Italiani ebrei
Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani nel XIX e nel XX
secolo, Milano, Mondadori, 2015
La vicenda degli ebrei del nostro
paese nel corso dell’800 e del ‘900 tratteggiata da Calimani ha numerosi motivi
di interesse, ma lascia diversi interrogativi su alcune interpretazioni offerte
nell’opera. Senza soffermarci su quanto di buono c’è in questo affresco su
fatti e personaggi che hanno segnato la storia della nazione italiana, e non
solo dell’ebraismo, due soprattutto restano, a nostro avviso, gli snodi meno
convincenti, ossia il rapporto degli isrealiti con la chiesa prima e col
fascismo poi. E’ indubitabile che nella seconda parte del XIX diverse fazioni
dell’antisemitismo religioso abbiano trovato appoggio (invero mai largo ne’
diffuso a livello popolare come nell’est europeo) all’interno della chiesa nel
nostro paese; ci sono però circostanze e vicende che potrebbero aiutare a
capire meglio il trauma irrisolto che fu la fine del potere temporale; l’autore
infatti un (po’ frettolosamente) fa risalire al pessimo rapporto fra
cattolicesimo e modernità la pervicace volontà di mantenere vivo un
antisemitismo fondato su leggende terrificanti e ignobili. Quella stagione, in
realtà, fu complessa, e gli strali della stampa più cattolica più intransigente
non prendevano solo di mira gli ebrei, ma anche i massoni e successivamente i
socialisti, tutti messi sullo stesso piano come cause del decadimento nei
valori tradizionali. Dall’altra parte, e questo Calimani poco lo mette in luce,
il neonato regno d’Italia si impegno con zelo degno di miglior causa a
scristianizzare il paese partendo dalle scuole per finire ad ogni altro ganglio
della nuova nazione; pare quindi che Pio IX combattesse contro i mulini a vento
in un paese in cui i sudditi cattolici, ossia la quasi totalità, erano riveriti
e rispettati. Non era così, e probabilmente a quel papa e ai successivi
occorrerebbe concedere quantomeno le “circostanze attenuanti” per come si
rapportò con l’Italia in generale e con gli ebrei in particolare. Per quanto
concerne le relazioni con il fascismo, ci pare abbastanza discutibile la
rappresentazione di un Mussolini animato da saldi principi antisemiti fin dai
tempi della sua ascesa al potere, e, di converso, di comunità israelitiche
indifferenti se non addirittura ostili al movimento delle camicie nere. In
realtà gli appoggi mai celati e anzi semmai evidenziati a più riprese da parte
di elementi di spicco dell’ebraismo italiano all’azione fortemente nazionalista
del duce non sono mai stati mistero per nessuno. E senza andare a scomodare
l’istruttiva lettura delle opere di Giorgio Bassani, fa davvero specie lo
scoprire solo a p. 407 che Ferrara ebbe per lustri un podestà ebreo, fascista
convinto, dimessosi solo nel 1938, alla vigilia delle leggi razziali. In
conclusione, se il lavoro di Calimani è nel complesso una narrazione ben
costruita di una storia complessa e articolata, lasciano perplessi i giudizi
talvolta superficiali su questioni non secondarie, che hanno da sempre
interpretazioni divergenti nella storiografia.
Un altro teatro
Simone Cristicchi - Jan Bernas, Magazzino 18, Milano, Mondadori, 2015
Ci siamo avvicinati con curiosità
al volume che è il canovaccio del discusso lavoro teatrale di Simone
Cristicchi. E la cosa che più ci ha colpito è l’incomprensibilità del motivo
per cui lo spettacolo non sia solo “discusso” ma talvolta pure denigrato,
ostacolato, pubblicamente contestato e fatto oggetto di sgradevoli
manifestazioni di intolleranza, come minacce scritte e verbali. Ora sappiamo
bene di non trovarci di fronte a un volume di ricerca storica, ma gli appunti e
le spiegazioni che troviamo nelle prime pagine, non ci paiono lacunosi, anche
perché, a nostro avviso, se si parla di Foibe non è possibile che ogni volta si
debba ricostruire “ab ovo” l’intera vicenda etnica dell’Istria, in modo da
distribuire torti e ragioni in modo politically correct. Cristicchi fa il
cantante e l’attore, e non fa lo studioso e le tracce che lascia al lettore
sono quelle – a nostro modesto avviso – sufficienti a comprendere due o tre
cose fondamentali: gli italiani c’erano già ai tempi dell’impero
austroungarico, dopo il 1918 si sono comportati spesso malamente con sloveni e
croati, per diventare intollerabili vicini di casa, dopo il 1922 e l’avvento
del regime fascista. Dal 1941 fummo occupanti straccioni e crudeli, e le
vicende resistenziali del 1943-45 poco contribuirono a migliorare i nostri
rapporti con le popolazioni slave. Questa parte, sia nel volume che nello
spettacolo teatrale non vengono negate mai, in nessun momento; così come la
vicenda delle decine di migliaia di civili italiani costretti alla fuga, dopo
aver subito vessazioni e crudeli vendette, ci pare narrata con equilibrio; non
ci sono dettagli granguignoleschi, non si calca la mano sulla pulizia etnico-ideologica
operata da Tito, che comunque tale fu, e riguardò certamente non solo i nostri
compatrioti, ma anche le minoranze tedesche e ungheresi, le quali subirono
trattamenti per nulla diversi da quelli ricevuti dagli istriani o dai dalmati. Il
quadro che emerge è quello di una popolazione che pagò in solido le scelte
sciagurate del regime fascista (altra verità che non ci pare oscurata nel
volume) senza avere altra colpa se non quella di essere italiani dalla parte
sbagliata del confine. Senza entrare nelle sofferenze delle narrazioni
individuali, il Magazzino 18 che dà
il titolo all’opera è davvero il monumento all’indifferenza nazionale non tanto
e non solo verso una minoranza alla quale è stato richiesto esclusivamente di
adattarsi, meglio se in silenzio, quanto, più in generale, nei confronti della
storia recente del paese. Infatti, le masserizie che ancora ingombrano i locali
nei pressi del porto di Trieste sono stati semplicemente dimenticati per
decenni, e lo sarebbero stati ancora oggi, se un bravo cantautore non avesse
deciso di togliere la polvere da quelle testimonianze di una intimità e di una
serenità persa per sempre. E di questo non possiamo che essere grati a Simone
Cristicchi.
Le vite degli altri
Nicola Adduci, Gli altri, Milano, Franco Angeli, 2014
L’esplorazione delle vicende di
Salò a livello locale continua a riservare sorprese, specie per quanto riguarda
le regioni dove il fenomeno dell’adesione all’ultimo fascismo fu precario e
sostanzialmente insignificante; non per questo meno interessante, non fosse
altro perché si deve illuminare la vicenda di chi in prima persona combatté in
modo sanguinoso la guerra contro civili e partigiani. Lo studio di Nicola Adduci
è pregevole sotto ogni punto di vista, specie per quanto concerne lo spaccato
sociale dei capi e dei gregari che si misero a disposizione dei tedeschi in una
città, Torino, che aderì in modo straripante al movimento di liberazione. La
sensazione, come spesso accade in questi casi, è quella di uno straniamento totale
non soltanto rispetto al comune sentire della popolazione, ma anche rispetto
alla logica delle cose: ci resta impresso, al riguardo, l’ordine di servizio
esposto il 26 aprile 1945 alla casa littoria, con il quale si invitavano le
camicie nere a mantenere la calma e a restare tranquilli in quanto, ormai a
insurrezione conclamata, la situazione non appariva “ne’ tragica ne’
preoccupante”. In realtà non è soltanto nell’ultimo spasimo che il fascismo
repubblicano del capoluogo piemontese risulta un corpo estraneo alla società
civile, ma si può dire che questo è il tratto caratteristico di tutto il
percorso del PFR nella città della mole. La nascita precaria, la stentata
esistenza, e il violento parossismo finale delle camicie nere torinesi hanno poi
come tratto unificante l’estrema esperienza politica di Giuseppe Solaro; il
trentenne responsabile della federazione prima e della brigata nera poi, si
rivela elemento tanto radicale quanto
ingenuo e idealista nella gestione del suo incarico, circondandosi da un nucleo
di fanatici disposti a tutto pur di lasciare il proprio segno omicida nella
storia di una città che aveva fatto letteralmente il vuoto attorno agli
squadristi dell’ultim’ora. Ed è proprio l’ultima ora delle camicie nere quella
che rappresenta, più di ogni altra violenza, il disperato nichilismo della
sparuta pattuglia dei fedelissimi al duce in fuga; il cecchinaggio
che per giorni provoca decine di morti e feriti fra patrioti, insorti e
semplici passanti nelle strade del capoluogo piemontese, ben più organizzato e
oltranzista di quello fiorentino, è probabilmente il più autentico manifesto
politico di Solaro e dei suoi accoliti; assai più credibile delle zoppicanti
socializzazioni fuori tempo massimo o dell’attacco (verbale) ai “poteri forti”
dell’economia industriale torinese. La conclusione, prevedibile, di questa
violenza omicida inferta senza riguardi, fu la violenza moltiplicata, contro i
colpevoli e anche contro i sospetti, o gli innocenti (va detto), che portò lo
stesso sprovveduto federale sotto al cappio di corso Vinzaglio, e i suoi
collaboratori davanti ai plotoni di esecuzione partigiani. Il meticoloso lavoro
di ricerca di Adduci affronta senza timori reverenziali anche questa pagina di
terribile ira popolare, spesso tralasciata in precedenti lavori sulla
resistenza torinese. Anche per questo motivo non possiamo che essere grati
all’autore.