che oggi tutti sanno, l’autore fu accusato di “revisionismo” da politici, ricercatori, studiosi universitari, salvo poi vedersi scarsamente riconosciuto il merito di quel decisivo passo avanti negli studi scientifici. Non fosse che per questo motivo, il volume andrebbe letto con attenzione, perché anche in questo caso gli spunti di riflessione non mancano. Su tutti almeno due ci lasciano davvero sconcertati: il ruolo dei fascisti versiliani e la vicenda dello sciacallaggio successivo alla strage; la massiccia presenza di italiani a Sant’Anna, confermata da testimonianze e memorie scritte, è stata occultata per decenni, facendola passare per marginale rispetto al ruolo dei nazisti. In realtà le camicie nere, quasi certamente della 36° brigata nera di Lucca parteciparono al massacro, ma la documentazione sui possibili autori italiani pare scomparso, per cui di nessuno di essi si ha una identità certa: insomma, a distanza di sessant’anni dalla strage, è stato possibile trovare in Germania una dozzina di ex SS che senz’altro furono a Sant’Anna, mentre nulla si sa dei fascisti lucchesi, ormai certamente impuniti senza mai essere stati nemmeno indagati. I poveri morti (non sappiamo nemmeno quanti sono, visto che le amministrazioni locali hanno gonfiato le cifre per decenni, fino a un totale del tutto inverosimile di oltre 500) invece furono derubati dei loro averi non certamente dai tedeschi, ma da sedicenti “partigiani” e autentici sciacalli: questione talmente vergognosa e indecente da meritare un silenzio tombale da parte di studiosi e istituzioni. Su altre questioni non secondarie, a partire dalla dinamica dell’eccidio (scientemente architettato o dovuto a circostanze contingenti) al fatto che probabilmente non tutti gli imputati al processo di La Spezia fossero effettivamente gli autori materiali, si può essere d’accordo o meno con Paoletti. Resta il fatto che mai come in questo caso la storia “ufficiale” ha mostrato in settanta anni di essere frutto di supposizioni e versioni di comodo. Forse una lettura attenta di questo studio dovrebbe essere consigliata ai tanti che si sono occupati della strage.

Un altro ebraismo
Vincenzo Pinto, In nome della patria, Firenze, Le Lettere, 2014

Il rapporto tra ebraismo e cultura di destra è sempre stato considerato un argomento “scabroso” in ambito storiografico; non ci pare casuale che, ancora in tempi recenti, nel suo ponderoso studio sugli ebrei italiani Riccardo Calimani abbia affrontato in maniera assai sfuggente questo tema, tanto da riservare uno spazio meno che residuale al convinto appoggio al movimento fascista di buona parte della borghesia israelitica del nostro pese. Pinto, da par suo, riesce invece a strutturare tutta un’altra storia della cultura politica degli ebrei europei, analizzando le biografie di una serie di personaggi scomodi, e spesso sottovalutati per quel che concerne l’impatto che ebbero sulla società ebraica del XX secolo.  Nella carrellata che l’autore ci offre, alcuni profili ci sono parsi davvero degni di nota: Vladimir Jabotinsky ed Ettore Ovazza; il primo, russo di nascita e sionista convinto, che dopo aver combattuto in Palestina con la legione ebraica inglese, negli anni trenta del novecento fu fautore di una soluzione radicale per la nascita di uno stato ebraico su entrambe le sponde del Giordano nella regione allora sotto mandato britannico. Per raggiungere lo scopo cercò anche e invano un accordo con l’Italia fascista nel momento di massima crisi del colonialismo inglese, ossia dopo la conclusione della guerra d’Etiopia e la sconfitta dei repubblicani in Spagna, spingendosi a un oltranzismo che prevedeva la creazione di formazioni armate di autodifesa degli ebrei palestinesi. Questi, una volta scoppiato il secondo conflitto mondiale, avrebbero dovuto creare una sorta di “fatto compiuto” a favore di uno stato ebraico, posizionandosi come elemento a quel punto definitivo con il quale l’impero britannico avrebbe dovuto fare scelte obbligate. La morte improvvisa avvenuta nel 1940 lasciò solo le radici di questo progetto, che comunque ebbe sviluppi non lontani da quelli immaginati dall’intellettuale e politico odessita. Più contorta e tragica la vicenda di Ettore Ovazza, che fece della propria esistenza un cammino diametralmente opposto a quello di Jabotinsky ossia la totale integrazione come cittadini di una patria, quella italiana, a scapito dell’identità ebraica, fino a una sorta di “asemitismo” se non di “antisemitismo” che può apparire incomprensibile se non attraverso le lenti del patriottismo nazionalista – e successivamente fascista – del giornalista e intellettuale piemontese; persino contro l’evidenza dei fatti, ossia la promulgazione delle leggi razziali, Ovazza, e una pattuglia non striminzita di intellettuali ebrei, continuarono ad appoggiare Mussolini, convinti che alla base dell’ostilità contro la comunità degli israeliti italiani ci fosse la posizione politica del movimento sionista verso il regime, quando invece, e più banalmente, si trattava del frutto velenoso dell’asse Roma-Berlino. Purtroppo per Ovazza, la patria a cui aveva dedicato la propria esistenza fu matrigna al punto tale da lasciarlo in balìa delle SS, che massacrarono lui e l’intera famiglia sulle rive del lago Maggiore nell’ottobre 1943. Lo studio di Pinto ci è parso degno di nota non solo per lo stile asciutto “sine ira et studio”, ma anche per la capacità di offrire una analisi completa di uomini che ebbero rilievo come intellettuali a tutto tondo (di passata vogliamo citare anche figure apparentemente minori come Abba Gaissinovic e la sua visione spengleriana di Israele), inseriti in un discorso culturale che li ha visti, ognuno a suo modo, protagonisti dell’ebraismo delle patrie, e “della patria”, quella che nacque solo nel 1948, e non senza travaglio.

Le scelte del 1943
1943 strategie militari, collaborazionismi, resistenze (a cura di Monica Fioravanzo e Carlo Fumian), Roma, Viella, 2015

Il volume, che raccoglie gli atti del convegno omonimo promosso dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione e svoltosi presso l’Università di Padova dal 20 al 22 novembre 1943, offre diversi spunti di riflessione su quello che, a giusta ragione, è stato chiamato “l’anno della svolta” nella guerra mondiale. Pur nel generale buon livello degli interventi, si deve constatare come alcune relazioni siano caratterizzate da interpretazioni semplicistiche e ricostruzioni di maniera, che seguono percorsi tutt’altro che innovativi. Se Richard Overy propone in modo sintetico ma convincente la tesi che ancora nell’estate del 1943 la guerra era ben lontana dall’essere decisa in quanto la macchina bellica del Reich si manteneva su standard produttivi elevatissimi, si rimane sorpresi da alcuni giudizi taglienti espressi da Nicola Labanca su Renzo de Felice e il discorso pubblico relativo alla resistenza: a vent’anni dalla morte, ridurre la produzione scientifica dello studioso reatino a “braccio secolare” delle necessità revisioniste di una fazione politica, lascia parecchio perplessi. Si apprezzano le conclusioni di Thomas Schlemmer sul meccanismo della guerra totale nazista, che finì per fagocitare il popolo tedesco in una spirale autodistruttiva sino al termine del conflitto, e ci paiono condivisibili pure le riflessioni di Paolo Fonzi sul nuovo ordine europeo, di Valeria Galimi sul collaborazionismo francese, Antonio Varsori sulla politica alleata verso l’Italia e di Monica Fioravanzo che torna sulla politica della repubblica di Salò, anche se, va detto, quest’ultimo tema appare sottorappresentato nel complesso dei saggi; si resta invece piuttosto stupefatti dalla decisione dei curatori di lasciare inserito l’intervento di Carlo Smuraglia, il quale per sua stessa ammissione, aveva esorbitato dal ruolo di moderatore per sostituire l’assente Elena Aga Rossi: non era possibile recuperare la relazione prevista dal programma? E in caso contrario, non era forse preferibile lasciare vuoto quello spazio, piuttosto che riempirlo con un piccolo comizio resistenziale? Tornando ai saggi, il tono, purtroppo resta assai variabile: Enzo Collotti, sia pure in maniera stringata, riesce a tratteggiare la nascita e lo sviluppo dell’antifascismo nell’Europa degli occupanti e dei paesi occupati (peraltro dimenticando l’Ungheria), mentre Luca Baldissara sottopone al lettore un esercizio di retorica operaista come non si leggeva da almeno un quarantennio; Wilfried Loth contribuisce a rialzare la media generale del volume con una messa a punto sullo stato degli studi riguardanti l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, mentre in conclusione Simona Colarizi cerca di indagare gli umori dei nostri connazionali nell’anno della caduta del fascismo e del collasso militare e civile e Simon Levis Sullam ripercorre i temi del suo studio sui carnefici italiani nella persecuzione antiebraica. In conclusione, se da un lato appare lodevole l’iniziativa di proporre una riflessione scientifica che potesse ripercorrere i temi di un anno che ha rappresentato un punto di svolta per la nazione nel corso del XX secolo, dall’altro ci si chiede se non si poteva cercare di argomentare la discussione su direttrici che tenessero in considerazione l’evoluzione dell’intera storiografia italiana ed europea sull’argomento. Secondo il nostro parere poteva essere fatto di più e di meglio e resta la sensazione di una occasione mancata.