Negli ultimi anni si sono svolte diverse occasioni di dibattito sulla nascita, lo sviluppo e la fine del fascismo nel nostro paese.
Gli atti di due convegni, il primo svoltosi a Mantova, il secondo a Fermo, sono stati di recente resi pubblici e sono di seguito analizzati.
Padania violenta
Fascismo e antifascismo nella valle Padana, atti del convegno di studi di Mantova, 14/16 dicembre 2005, a cura dell’Istituto mantovano di storia contemporanea, Bologna, Clueb, 2007 (pp. 540, € 32, 00).
Il convegno di Mantova del dicembre 2005 ha rappresentato una preziosa occasione per un confronto sullo stato dell’arte della storia del fascismo nelle regioni padane. La parte più ricca e originale di questa raccolta, senza nulla togliere ad alcuni interessanti interventi su Salò, è quella dedicata agli anni ’20 nell’Emilia Romagna e nella bassa Lombardia, ossia il periodo della nascita e dell’avvento del fascismo nelle due regioni. Abbiamo individuato un fil rouge, che unisce tutte le realtà analizzate, anche se, purtroppo, non tutti i ricercatori intervenuti hanno saputo farlo emergere come fattore unificante delle vicende narrate: si tratta del tasso elevato di violenza presente nello scontro politico nel primo dopoguerra; la cruenta dialettica sociale è infatti il vero comune denominatore riscontrabile, sia pure in modo diverso, in tutte le storie locali al centro delle indagini.
Fabrizio Venafro, in una analisi sulla realtà bolognese caratterizzata da pesanti stilemi marxiani, deve constatare che lo squadrismo superò per efficienza “le squadre di combattenti e nazionalisti (…); gli unici in grado di vantare una certa preparazione paramilitare nel contrastare il movimento socialista” (p. 13). Quest’ultimo, a sua volta, non ci risulta fosse propriamente animato da intenti gandhiani, tanto è vero che Matteo Pasetti rileva, a giusta ragione, come a Forlì “l’abitudine a pratiche di violenza politica precedette e favorì l’irruzione fascista” (p. 54); a Piacenza, secondo Fabrizio Achilli, si verifica un fenomeno già da noi individuato nel Ferrarese, ossia il passaggio di alcuni leader anarco-sindacalisti allo squadrismo: “il sindacalismo fascista si insinua nelle crepe che si aprono in quelle aree della pianura agricola dove più aspra è stata la lotta delle leghe rosse” (p. 88). Come nella provincia estense, una generazione di sindacalisti plasmati alla scuola della violenza soreliana, salta il fosso e va a fare la rivoluzione, ma in camicia nera. Peraltro i fascisti, anche nell’Emilia profonda trovano una inattesa dose di consenso, ben sottolineata da Anna Maria Ori nel suo saggio. Appare al riguardo illuminante per stile e contenuti il manifesto con cui a Carpi si presentavano i socialisti alle elezioni amministrative del 1920 parte del quale, citato dalla Ori, merita di essere riportato per esteso:
… Non si va al comune per amministrare meglio dei borghesi, per dare prova di giustizia e di correttezza amministrativa o per fare il bene della cittadinanza, e simili altre promesse democratiche piccolo-borghesi. I socialisti al comune devono provvedere esclusivamente all’interesse di classe del proletariato, antagonista a quello della borghesia … (p. 167)
Sono espressioni che parlano a volumi sul clima dell’Emilia anni ’20, e forse proprio per questo a lungo ignorate; eppure senza una analisi attenta di questi frammenti risulta incomprensibile la ragione per cui si creò un nocciolo duro di consenso attorno al movimento di Benito Mussolini.
A fronte di alcune innovative analisi sull’avvento della dittatura, appaiono non sempre convincenti alcuni interventi relativi alle vicende del ventennio successivo. Le analisi di Giovanni Taurasi sulle carceri di Castelfranco Emilia, così come quelle di Juri Meda su chi si opponeva più o meno palesemente al regime, finiscono quasi per giustificare conclusioni opposte a quelle degli autori, ossia che il dissenso era talmente minoritario e disomogeneo per mezzi e fini, da risultare ininfluente o invisibile.
Non diverso il rischio che corrono Antonella e Davide Guarnieri nel descrivere la situazione di Ferrara sotto la RSI; entrambe le relazioni, peraltro, sono preziose per la messe di dati inediti e la narrazione di vicende sino ad oggi ignote. Lo studio dello scenario in cui si mossero gli antifascisti ferraresi dà vita ad un quadro imbarazzante, in cui l’adesione al fascio repubblicano estense assume aspetti quasi totalitari, comprensivi del ritorno al potere di gruppi politici ed economici che il 25 luglio prima e l’armistizio poi avevano fatto scomparire nel resto dell’Emilia. Stridente è infatti il paragone fra i 9.000 iscritti al PFR estense rispetto alla sparuta pattuglia che frequentava l’agonico fascio di Reggio, già in disfacimento ancor prima del 1943, come ben si ricava dall’analisi di Massimo Storchi; inquietante appare poi l’inquadramento di quasi 2.500 camicie nere nella GNR, forze che sommate alle centinaia di squadristi della brigata nera ferrarese offrivano un controllo talmente capillare del territorio da non rendere necessaria, come sottolinea Davide Guarnieri, la presenza della Ordnungspolizei nella provincia ferrarese.
Nel suo studio della figura di Leandro Arpinati, Brunella della Casa fa di nuovo riflettere su come il fascismo delle origini fosse assai permeabile all’inserimento di personale dai percorsi umani e politici ben lontani dallo stereotipo classista dominante in molta storiografia dell’ultimo cinquantennio. Riemerge, sia pure di passata, la vicenda del fascio bolognese, fondato nel 1919 dai repubblicani Pietro Nenni e Guido Bergamo, elementi assai lontani dall’agraria o dal capitalismo industriale (e infatti espunti dall’analisi superideologica di Venafro, di cui si è detto dianzi). Il percorso umano del “ras” bolognese, prima anarchico, poi squadrista ed infine antifascista, ammazzato da partigiani che potevano essere anagraficamente figli suoi, è, a parer nostro, la spia di contraddizioni spesso risolte con l’eliminazione dalle ricostruzioni storiche.
Il volume si conclude con alcune analisi di vicende locali che poco aggiungono a quanto sinora noto, ed in un caso, quello dello studio che Ermanno Mariani dedica alle formazioni poliziesche di Salò, appaiono di una povertà imbarazzante, ben al di sotto del tono generale del volume; nel riprendere da un libro divulgativo di Silvio Bertoldi di trent’anni fa l’elenco di alcune formazioni di polizia (“vi erano poi la Finizio, la Castellanzi, la Pollastri, la De Sanctis, la Panfi, La Pennacchio”, p.485), l’autore fa filotto, mettendo assieme reparti autonomi (Mario Finizio, comandante del CIP, centro informativo politico, alle dipendenze tedesche), nomi sbagliati (Pollastri invece che Guglielmo Pollastrini, comandante delle squadre d’azione a Roma, che nulla c’entra con la valle Padana), elementi organici della Questura (come Carlo De Sanctis a Ferrara), e individui su cui bisognerebbe iniziare a fare analisi serie, come il fantomatico “Panfi”, elencato da mezzo secolo senza alcuna informazione su diecine di volumi dedicati alla Resistenza, e che secondo noi è il conte magiaro al servizio del SD milanese Spérőe Pállfi (e non Panfi), che Vincenzo Costa descrive nel suo L’ultimo federale (Bologna, Il Mulino, 1997, p. 182-183).
In conclusione il nostro auspicio è lo stesso che Paul Corner (apprezzato discussant durante le giornate mantovane) espresse due anni fa, ossia che dopo una lunga e proficua stagione di ricerche sull'ultimo fascismo, si torni a studiare la nascita dello squadrismo, specie nelle realtà emiliane e lombarde che meglio materializzarono il disegno mussoliniano del partito armato in camicia nera.
I dolorosi percorsi di Salò
Violenza tragedia e memoria della Repubblica Sociale Italiana, atti del convegno di studi di Fermo, 3-5 marzo 2005, a cura di Sergio Bugiardini, Roma, Carocci, 2006, (pp. 370, € 28, 00)
Il debutto dell’Istituto di storia contemporanea di Fermo (AP) ho coinciso con l’organizzazione di un interessante convegno di respiro nazionale sulle vicende della repubblica di Salò; le relazioni, pubblicate alla fine del 2006 presso l’editore Carocci, appaiono di livello assai elevato, con indagini su fatti e personaggi rimasti sinora in ombra e talvolta descritti in passato in modo incompleto e approssimativo.
L’opera infatti appare valida soprattutto grazie alle relazioni dedicate agli argomenti meno conosciuti del biennio 1943-45: le complesse vicende locali della galassia salotina, le biografie dei gerarchi di seconda e terza schiera, le continuità spesso ignorate fra le tre Italie (del re, di Mussolini e della faticosa democrazia postbellica), che coinvolsero larghi settori della burocrazia, delle forze armate e della polizia.
Il curatore, Sergio Bugiardini, nella sua introduzione sostiene che l’idea di fare un convegno sulla RSI nel sessantesimo anniversario della Liberazione poteva apparire “provocatoria” (p. 8) e ciò secondo noi la dice lunga sulle ragioni per cui, come di seguito aggiunge Enzo Collotti, “la storiografia sulla Repubblica sociale italiana nasce in epoca relativamente recente” (p. 15): ci sono, purtroppo, ritardi di mezzo secolo che solo la benevola analisi di quest’ultimo studioso può addebitare “al riflesso autodifensivo di natura politica” (p. 17). Collotti osserva poi come il vacuum sia stato colmato da una alluvione di opere autobiografiche o narrative di orientamento neofascista; Francesco Germinario, poco oltre conferma al riguardo quanto vent’anni fa già avevano compreso Giovanni de Luna e Mario Isnenghi: la memorialistica di Salò “enorme e ancora in crescita anche negli anni più recenti” (p. 29) fu sì redatta a fini autoassolutori, ma venne però letta da tanti (o tantissimi: basti pensare alle numerose ristampe di una indigesta pizza come le memorie di Rodolfo Graziani) che null’altro reperivano sull’argomento. Se lo schematismo definitorio dei vari Battaglia, Mira, Salvatorelli e Santarelli non avesse fatto premio sulla necessità di fare indagini serie sull’ultimo fascismo, forse le analisi di Fredrick W. Deakin sarebbero rimaste una testimonianza meno solitaria su quel controverso periodo. Il meritorio e indispensabile censimento delle fonti archivistiche della RSI condotto dalla fondazione ISEC di Sesto San Giovanni sotto il coordinamento di Luigi Ganapini, prosegue frattanto tra mille difficoltà, e bene hanno fatto Grazia Marcialis e Gaetano Grassi, nella loro relazione a constatare che i tempi per la redazione della Guida agli archivi della Resistenza furono assai più brevi. I ritardi sono comunque una imbarazzante pagina sotto gli occhi di tutti; anche Lutz Klinkhammer conferma un silenzio assordante che, con transalpina bonomia, lo studioso tedesco spiega “con una certa fase politica” (p.49).
Concluse le valutazioni di carattere generale, si giunge alla parte migliore del volume; incontriamo l’inedita storia del “Corriere della sera” nel biennio 1943-45 narrata da Mauro Forno, seguita dagli interessanti cenni che Gloria Gabrielli offre sul percorso umano di Carlo Silvestri, intrecciato a doppio filo per un quarto di secolo con quello di Benito Mussolini. Sergio Bugiardini, in una preziosa analisi della stampa locale marchigiana durante l’occupazione tedesca, fa luce anche sugli inediti e precari equilibri che reggevano l’ultimo fascismo in questa regione. Di grande interesse il profilo dei trentenni che qui, come altrove, fecero rinascere le federazioni provinciali, come Caterbo Mattioli a Pesaro, il quale era talmente convinto di prendere parte a un conflitto ideologico da richiedere, dopo la caduta di Mussolini, “l’adesione alle SS tedesche” (p. 121); un percorso simile ad altri da noi studiati e che conferma la necessità di approfondire le continuità fra vecchio e nuovo fascismo. Maura Firmani si addentra nell’universo oscuro delle ragazze di Salò, e della loro irriducibile fede mussoliniana, soprattutto tramite lo studio delle vicende di alcune detenute fasciste nel penitenziario di Perugia; la Firmani così dipinge una di esse “l’attivismo politico della donna non si esaurì dietro le sbarre, anzi fu alimentato da una cospicua corrispondenza con i camerati tutta incentrata nell’esaltazione di quanto da essi compiuto” (p. 145); desta una certa vertigine il fatto che se questa descrizione non si sapesse essere riferita ad una volontaria di Salò, potrebbe rappresentare una delle tante pasionarie di colore politico opposto descritte nelle antologie resistenziali.
Tornando alle vicende locali, Amedeo Osti Guerrazzi approfondisce la biografia di Guglielmo Pollastrini, uno dei animatori del fascio repubblicano della capitale, sottolineando che “solo nel 2004 è uscito un volume dedicato alla federazione fascista dell’Urbe” (p. 159); saggio scritto dallo stesso Guerrazzi, aggiungiamo noi, il quale con grande caparbietà e rigore ha studiato fatti e vicende su cui non un rigo di carattere scientifico era stato scritto in sessant’anni, nonostante sull’occupazione tedesca di Roma siano stati dati alle stampe dozzine di volumi. Marta Baiardi offre un quadro ricco di dettagli sulla triste vicenda dell’ufficio affari ebraici di Firenze e sul suo capo Giovanni Martelloni, il quale agì nella sostanziale indifferenza e talvolta con l’esplicita approvazione di diversi cittadini del capoluogo toscano (p. 221).
Qualche superficialità nell’ambito della storia militare si rinviene nell’intervento di Gianmarco Bresadola Banchelli sull’Adriatische Kustenland, dove pare che fossero presenti solo reparti tedeschi o sloveni, con un minimo apporto di formazioni italiane, perlopiù di scarsa efficienza (p. 256). In realtà nel Friuli, in Istria e nella Venezia Giulia si trovavano cinque reggimenti di Milizia difesa territoriale (ex legioni MVSN) più altri reparti autonomi (reggimento alpini Tagliamento, battaglione bersaglieri Mussolini ed altri) discretamente armati ed equipaggiati, anch’essi agli ordini del comandante della polizia e delle SS Odilo Globocnik. Senza contare l’arrivo, nell’inverno 1944-45 di altri reparti della X Mas di Junio Valerio Borghese.
Spiace che Brunello Mantelli riduca il suo intervento sui rastrellamenti nelle Marche a sole sei pagine, peraltro colme di riferimenti bibliografici e archivistici: magari lasciando meno spazio ai brevi cenni sull’universo che interpuntano alcune parti del volume, si sarebbe potuto incoraggiare il bravo storico torinese a scrivere qualcosa di più.
Sfocata appare la relazione di Agostino Bistarelli sulla ricostruzione delle forze armate italiane al termine del conflitto; le cifre sulle forze armate della RSI (p. 294) sono tratte dai poco attendibili volumi di Nino Arena e Teodoro Francesconi e la scelta di soffermarsi sulle vicende postbelliche dei partigiani nell’esercito italiano non contribuisce alla conoscenza dei percorsi degli ex ragazzi di Salò; su essi, diversi anni or sono, Pier Paolo Battistelli scrisse che furono smistati in percentuali “non allarmanti” nei vari CAR e successivamente nei Corpi. Bene avrebbe fatto l’autore a fare luce anche su questo tuttora ignoto ambito di indagine.
Di grande interesse e novità, infine, la analisi delle continuità dei vari corpi dello stato, come la magistratura, la polizia e la burocrazia ministeriale, studiate rispettivamente da Giovanni Focardi, Giovanna Tosatti e Marco Borghi. Qualche perplessità ci lascia lo studio della Tosatti, quando afferma che il 20% dei questori aderì alla RSI, mentre “i prefetti di carriera si erano rifiutati in blocco di collaborare” (p. 326). I dati che conosciamo contraddicono questa analisi; i prefetti (poi definiti “capi provincia”) erano spesso arrivati a questo incarico provenendo direttamente dal PNF o dalla Milizia, e dopo l’armistizio, in diversi casi, la loro fede politica potè più del giuramento al re (alcuni casi: Emilio Grazioli, Giovanni Dolfin, Melchiorre Melchiorri, Rino Parenti e Oscar Uccelli). Discorso simile si potrebbe fare anche per i responsabili delle questure, che secondo noi aderirono in misura assai superiore all’uno su cinque di cui parla l’autrice della relazione.
Le conclusioni di Luigi Ganapini, che sottolineano la necessità di proseguire lo studio sulle continuità – invero numerose – tra l’Italia del ventennio fascista, quella dell’occupazione tedesca e quella democratica, sono condivisibili, anche se non possiamo negare il nostro rammarico per alcune sferzanti opinioni che lo storico milanese esprime sulla Chiesa cattolica; questa, assente o quasi nelle pagine precedenti, viene incomprensibilmente citata solo nell’elenco dei soggetti che hanno contribuito a stendere una “cappa di autoritarismo e repressione” sul nostro paese (p. 351).
Ciò non modifica il nostro giudizio sull’opera, che resta senz’altro positivo, e semmai ci fa chiedere se non sia giunto il momento per affrontare in modo sereno (magari in una giornata di studi) il ruolo della Chiesa nei mesi in cui assieme, nel nostro paese, si svolsero la lotta di liberazione e la guerra civile.
Fascismo e antifascismo nella valle Padana, atti del convegno di studi di Mantova, 14/16 dicembre 2005, a cura dell’Istituto mantovano di storia contemporanea, Bologna, Clueb, 2007 (pp. 540, € 32, 00).
Il convegno di Mantova del dicembre 2005 ha rappresentato una preziosa occasione per un confronto sullo stato dell’arte della storia del fascismo nelle regioni padane. La parte più ricca e originale di questa raccolta, senza nulla togliere ad alcuni interessanti interventi su Salò, è quella dedicata agli anni ’20 nell’Emilia Romagna e nella bassa Lombardia, ossia il periodo della nascita e dell’avvento del fascismo nelle due regioni. Abbiamo individuato un fil rouge, che unisce tutte le realtà analizzate, anche se, purtroppo, non tutti i ricercatori intervenuti hanno saputo farlo emergere come fattore unificante delle vicende narrate: si tratta del tasso elevato di violenza presente nello scontro politico nel primo dopoguerra; la cruenta dialettica sociale è infatti il vero comune denominatore riscontrabile, sia pure in modo diverso, in tutte le storie locali al centro delle indagini.
Fabrizio Venafro, in una analisi sulla realtà bolognese caratterizzata da pesanti stilemi marxiani, deve constatare che lo squadrismo superò per efficienza “le squadre di combattenti e nazionalisti (…); gli unici in grado di vantare una certa preparazione paramilitare nel contrastare il movimento socialista” (p. 13). Quest’ultimo, a sua volta, non ci risulta fosse propriamente animato da intenti gandhiani, tanto è vero che Matteo Pasetti rileva, a giusta ragione, come a Forlì “l’abitudine a pratiche di violenza politica precedette e favorì l’irruzione fascista” (p. 54); a Piacenza, secondo Fabrizio Achilli, si verifica un fenomeno già da noi individuato nel Ferrarese, ossia il passaggio di alcuni leader anarco-sindacalisti allo squadrismo: “il sindacalismo fascista si insinua nelle crepe che si aprono in quelle aree della pianura agricola dove più aspra è stata la lotta delle leghe rosse” (p. 88). Come nella provincia estense, una generazione di sindacalisti plasmati alla scuola della violenza soreliana, salta il fosso e va a fare la rivoluzione, ma in camicia nera. Peraltro i fascisti, anche nell’Emilia profonda trovano una inattesa dose di consenso, ben sottolineata da Anna Maria Ori nel suo saggio. Appare al riguardo illuminante per stile e contenuti il manifesto con cui a Carpi si presentavano i socialisti alle elezioni amministrative del 1920 parte del quale, citato dalla Ori, merita di essere riportato per esteso:
… Non si va al comune per amministrare meglio dei borghesi, per dare prova di giustizia e di correttezza amministrativa o per fare il bene della cittadinanza, e simili altre promesse democratiche piccolo-borghesi. I socialisti al comune devono provvedere esclusivamente all’interesse di classe del proletariato, antagonista a quello della borghesia … (p. 167)
Sono espressioni che parlano a volumi sul clima dell’Emilia anni ’20, e forse proprio per questo a lungo ignorate; eppure senza una analisi attenta di questi frammenti risulta incomprensibile la ragione per cui si creò un nocciolo duro di consenso attorno al movimento di Benito Mussolini.
A fronte di alcune innovative analisi sull’avvento della dittatura, appaiono non sempre convincenti alcuni interventi relativi alle vicende del ventennio successivo. Le analisi di Giovanni Taurasi sulle carceri di Castelfranco Emilia, così come quelle di Juri Meda su chi si opponeva più o meno palesemente al regime, finiscono quasi per giustificare conclusioni opposte a quelle degli autori, ossia che il dissenso era talmente minoritario e disomogeneo per mezzi e fini, da risultare ininfluente o invisibile.
Non diverso il rischio che corrono Antonella e Davide Guarnieri nel descrivere la situazione di Ferrara sotto la RSI; entrambe le relazioni, peraltro, sono preziose per la messe di dati inediti e la narrazione di vicende sino ad oggi ignote. Lo studio dello scenario in cui si mossero gli antifascisti ferraresi dà vita ad un quadro imbarazzante, in cui l’adesione al fascio repubblicano estense assume aspetti quasi totalitari, comprensivi del ritorno al potere di gruppi politici ed economici che il 25 luglio prima e l’armistizio poi avevano fatto scomparire nel resto dell’Emilia. Stridente è infatti il paragone fra i 9.000 iscritti al PFR estense rispetto alla sparuta pattuglia che frequentava l’agonico fascio di Reggio, già in disfacimento ancor prima del 1943, come ben si ricava dall’analisi di Massimo Storchi; inquietante appare poi l’inquadramento di quasi 2.500 camicie nere nella GNR, forze che sommate alle centinaia di squadristi della brigata nera ferrarese offrivano un controllo talmente capillare del territorio da non rendere necessaria, come sottolinea Davide Guarnieri, la presenza della Ordnungspolizei nella provincia ferrarese.
Nel suo studio della figura di Leandro Arpinati, Brunella della Casa fa di nuovo riflettere su come il fascismo delle origini fosse assai permeabile all’inserimento di personale dai percorsi umani e politici ben lontani dallo stereotipo classista dominante in molta storiografia dell’ultimo cinquantennio. Riemerge, sia pure di passata, la vicenda del fascio bolognese, fondato nel 1919 dai repubblicani Pietro Nenni e Guido Bergamo, elementi assai lontani dall’agraria o dal capitalismo industriale (e infatti espunti dall’analisi superideologica di Venafro, di cui si è detto dianzi). Il percorso umano del “ras” bolognese, prima anarchico, poi squadrista ed infine antifascista, ammazzato da partigiani che potevano essere anagraficamente figli suoi, è, a parer nostro, la spia di contraddizioni spesso risolte con l’eliminazione dalle ricostruzioni storiche.
Il volume si conclude con alcune analisi di vicende locali che poco aggiungono a quanto sinora noto, ed in un caso, quello dello studio che Ermanno Mariani dedica alle formazioni poliziesche di Salò, appaiono di una povertà imbarazzante, ben al di sotto del tono generale del volume; nel riprendere da un libro divulgativo di Silvio Bertoldi di trent’anni fa l’elenco di alcune formazioni di polizia (“vi erano poi la Finizio, la Castellanzi, la Pollastri, la De Sanctis, la Panfi, La Pennacchio”, p.485), l’autore fa filotto, mettendo assieme reparti autonomi (Mario Finizio, comandante del CIP, centro informativo politico, alle dipendenze tedesche), nomi sbagliati (Pollastri invece che Guglielmo Pollastrini, comandante delle squadre d’azione a Roma, che nulla c’entra con la valle Padana), elementi organici della Questura (come Carlo De Sanctis a Ferrara), e individui su cui bisognerebbe iniziare a fare analisi serie, come il fantomatico “Panfi”, elencato da mezzo secolo senza alcuna informazione su diecine di volumi dedicati alla Resistenza, e che secondo noi è il conte magiaro al servizio del SD milanese Spérőe Pállfi (e non Panfi), che Vincenzo Costa descrive nel suo L’ultimo federale (Bologna, Il Mulino, 1997, p. 182-183).
In conclusione il nostro auspicio è lo stesso che Paul Corner (apprezzato discussant durante le giornate mantovane) espresse due anni fa, ossia che dopo una lunga e proficua stagione di ricerche sull'ultimo fascismo, si torni a studiare la nascita dello squadrismo, specie nelle realtà emiliane e lombarde che meglio materializzarono il disegno mussoliniano del partito armato in camicia nera.
I dolorosi percorsi di Salò
Violenza tragedia e memoria della Repubblica Sociale Italiana, atti del convegno di studi di Fermo, 3-5 marzo 2005, a cura di Sergio Bugiardini, Roma, Carocci, 2006, (pp. 370, € 28, 00)
Il debutto dell’Istituto di storia contemporanea di Fermo (AP) ho coinciso con l’organizzazione di un interessante convegno di respiro nazionale sulle vicende della repubblica di Salò; le relazioni, pubblicate alla fine del 2006 presso l’editore Carocci, appaiono di livello assai elevato, con indagini su fatti e personaggi rimasti sinora in ombra e talvolta descritti in passato in modo incompleto e approssimativo.
L’opera infatti appare valida soprattutto grazie alle relazioni dedicate agli argomenti meno conosciuti del biennio 1943-45: le complesse vicende locali della galassia salotina, le biografie dei gerarchi di seconda e terza schiera, le continuità spesso ignorate fra le tre Italie (del re, di Mussolini e della faticosa democrazia postbellica), che coinvolsero larghi settori della burocrazia, delle forze armate e della polizia.
Il curatore, Sergio Bugiardini, nella sua introduzione sostiene che l’idea di fare un convegno sulla RSI nel sessantesimo anniversario della Liberazione poteva apparire “provocatoria” (p. 8) e ciò secondo noi la dice lunga sulle ragioni per cui, come di seguito aggiunge Enzo Collotti, “la storiografia sulla Repubblica sociale italiana nasce in epoca relativamente recente” (p. 15): ci sono, purtroppo, ritardi di mezzo secolo che solo la benevola analisi di quest’ultimo studioso può addebitare “al riflesso autodifensivo di natura politica” (p. 17). Collotti osserva poi come il vacuum sia stato colmato da una alluvione di opere autobiografiche o narrative di orientamento neofascista; Francesco Germinario, poco oltre conferma al riguardo quanto vent’anni fa già avevano compreso Giovanni de Luna e Mario Isnenghi: la memorialistica di Salò “enorme e ancora in crescita anche negli anni più recenti” (p. 29) fu sì redatta a fini autoassolutori, ma venne però letta da tanti (o tantissimi: basti pensare alle numerose ristampe di una indigesta pizza come le memorie di Rodolfo Graziani) che null’altro reperivano sull’argomento. Se lo schematismo definitorio dei vari Battaglia, Mira, Salvatorelli e Santarelli non avesse fatto premio sulla necessità di fare indagini serie sull’ultimo fascismo, forse le analisi di Fredrick W. Deakin sarebbero rimaste una testimonianza meno solitaria su quel controverso periodo. Il meritorio e indispensabile censimento delle fonti archivistiche della RSI condotto dalla fondazione ISEC di Sesto San Giovanni sotto il coordinamento di Luigi Ganapini, prosegue frattanto tra mille difficoltà, e bene hanno fatto Grazia Marcialis e Gaetano Grassi, nella loro relazione a constatare che i tempi per la redazione della Guida agli archivi della Resistenza furono assai più brevi. I ritardi sono comunque una imbarazzante pagina sotto gli occhi di tutti; anche Lutz Klinkhammer conferma un silenzio assordante che, con transalpina bonomia, lo studioso tedesco spiega “con una certa fase politica” (p.49).
Concluse le valutazioni di carattere generale, si giunge alla parte migliore del volume; incontriamo l’inedita storia del “Corriere della sera” nel biennio 1943-45 narrata da Mauro Forno, seguita dagli interessanti cenni che Gloria Gabrielli offre sul percorso umano di Carlo Silvestri, intrecciato a doppio filo per un quarto di secolo con quello di Benito Mussolini. Sergio Bugiardini, in una preziosa analisi della stampa locale marchigiana durante l’occupazione tedesca, fa luce anche sugli inediti e precari equilibri che reggevano l’ultimo fascismo in questa regione. Di grande interesse il profilo dei trentenni che qui, come altrove, fecero rinascere le federazioni provinciali, come Caterbo Mattioli a Pesaro, il quale era talmente convinto di prendere parte a un conflitto ideologico da richiedere, dopo la caduta di Mussolini, “l’adesione alle SS tedesche” (p. 121); un percorso simile ad altri da noi studiati e che conferma la necessità di approfondire le continuità fra vecchio e nuovo fascismo. Maura Firmani si addentra nell’universo oscuro delle ragazze di Salò, e della loro irriducibile fede mussoliniana, soprattutto tramite lo studio delle vicende di alcune detenute fasciste nel penitenziario di Perugia; la Firmani così dipinge una di esse “l’attivismo politico della donna non si esaurì dietro le sbarre, anzi fu alimentato da una cospicua corrispondenza con i camerati tutta incentrata nell’esaltazione di quanto da essi compiuto” (p. 145); desta una certa vertigine il fatto che se questa descrizione non si sapesse essere riferita ad una volontaria di Salò, potrebbe rappresentare una delle tante pasionarie di colore politico opposto descritte nelle antologie resistenziali.
Tornando alle vicende locali, Amedeo Osti Guerrazzi approfondisce la biografia di Guglielmo Pollastrini, uno dei animatori del fascio repubblicano della capitale, sottolineando che “solo nel 2004 è uscito un volume dedicato alla federazione fascista dell’Urbe” (p. 159); saggio scritto dallo stesso Guerrazzi, aggiungiamo noi, il quale con grande caparbietà e rigore ha studiato fatti e vicende su cui non un rigo di carattere scientifico era stato scritto in sessant’anni, nonostante sull’occupazione tedesca di Roma siano stati dati alle stampe dozzine di volumi. Marta Baiardi offre un quadro ricco di dettagli sulla triste vicenda dell’ufficio affari ebraici di Firenze e sul suo capo Giovanni Martelloni, il quale agì nella sostanziale indifferenza e talvolta con l’esplicita approvazione di diversi cittadini del capoluogo toscano (p. 221).
Qualche superficialità nell’ambito della storia militare si rinviene nell’intervento di Gianmarco Bresadola Banchelli sull’Adriatische Kustenland, dove pare che fossero presenti solo reparti tedeschi o sloveni, con un minimo apporto di formazioni italiane, perlopiù di scarsa efficienza (p. 256). In realtà nel Friuli, in Istria e nella Venezia Giulia si trovavano cinque reggimenti di Milizia difesa territoriale (ex legioni MVSN) più altri reparti autonomi (reggimento alpini Tagliamento, battaglione bersaglieri Mussolini ed altri) discretamente armati ed equipaggiati, anch’essi agli ordini del comandante della polizia e delle SS Odilo Globocnik. Senza contare l’arrivo, nell’inverno 1944-45 di altri reparti della X Mas di Junio Valerio Borghese.
Spiace che Brunello Mantelli riduca il suo intervento sui rastrellamenti nelle Marche a sole sei pagine, peraltro colme di riferimenti bibliografici e archivistici: magari lasciando meno spazio ai brevi cenni sull’universo che interpuntano alcune parti del volume, si sarebbe potuto incoraggiare il bravo storico torinese a scrivere qualcosa di più.
Sfocata appare la relazione di Agostino Bistarelli sulla ricostruzione delle forze armate italiane al termine del conflitto; le cifre sulle forze armate della RSI (p. 294) sono tratte dai poco attendibili volumi di Nino Arena e Teodoro Francesconi e la scelta di soffermarsi sulle vicende postbelliche dei partigiani nell’esercito italiano non contribuisce alla conoscenza dei percorsi degli ex ragazzi di Salò; su essi, diversi anni or sono, Pier Paolo Battistelli scrisse che furono smistati in percentuali “non allarmanti” nei vari CAR e successivamente nei Corpi. Bene avrebbe fatto l’autore a fare luce anche su questo tuttora ignoto ambito di indagine.
Di grande interesse e novità, infine, la analisi delle continuità dei vari corpi dello stato, come la magistratura, la polizia e la burocrazia ministeriale, studiate rispettivamente da Giovanni Focardi, Giovanna Tosatti e Marco Borghi. Qualche perplessità ci lascia lo studio della Tosatti, quando afferma che il 20% dei questori aderì alla RSI, mentre “i prefetti di carriera si erano rifiutati in blocco di collaborare” (p. 326). I dati che conosciamo contraddicono questa analisi; i prefetti (poi definiti “capi provincia”) erano spesso arrivati a questo incarico provenendo direttamente dal PNF o dalla Milizia, e dopo l’armistizio, in diversi casi, la loro fede politica potè più del giuramento al re (alcuni casi: Emilio Grazioli, Giovanni Dolfin, Melchiorre Melchiorri, Rino Parenti e Oscar Uccelli). Discorso simile si potrebbe fare anche per i responsabili delle questure, che secondo noi aderirono in misura assai superiore all’uno su cinque di cui parla l’autrice della relazione.
Le conclusioni di Luigi Ganapini, che sottolineano la necessità di proseguire lo studio sulle continuità – invero numerose – tra l’Italia del ventennio fascista, quella dell’occupazione tedesca e quella democratica, sono condivisibili, anche se non possiamo negare il nostro rammarico per alcune sferzanti opinioni che lo storico milanese esprime sulla Chiesa cattolica; questa, assente o quasi nelle pagine precedenti, viene incomprensibilmente citata solo nell’elenco dei soggetti che hanno contribuito a stendere una “cappa di autoritarismo e repressione” sul nostro paese (p. 351).
Ciò non modifica il nostro giudizio sull’opera, che resta senz’altro positivo, e semmai ci fa chiedere se non sia giunto il momento per affrontare in modo sereno (magari in una giornata di studi) il ruolo della Chiesa nei mesi in cui assieme, nel nostro paese, si svolsero la lotta di liberazione e la guerra civile.