martedì 30 giugno 2009

Miscellanea

L’asciutto Degrelle contro i viscidi bolscevichi
Jonathan Littell, Il secco e l’umido, Torino, Einaudi, 2009.

Littell è balzato in vetta alle classifiche dei libri venduti grazie al feroce romanzo Le benevole (Torino, Einaudi, 2007), la vicenda di un ex appartenente alle SS che ricorda e descrive in prima persona il proprio curriculum di persecutore e assassino seriale di ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Il secco e l’umido è un libro curioso, nato durante la stesura del volume di cui sopra. Littell ha infatti studiato le analisi condotte alla fine degli anni settanta da Klaus Theweleit sulle memorie dei componenti dei Freikorps tedeschi (ed. italiana: Fantasie virili, Milano il Saggiatore, 1997). Le ricerche sull’autodescrizione dei primi nazisti effettuata dal sociologo tedesco, avevano individuato alcuni “tipi ideali” semantici comuni a tutte le narrazioni: il fascista è rigido, solingo, mentre i comunisti agiscono in orde, viscide, che in genere “attentano” all’asciuttezza del solitario eroe portatore di valori tradizionali (coraggio, cameratismo, civiltà, religione, famiglia, casa, ecc…). Le donne sono assenti, se non sotto la tipologia innocua delle “sorelle” o delle “madri”, in quest’ultimo caso appena diventano tali, scompaiono dalla descrizione. Il prode nazionalista quando muore non “cade”, ma “è sommerso” (sempre rigidamente, a mo’ di barca che affonda).
Littell utilizza questo schema sul “secco e asciutto” fascista e “l’umido e melmoso” russo-bolscevico nell’analisi di un classico della letteratura neofascista, Front de l’est di Leon Degrelle, inerente l’esperienza bellica come volontario prima nella Wehrmacht e poi nelle SS del leader rexista belga. Qui effettivamente si riscontrano senz’alcun dubbio le categorie di Theweleit: Degrelle è l’eroe solitario, mentre gli avversari sovietici sono dipinti sotto forme di vita subumane (serpi, insetti, microbi), ed infine una volta morti, semplicemente massa putrescente con cui Degrelle non intende entrare in contatto. I compagni sono ricordati solo sotto forma di “eroi morti”: incredibile il fatto che il comandante della legione vallona, Lucien Lippert, sia nominato solo una volta, ossia quando viene ucciso; in ogni caso quando cadono, gli eroi lo fanno – sempre rigidamente – sul campo di battaglia. Finito il secondo conflitto mondiale, Degrelle, esule in Spagna, continuerà a indossare la propria divisa di colonnello delle SS a beneficio dei fotografi e degli intervistatori, facendo risultare chiara la propria incapacità di adattamento al dopoguerra.
Quello che ci balza agli occhi è la presenza di tutti o quasi questi stereotipi nella maggior parte delle autobiografie degli ex di Salò; da Giorgio Pisanò a Giuseppe Rocco, da Nino Arena a Carlo Rivolta, l’idealtipo di Theweleit si ritrova puntuale: eroi solitari, nemici polimorfi e “umidi” (striscianti, in agguato, vili, nell’ombra), caduti eroici che si “irrigidiscono” nella morte (ma sono rigidi anche prima: nel saluto romano, sull’attenti, mentre procedono in parata), donne “sorelle” (le ausiliarie); i reduci poi sono in genere incapaci di trovare un inserimento nella vita democratica postbellica, e conducono esistenze grigie nel continuo rimpianto delle proprie esperienze “virili” e giovanili.
Confidiamo che quanto prima qualche studioso di casa nostra, evitando i consueti provincialismi, possa condurre una analisi in questo senso, davvero curioso e stimolante, sulla storia della RSI.

I rivoluzionari de’noartri…
Richard Drake, Apostoli e agitatori, Firenze, Le Lettere, 2008

Qualche tempo fa l’allora presidente della regione, Lazio Francesco Storace, così come il deputato Giuseppe Garagnani, chiesero a gran voce una revisione dei manuali di storia delle scuole superiori, a parer loro condizionati dai convincimenti marxisti di gran parte dei loro redattori. In realtà, a nostro modesto avviso, più che una epurazione selvaggia dei libri di testo, sarebbe sufficiente affiancare ai volumi oggi utilizzati alcune opere di orientamento diverso, ma non per questo meno scientifico.
In quest’ottica il libro che Richard Drake ha dedicato agli esponenti di spicco della tradizione rivoluzionaria del marxismo italiano, sarebbe a nostro avviso da utilizzare come strumento sussidiario ai testi di storia contemporanea comunemente adottati alle superiori. Con una prosa piana, serena ed uno stile esemplare, lo studioso americano analizza (impietosamente) le biografie dei leader socialisti nostrani, partendo da un dato di fatto difficilmente contestabile: il pensiero di Marx era giunto in Italia più o meno sotto forma di “Bignami”, perlopiù interpretato da alcuni degli epigoni più estremisti del filosofo tedesco. Carlo Cafiero, il primo di questi che viene studiato da Drake, iniziò la lunga serie dei velleitari tentativi rivoluzionari che avrebbe costellato i cent’anni successivi del comunismo italiano con l’abortita insurrezione romagnola del 1874. Già a fine ottocento la vena estremista della sinistra poteva agevolmente far scivolare alcuni dei suoi leader sul versante opposto, ossia verso la destra nazionalista e imperialista; la parabola di Antonio Labriola che partì da Engels per finire dalle parti di Enrico Corradini la dice lunga sulla tortuosa mentalità di alcuni teorici del socialismo italiano. Alla fine della “belle epoque” Arturo Labriola era il principale apostolo del pensiero del filosofo prediletto dagli agitatori di casa nostra: non Karl Marx, ovviamente, ma la sua versione in sedicesimo, ossia Georges Sorel, predicatore della violenza rivoluzionaria “senza se e senza ma”: unico linguaggio che il proletariato italiano pareva in grado di comprendere, come dimostrò ad abundantiam Benito Mussolini. Non casualmente la dittatura fascista ebbe tra i suoi maggiori esponenti e teorici proprio gli ex sindacalisti rivoluzionari (Edmondo Rossoni e Michele Bianchi su tutti) i quali non fecero altro che mettere in pratica quello che avevano predicato per anni, ossia l’uso spregiudicato della forza.
Nella stagione della dittatura fascista, senz’altro provocata dai tanti teorici del “tanto peggio tanto meglio” (come Amadeo Bordiga, uno dei protagonisti della scissione del partito socialista a Livorno nel 1921), fu Antonio Gramsci a teorizzare le basi su cui si sarebbero plasmate le generazioni successive dei quadri comunisti durante la clandestinità, la guerra di Spagna e la guerra di liberazione. Le sue analisi sull’Italia del ‘900, spesso impietose, segnarono anche una progressiva revisione dei miti del socialismo italiano, primo fra tutti quello catartico della rivoluzione che arriva dal cielo, come lo Spirito santo. Infine, ultimo nell’analisi di Drake, Palmiro Togliatti, che di Gramsci fu l’interprete “acrobatico”, il quale ebbe la missione non facile di coniugare il comunismo sovietico con l’articolato pensiero dello studioso sardo senza violare le ferree leggi staliniane di cui egli era un seguace di cristallina fedeltà.
Infine lo storico americano si sofferma con lucidità in appendice sui tragici cascami di questa ideologia fallimentare, ossia la stagione del terrorismo nel nostro paese; a differenza di quanto predicato da numerosi studiosi di orientamento marxista, i giovani che presero le armi contro “la dittatura borghese” non erano corpi estranei al comunismo italiano, ma i naturali eredi di una tradizione che aveva costruito un mito attorno al culto della violenza risolutrice. Così lo studioso conclude il suo lavoro: “… Non importava che solo poche persone avessero sostenuto le Brigate Rosse sino al 2002. Quanti sostenitori aveva avuto Lenin nel 1902? La cosa importante era tenere accesa la fiamma della rivoluzione nella gelida oscurità dell’egemonia capitalista …” (p. 288). Anche a costo del sacrificio di vite preziose come quelle degli “odiati” riformisti, come Massimo d’Antona o Marco Biagi.

L’arido maestro del giornalismo italiano
Indro Montanelli , I conti con me stesso, Milano, Rizzoli, 2009

Non ha tutti i torti Mario Cervi a riconoscere negli estratti dei diari di Indro Montanelli il tratto vero di uno dei maestri del giornalismo italiano, ossia la sprezzante ferocia nei confronti del prossimo. A questo vorremmo aggiungere il non esaltante quadro delle redazioni italiane nella seconda metà del novecento, piene di intrallazzi più o meno puliti per favorire o affondare colleghi, le relazioni quasi mai “super partes” con il mondo politico, il privato misero a fronte dell’immagine pubblica brillante di alcuni intellettuali di casa nostra: atroce il ritratto di Ennio Flaiano e del suo inesistente rapporto affettivo con la figlia portatrice di handicap (p. 145). Purtroppo ci sarebbe interessato sapere e capire di più, ma per una scelta poco comprensibile dell’editore, solo alcuni scampoli delle riflessioni montanelliane sono state date alle stampe, ossia quelle dei periodi 1957-58, 1966-72 e 1977-78.
E’ comunque uno spaccato interessante per chiunque si volesse avvicinare alla visione che del mondo aveva il giornalista toscano. A noi ci è parso di individuare come elementi sostanziali, oltre alla prosa bruciante, una sostanziale attinenza con la filosofia spicciola di certa provincia toscana che noi ben conosciamo, provenendo dal pian di Pisa. Memorabile la narrazione dei funerali dello zio dell’autore, svoltisi a Fucecchio, che paiono usciti dalla pellicola “Amici Miei”, con i commenti dei cugini (e quanti ne abbiamo sentiti di simili), i quali riflettono a mezza voce: “era l’ultimo dei vecchi: i prossimi siam noi, vai…” (pp. 82-83).
Per il resto, davvero, il dato qualificante ci pare l’aridità del personaggio, sempre ammesso che Montanelli non si fosse rappresentato così volutamente, sapendo che i suoi diari privati prima o poi sarebbero divenuti pubblici; nonostante ciò si fatica a non condividere il malcelato disappunto dell’autore nei giorni successivi all’attentato brigatista del giugno 1977, quando la notizia fu riportata fra le “brevi” del Corriere della Sera, testata a cui aveva dedicato più di trent’anni del proprio lavoro professionale; secco il commento: “Ma da quali ometti è rappresentato questo povero giornalismo italiano!” (p. 219). Effettivamente, oltre ai penosi silenzi, spiccarono alcune prese di posizione invero non memorabili, come quella di Claudio Petruccioli che dalle colonne de “L’Unità” invitava Montanelli a riflettere bene sull’accaduto e sulla sua posizione nei confronti del PCI; un po’ come dire che, in fondo, se l’era cercata. Questo il clima culturale alla fine dei “mitici anni ’70”…
In conclusione aggiungiamo che la prefazione e le annotazioni al testo redatte da Sergio Romano ci sono parse a dir poco frettolose, se non addirittura carenti nell’inquadrare i periodi storici oggetto dei diari. Imbarazzanti alcune note al testo, come quella che indica come segretario della DC “Benito” Zaccagnini (sic, p. 270).

Vulgate lunghe, memorie corte
Paolo Paoletti, Vallucciole, una strage dimenticata, Firenze, Le Lettere, 2009

E’ possibile per uno storico compiere una indagine critica nei confronti di una azione partigiana? Leggendo la ricerca di Paoletti, documentata con la consueta ricchezza di dati, informazioni, bibliografia e testimonianze, la domanda è tutt’altro che peregrina. Fra il 13 ed il 17 aprile 1944, un gruppo di combattimento appartenente alla divisione corazzata “Hermann Göring”(HG), nel corso di una azione antipartigiana lungamente e attentamente studiata, massacrava a Vallucciole, nell’alto Casentino, oltre cento civili, perlopiù vecchi, donne, bambini e neonati. E’ il primo eccidio indiscriminato nel corso dell’occupazione tedesca in Toscana, purtroppo uno dei meno ricordati ancor’oggi, nonostante le sue dimensioni e i tratti invero efferati dell’intera azione condotta dai nazisti della HG.
Dopo l’attenta e sofferta narrazione dell’episodio, l’attenzione di Paoletti, “sine ira et studio”, si rivolge all’antefatto della strage, che rappresenta una parte non marginale dell’intera vicenda. L’azione antipartigiana era stata preceduta dalla missione esplorativa di alcuni elementi del reparto, i quali in abito civile avevano sondato il territorio, venendo intercettati nella località di Molin di Bucchio da un gruppo partigiano garibaldino; i patrioti uccisero due dei tre componenti della pattuglia della “Hermann Göring”, lasciandosene sfuggire uno e lasciarono i cadaveri degli altri all’interno della loro autovettura, senza pensare ne’ a nasconderli, ne’ ad avvertire le popolazioni dell’incombente pericolo. Di seguito l’azione antipartigiana, che coinvolse tutto il massiccio del Falterona ed ebbe una particolare intensità e tratti di autentica ferocia contro i civili proprio dove si era svolto lo scontro a fuoco in cui erano caduti i tedeschi.
Il ricercatore fiorentino, pianamente, critica le mancanze dei partigiani: l’inutilità e l’insipienza di quelle uccisioni, la disattenzione nei confronti della popolazione che avrebbe di lì a poco subito le conseguenze di un rastrellamento condotto da truppe scelte e spietate, l’utilizzo delle informazioni presenti nelle carte rinvenute addosso ai tedeschi unicamente al fine di proteggere le unità partigiane e predisporre la fuga dal cerchio di fuoco che stava per circondarli; per finire Paoletti avanza la sua ipotesi, ossia che il surplus di ferocia sia stato dovuto all’azione dei commilitoni degli uccisi, i quali sfogarono contro i civili inermi la rabbia per la morte dei compagni di reparto e il fatto che, almeno in apparenza, i due caduti fossero stati “finiti” dopo essere stati feriti, fatto non accertato, ma a quanto pare, assai plausibile.
Paoletti, nelle conclusioni, inizia un ragionamento che andrebbe dibattuto a parer nostro in modo più approfondito: quali e quante altre stragi naziste furono condotte con ferocia indiscriminata non solo perché esisteva una “guerra ai civili”, ma anche per le modalità con cui erano state condotte le azioni dei partigiani? Queste ultime vanno sempre e comunque giudicate “in toto” come una guerra senza tregua contro l’invasore, senza esprimere alcun tipo di giudizio di tipo militare, sociale, civile? E’ possibile, al contrario, fare distinzioni fra atti condotti in modo utile coerente e coraggioso, e terribili errori che produssero conseguenze atroci non solo per i patrioti ma per cittadini inermi?
Peter Tompkins, agente britannico che a Roma conduceva assieme ai gappisti la lotta contro i tedeschi, riguardo all’attentato di via Rasella commentava: “un’azione maledettamente ben riuscita. Ma nel posto e nel momento sbagliato”.
Ci auguriamo che questi possano essere spunti per una discussione fra studiosi e non per polemiche ideologiche. E siamo grati a Paoletti per la sua ennesima, valorosa prova di “outrider” della ricerca storica.