L’ideologia della violenza
Guido Panvini, Ordine nero, Guerriglia rossa, Torino, Einaudi, 2009.
La sintesi – terribile – di questa importante ricerca di Guido Panvini, è nelle pagine centrali, dove, una sopra l’altra, troviamo la riproduzione di due testate coeve, una di estrema destra e una di ultrasinistra. La prima, nel cinquantesimo della fondazione dei fasci di combattimento, esalta in una illustrazione apologetica tutto l’armamentario ideologico (e pratico) dei post-fascisti: i valori patriottici trasmessi dai padri ai figli, l’acqua del piave (!) e il santo manganello.
Dall’altro lato, il contraltare cartaceo marxista apre con una descrizione minuziosa su come fabbricare una bottiglia molotov. Incredibilmente, i colori dominanti dei due giornali sono gli stessi: rosso e nero. E in entrambi i casi, a completare il quadro, troviamo l’esposizione claudicante dei cascami tradizionali di entrambe le tradizioni, ossia l’uso della violenza come strumento politico. E’ questa, in buona sostanza, la dimostrazione – offerta, spiegata e dimostrata ad abundantiam dall’autore – che Georges Sorel è stato il lievito ideologico secolare sia per gli eredi di Mussolini che per quelli di Gramsci e Bordiga.
Concentrato nei fatti ed eventi che caratterizzarono il plumbeo quinquennio 1969-1974 (ma con un ampio “prequel” sulla solo apparentemente tranquilla stagione 1966-69), il lavoro di Panvini è fra quelli che crediamo siano destinati a restare anche negli anni futuri; senza timori reverenziali, con un equilibrio frutto di studi approfonditi e documentati, l’autore dipana una dolorosa matassa che è stata in passato “drogata” da interpretazioni frutto dell’una o dell’altra ideologia. Il quadro che emerge è inquietante, spietato e in certi casi mortificante (si veda l’ampio spazio dedicato al favore con cui una certa classe intellettuale guardò alla violenza marxista) ma almeno per quel che ci riguarda, non inedito. Che non esista una violenza politica “buona” ci è sempre parso un dato self evident, ma evidentemente molte cose scontate, in fondo non lo sono per nulla…
Panvini dimostra invece, dati e fatti alla mano come la violenza, ancora una volta nella storia d’Italia (e peccato l’assenza in bibliografia delle limpide analisi di Richard Drake su questo tema) fosse diventato l’abbecedario di entrambi gli oltranzismi. Una violenza diffusa, capillare, nello stile linguistico e nell’azione politica, con forme estreme più di interesse psichiatrico che sociologico o storico, come la vicenda della schedatura sistematica dei componenti delle opposte fazioni, condotta in modo maniacale dai neri e dai rossi (come pure dagli apparati di polizia).
Il fatto che entrambi i contendenti, sia pure con i loro limiti (la scarsa adesione popolare per i neofascisti, il contrasto sistematico operato dalle forze dell’ordine per quel che riguarda le frange estreme del marxismo) non temessero la prospettiva di una guerra civile, la dice infine lunga su quanto sia salvabile, moralmente e ideologicamente, di quella orrenda stagione: anni che furono “fantastici” solo per chi non li visse in prima persona.
Lo studioso fa inoltre trasparire lo sforzo, quello sì immane, di milioni di famiglie che cercarono, nonostante i lacrimogeni, le sirene, le catene, le chiavi inglesi, i coltelli, le spranghe, le macchine alle fiamme, di garantire un’esistenza serena ai figli che nacquero e crebbero in quella stagione.
Anche per questo dobbiamo gratitudine all’autore e al suo lavoro; molte volte, infatti, chi opera ordinariamente per il bene, in silenzio, finisce nel silenzio della storia.
Guido Panvini, Ordine nero, Guerriglia rossa, Torino, Einaudi, 2009.
La sintesi – terribile – di questa importante ricerca di Guido Panvini, è nelle pagine centrali, dove, una sopra l’altra, troviamo la riproduzione di due testate coeve, una di estrema destra e una di ultrasinistra. La prima, nel cinquantesimo della fondazione dei fasci di combattimento, esalta in una illustrazione apologetica tutto l’armamentario ideologico (e pratico) dei post-fascisti: i valori patriottici trasmessi dai padri ai figli, l’acqua del piave (!) e il santo manganello.
Dall’altro lato, il contraltare cartaceo marxista apre con una descrizione minuziosa su come fabbricare una bottiglia molotov. Incredibilmente, i colori dominanti dei due giornali sono gli stessi: rosso e nero. E in entrambi i casi, a completare il quadro, troviamo l’esposizione claudicante dei cascami tradizionali di entrambe le tradizioni, ossia l’uso della violenza come strumento politico. E’ questa, in buona sostanza, la dimostrazione – offerta, spiegata e dimostrata ad abundantiam dall’autore – che Georges Sorel è stato il lievito ideologico secolare sia per gli eredi di Mussolini che per quelli di Gramsci e Bordiga.
Concentrato nei fatti ed eventi che caratterizzarono il plumbeo quinquennio 1969-1974 (ma con un ampio “prequel” sulla solo apparentemente tranquilla stagione 1966-69), il lavoro di Panvini è fra quelli che crediamo siano destinati a restare anche negli anni futuri; senza timori reverenziali, con un equilibrio frutto di studi approfonditi e documentati, l’autore dipana una dolorosa matassa che è stata in passato “drogata” da interpretazioni frutto dell’una o dell’altra ideologia. Il quadro che emerge è inquietante, spietato e in certi casi mortificante (si veda l’ampio spazio dedicato al favore con cui una certa classe intellettuale guardò alla violenza marxista) ma almeno per quel che ci riguarda, non inedito. Che non esista una violenza politica “buona” ci è sempre parso un dato self evident, ma evidentemente molte cose scontate, in fondo non lo sono per nulla…
Panvini dimostra invece, dati e fatti alla mano come la violenza, ancora una volta nella storia d’Italia (e peccato l’assenza in bibliografia delle limpide analisi di Richard Drake su questo tema) fosse diventato l’abbecedario di entrambi gli oltranzismi. Una violenza diffusa, capillare, nello stile linguistico e nell’azione politica, con forme estreme più di interesse psichiatrico che sociologico o storico, come la vicenda della schedatura sistematica dei componenti delle opposte fazioni, condotta in modo maniacale dai neri e dai rossi (come pure dagli apparati di polizia).
Il fatto che entrambi i contendenti, sia pure con i loro limiti (la scarsa adesione popolare per i neofascisti, il contrasto sistematico operato dalle forze dell’ordine per quel che riguarda le frange estreme del marxismo) non temessero la prospettiva di una guerra civile, la dice infine lunga su quanto sia salvabile, moralmente e ideologicamente, di quella orrenda stagione: anni che furono “fantastici” solo per chi non li visse in prima persona.
Lo studioso fa inoltre trasparire lo sforzo, quello sì immane, di milioni di famiglie che cercarono, nonostante i lacrimogeni, le sirene, le catene, le chiavi inglesi, i coltelli, le spranghe, le macchine alle fiamme, di garantire un’esistenza serena ai figli che nacquero e crebbero in quella stagione.
Anche per questo dobbiamo gratitudine all’autore e al suo lavoro; molte volte, infatti, chi opera ordinariamente per il bene, in silenzio, finisce nel silenzio della storia.
Violenza di stato?
Giacomo Pacini, Il cuore occulto del potere, Roma, Nutrimenti, 2010
Federico Umberto d’Amato fu per un quarantennio al vertice dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero degli Interni, una struttura mai formalizzata nella sua funzione prevalente, ossia quello di servizio segreto dalle finalità alquanto torbide e scarsamente controllate.
Pacini affronta questo tema con la stessa serenità con cui, in passato, aveva studiato le formazioni paramilitari dei partiti politici italiani (Le organizzazioni paramilitari segrete nell'Italia Repubblicana, Roma, Prospettiva Editrice, 2008), osservando un dato che a noi pare abbastanza scontato, ma che evidentemente non è ancora stato digerito da una buona fetta dei contemporaneisti italiani: in un paese confinante con la cortina di ferro e nel contempo caratterizzato dal Partito comunista più forte dell’Europa occidentale, la democrazia migliore possibile fu quella che effettivamente avemmo per il quarantennio in questione. Era in sostanza inevitabile – e ben lo si vede nel “work in progress” di cordate antagoniste che portò D’Amato ai vertici dello UAR – che si creassero condizioni per la nascita e lo sviluppo di un servizio eterodiretto, iper-atlantista e dai fini non chiari.
Non è superfluo constatare che strutture analoghe si vennero a creare in tutta l’Europa occidentale, con deviazioni e infiltrazioni di diverso genere (anche di segno opposto, ossia di parte sovietica) e che il livello di libertà istituzionale scandinavo era comunque una pura utopia nello scenario mediterraneo degli anni ’60-’70. Emerge poi con limpidamente che pagando lo scotto di un controllo e un sistema di collaborazione-infiltrazione-ricatto con elementi estremisti di ogni colore, si evitò di piombare nel buio di una dittatura militare di tipo greco, scenario plausibile e considerato a più riprese dalle ali estreme dei servizi italiani.
Certo è che l’attività di D’Amato brillò soprattutto per la sua abilità a restare al di fuori da ogni indagine sulla stagione stragista; nella ricerca si vede con chiarezza come l’ufficio AR non venne praticamente mai coinvolto nelle indagini della magistratura, che invece centrò la sua attenzione sui servizi militari e civili. Risulta invece dalla ricerca una presenza inquietante degli uomini di D’Amato attorno agli autori della strage di Piazza Fontana, cosa peraltro apertamente dichiarata già una quindicina di anni fa da Giorgio Pisanò, giornalista fascista irriducibile, ma uomo poco avvezzo ai maneggi del potere e quindi credibile nelle sue affermazioni.
La parabola del direttore dello UAR si concluse a metà degli anni ottanta; Federico Umberto d’Amato continuò invece la sua attività di gourmet e di redattore della rubrica di cucina de “L’Espresso”, a dimostrazione dell’incredibile poliedricità del personaggio.
Pacini si rivela narratore abile, poco avvezzo alle fumisterie ideologiche che hanno condizionato altri studi sul tema, e scrupoloso ricercatore (oltre ai numerosi testi consultati, l’autore aggiunge l’analisi di una cospicua mole di atti giudiziari). Un libro di sintesi che è utile a chiunque si voglia avvicinare all’argomento.
Violenza tradizionale
Giano Accame, La morte dei fascisti, Milano, Mursia, 2010
L’ultima, appassionata testimonianza di uno dei migliori intellettuali della destra post fascista prima della scomparsa (avvenuta lo scorso anno a causa di un tumore) è un volume dotto e colto, non propriamente “storico”, ma che con la storia ha a che fare continuamente.
L’analisi che Accame svolge, su vari piani e in vari periodi - il lavoro è in realtà costituito da una raccolta di saggi - ruota attorno ad un tema classico della mitologia fascista, ossia l’ossessione, se non il vero e proprio culto della “bella morte” che fu il canovaccio ideologico del regime e successivamente, in modo univoco, della RSI.
Emendato da alcuni errori evitabili da parte di chi ha corretto le bozze del volume (su tutti la descrizione a p. 32 dei franchi tiratori fiorentini ripresa per l’ennesima volta da “La Pelle” di Curzio Malaparte senza nessun accenno agli studi successivi sul tema, e la vicenda delle esecuzioni sommarie dei fascisti a guerra finita, dove l’autore si contenta delle “sparate” di alcuni pubblicisti, ignorando gli studi di Crainz e Onofri, gli unici a offrire la credibile cifra di 10.000 morti), il volume lascia spazio per riflessioni interessanti anche per gli storici di professione.
Ci è parso, al riguardo, davvero illuminante il paragrafo dedicato alla storia della truculenza, dove si osserva assai bene come lo stile denso di immagini mortuarie, cimiteriali e granguignolesche della poetica, della ritualità e soprattutto delle canzoni fasciste, fosse pienamente iscrivibile nella tradizione risorgimentale e liberale del nostro paese; ed effettivamente i “siam pronti alla morte”, i “procomberò sol io”, i “caldi bagni di sangue”, i giuramenti cruenti di carboneria e massoneria contengono quasi tutti gli elementi della retorica mussoliniana, per troppo tempo ritenuta avulsa dalla storia dell’Italia liberale.
Nel seguito del lavoro, Accame concentra la sua attenzione su quelli che furono i “màitre a penser” della sua generazione e di quella dei post-fascisti, la quale sostanzialmente interpretò e comprese il regime (o la propria diretta esperienza giovanile nella RSI) non tanto mentre i fatti si svolgevano, ma a cose fatte e spesso con spirito critico. Ed ecco quindi una carrellata su Gentile, Celine, Codreanu, Cioran, Brasillach, Heidegger, Primo de Rivera (elencati qui in ordine sparso), per i quali l’autore cerca, non diversamente da quanto detto dianzi, di far comprendere come la loro esperienza umana, letteraria e filosofica, non fosse totalmente avulsa dalla storia degli intellettuali del loro periodo.
Quella cultura, insomma, per disperata, insofferente, violenta e razzista che fosse, non era un “altro da se” rispetto a quella europea del XX secolo. Ne era invece parte integrante e forse insostituibile.
Chi scrive queste note condivide solo in parte il lavoro di Accame; resta comunque inteso che ogni intellettuale dovrebbe disturbare la propria coscienza anche con la lettura di cose lontane dal proprio sentire, non fosse altro per comprendere come ci si sente nei panni di un altro. Specie se perdente e sconfitto.