Vite normali di vittime designate
Mario Avagliano – Marco Palmieri, Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia, Torino, Einaudi, 2011
Proseguendo la felice intuizione avuta con il precedente Generazione ribelle, Mario Avagliano, in collaborazione con Marco Palmieri, ci offre, tramite lo strumento dei diari e delle lettere, lo specchio delle riflessioni, dei giudizi e dei pensieri che scrissero di getto, “in tempo reale” i componenti delle comunità ebraiche italiane dall’introduzione delle leggi razziali nel 1938, sino ad arrivare al tragico biennio 1943-45.
A leggere questo interessante e largamente inedito materiale, emerge con chiarezza un sentimento dominante che percorre le varie fasi dalla “persecuzione dei diritti e dei beni” fino alla stagione catastrofica della “persecuzione delle vite”: lo stupore e l’incredulità, prima ancora che la rabbia o il timore.
La spiegazione, espressa in decine di scritti, è sostanzialmente la stessa, ossia l’incapacità di comprendere l’abisso in cui l’Europa stava per entrare. Agli occhi di questi uomini e donne, in genere di cultura media o elevata, con attività commerciali e industriali fiorenti, risulta pressoché impossibile da comprendere la barbarie elevata a sistema che si stava impadronendo dell’intero continente. Addirittura, da parte della non marginale minoranza che aveva apertamente appoggiato il fascismo e che ne condivideva l’ideologia nazionalista, ci sono – almeno all’inizio – forme di larvata giustificazione delle scelte mussoliniane del 1938 (cosa che avevamo anche ampiamente incontrato nella biografia di Renzo Ravenna “Il podestà ebreo” redatta da Ilaria Pavan). Il legame nazione-identità ebraica, specie nella sua declinazione più “patriottica” (e forse addirittura patriottarda) emerge con chiarezza negli scritti di chi aveva partecipato alla prima guerra mondiale, o che addirittura era stato fervente interventista. Tanti si rifiutano di accettare che la stessa patria in cui si sentivano integrati ora li respingeva come una entità estranea (un rifiuto che porta anche ad alcuni suicidi).
Nonostante lo scoppio della seconda guerra mondiale e la progressiva discriminazione dalla vita nazionale, gli ebrei italiani, in maggioranza, non si ribellano ai soprusi, compresi quelli più gratuiti e violenti (come la devastazione della Sinagoga di Ferrara nel 1941), cercando piuttosto un modus vivendi con la nuova realtà. Le prime frammentarie notizie sull’avvio del programma nazista di sterminio, vengono anch’esse commentate con sostanziale incredulità, almeno fino a quando, con l’occupazione nazista, i treni piombati iniziano a partire anche dal nostro paese.
Solo nel momento più atroce e irrimediabile, nel viaggio verso i campi della morte, tramite biglietti, lettere e messaggi letteralmente gettati nelle stazioni di mezza Italia, si avvertono i congiunti e gli amici che l’unica salvezza è la fuga: quasi come se per centinaia di uomini, donne, vecchi e bambini, la catastrofe finale fosse arrivata come un temporale in mezzo all’irreale calma creata per dare una parvenza di serenità alle famiglie colpite dalla follia delle ideologie omicide.
Questo è forse l’aspetto più toccante e tragico dell’intera vicenda, che porta a chiedere a ciascuno di noi quale reazione potremmo avere di fronte alla persecuzione immotivata (e crediamo che questo sia il nodo centrale) della propria vita e dei propri affetti. Una domanda che deve restare ben presente nella coscienza civile del paese.
Siamo grati a Mario Avagliano per averci condotto, con rispetto e delicatezza per chi ha lasciato quelle strazianti note, a riflettere ancora una volta su quella terribile stagione.
Vittime e criminali
Davide Conti, Criminali di guerra italiani, Roma, Odradek, 2011
L’autore, in questo volume, prosegue proficuamente le ricerche iniziate con il precedente “L’occupazione italiana dei balcani”, incentrando l’attenzione dello studio sulle richieste espresse da Grecia, Albania, Unione Sovietica e Jugoslavia di estradare i criminali di guerra italiani per essere giudicati davanti a corti marziali.
Conti, con bravura, coglie con esattezza le situazioni – anche molto differenti fra loro – in cui si trovavano al termine della guerra le nazioni sopra citate, e di conseguenza le differenti prospettive di trattamento che potevano attendersi i nostri militari macchiatisi di atrocità nel periodo 1941-43. Non abbiamo inserito in questo elenco gli USA, che pure ebbero a subire perdite a causa di azioni criminali, ma questo unicamente per il fatto che gli americani (come anche i britannici: si veda il caso del generale Nicola Bellomo) procedettero sempre in autonomia e per le spicce con chi cadeva nella rete dei servizi di intelligence a stelle e strisce, e che finirono tutti o quasi davanti al plotone di esecuzione.
Risulta particolarmente efficace e inedita la parte inerente la questione dei crimini commessi nella penisola ellenica, uno scacchiere in cui l’occupazione italiana ebbe aspetti drammatici, oscurati probabilmente dal coraggioso comportamento delle nostre truppe dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ci furono invece anche in questa nazione soprusi, vessazioni ed episodi sanguinosi, come la rappresaglia avvenuta nel villaggio di Domenikon, che coinvolse decine di civili innocenti, sulla quale solo di recente è stata fatta luce. I rapporti bilaterali tra Grecia e Italia per quel che concerne i processi ai criminali di guerra italiani (come nel caso di quelli con la Germania) furono condizionati da una sorta di reciproco oblio, favorito anche dal fatto che nell’immediato dopoguerra il paese era squassato da una cruenta guerra civile, il cui esito fu un governo conservatore e filo atlantico che non aveva la minima intenzione di riaprire le ferite del periodo bellico.
Interessante anche la parte concernente l’Albania, paese che era parte integrante del regno d’Italia dal 1939 al 1943 e che conobbe una sanguinosa stagione di guerriglia partigiana a partire dal 1941. In questo caso l’appartenenza della nazione balcanica alla sfera di influenza comunista minò fin dal principio la possibilità di un qualsiasi dialogo fra le parti sullo spinoso tema dei crimini di guerra, anche se, va detto, ci pare che le azioni repressive dell’esercito italiano in una zona che a tutti gli effetti era territorio nazionale, furono assai meno pesanti che altrove. Infine, a nostro avviso meno innovative le ricerche riguardanti la Jugoslavia e l’URSS, che ripercorrono sentieri conosciuti (anche se visti con l’occhio attento di Mario Palermo, sottosegretario alla guerra dei governi Badoglio e Bonomi e dirigente del PCI). In conclusione al volume troviamo una (abbastanza superflua) intervista al procuratore Antonino Intelisano, sul tema dell’armadio della vergogna di palazzo Cesi.
Restando fermo il valore scientifico del lavoro di Conti, restano a nostro avviso diverse riserve sul taglio dato all’indagine. In nessun punto del volume si rileva che, fatta salva la Grecia, le richieste di estradizione dei criminali di guerra italiani giungevano non da democrazie parlamentari ma da paesi in cui erano stati instaurati brutali regimi autoritari (per non soffermarsi sull’URSS di Stalin). Parlare poi del 1948 come un momento di svolta “reazionario” rivela uno schematismo definitorio davvero d’altri tempi, così come l’insistenza nel cercare di inserire anche la chiesa cattolica fra le categorie che con zelo cercarono di proteggere i criminali di guerra.
Anche in questo studio, inoltre, sfugge il fatto che, anche se non ci fu una “Norimberga italiana” (cosa altamente improbabile visto lo stato di “guerra fredda” già in atto nel 1946) molti dei capi politici e militari erano stati comunque processati in quanto aderenti alla RSI (come il famigerato generale Gherardo Magaldi) e diversi erano stati passati per le armi a guerra finita (Pietro Caruso, Paolo Zerbino, Gaetano Collotti e altri).
Si tratta comunque di rilievi che non inficiano la validità dell’impianto e che suscitano domande e necessità di nuove indagini.
Vittimismo nazionale?
Giovanni de Luna, La repubblica del dolore, Milano, Feltrinelli, 2011
Ammettiamo un nostro limite: la lettura e l’analisi di questo volume di Giovanni de Luna ci sono risultate particolarmente ostiche, visti i continui cambi di argomento e le diverse situazioni – non sempre congrue – presentate nel lavoro. Da quanto abbiamo compreso, la tesi dell’autore è la seguente: la memoria storica condivisa, patrimonio delle forze sociali e politiche dell’arco costituzionale è collassata vent’anni fa assieme alla prima repubblica. I governi eletti successivamente hanno fallito il compito di creare un nuovo patto per definire i riferimenti storici nazionali; in assenza di questi, e tramite un disinvolto uso pubblico delle “storie dolorose”, si è creata una memorialistica vittimaria, i cui protagonisti sono in aspra competizione per cercare attenzione sui media, mettendo a confronto commozione a commozione e lacrime a lacrime.
La proposta di De Luna è che tale modello andrebbe sostituito con un pantheon degli “eroi miti” (sic), categoria introdotta da Norberto Bobbio negli anni ’80 e che ci pare di confusa definizione, dal momento che parte da Goffredo Mameli e finisce con le guardie del corpo di Salvador Allende. Unica luce per orientarsi nell’oscurità di questo “pantheon” è la solerte distinzione bobbiana che “la laica mitezza non è la mansuetudine della tradizione cristiana” (cosa evidentemente riprovevole, anche se ci sfuggono i motivi).
La prima domanda che sovviene dopo la lettura è: perché il paradigma vittimario è così esecrabile? Perché una nazione non può ritrovarsi osservando la propria storia dal lato dei deboli, di chi ha sofferto lutto e rovina a causa di eventi recenti, come il terrorismo, o più lontani, come la guerra mondiale?
Secondo l’autore esisteva un “pantheon di riferimento” sia pure con declinazioni non immuni da esagerazioni o smargiassate, almeno fino ai primi anni ’90, e allora veniamo ad un’altra domanda non peregrina che è sollecitata dalle riflessioni contenute nel volume: perché De Luna non traccia una seppur minima critica alla storiografia antifascista per le sue responsabilità, imprecisioni, versioni di comodo, elementi che hanno condotto comunque al collasso di quella versione dei fatti? Se il costrutto della storia resistenziale, per come si era stratificato dagli anni ’50 in avanti mostra danni strutturali irrimediabili, possibile che sia colpa solo degli studi di Renzo de Felice, e del comportamento deleterio della classe politica?
A chi scrive sovviene invece una vicenda assai istruttiva: Giorgio Bocca, riferimento adamantino di tanti studiosi della Resistenza, negli anni ’70 sosteneva che a combattere i partigiani in Valsesia nel dicembre 1943 c’era la “divisione fascista Tagliamento” (reparto inesistente), salvo correggersi e farla diventare “legione Tagliamento” negli anni ’80, ma senza avere il coraggio di continuare la cura dimagrante che avrebbe dovuto proseguire con “63° battaglione Tagliamento” per finire con “2° compagnia del battaglione Tagliamento”; insomma: 10.000 uomini che in realtà erano meno di 100. Non sarà stato anche scrivere storie come questa ad aver portato danno alla “vulgata resistenziale”, espressione che tanto dispiace a De Luna?
Infine: come si fa a semplificare i nodi di cinquant’anni di storiografia addossando le colpe dell’uso pubblico della storia a uno studioso che ha avuto il solo torto di concentrare l’attenzione sulle “maggioranze silenziose” rispetto alle “minoranze eroiche”?
L’”intervista sul fascismo” del 1975, tanto stigmatizzata da de Luna, contiene una ignorata perla di saggezza, solo in apparenza lapalissiana visto l’atteggiamento che hanno ancora oggi tanti studiosi impegnati a dimostrare i propri teoremi ideologici: “… la storia va ricostruita prima di essere interpretata, e non il contrario …”. Se così fosse stato fatto, forse non sarebbe accaduto di prendere spesso fischi per fiaschi senza avere poi il coraggio di dire “contrordine compagni”.
Infine una considerazione del tutto personale. E’ davvero triste e penoso che un cattedratico di chiara fama sostenga seriamente che la reazione alla discutibile “Ley de memoria historica” introdotta da Jose Luiz Zapatero sia stata la seguente: “… la Chiesa cattolica, grande alleata del franchismo, nell’ottobre dello stesso 2007 si affrettò a beatificare 400 spagnoli martiri della fede uccisi dagli antifranchisti tra il 1934 e il 1937” (p. 32): un motteggiare davvero poco rispettoso dei fatti (e dei morti ammazzati) che contiene pure un vistoso lapsus calami, visto che nessuno poteva essere “antifranchista” dal 1934 al 1936, ossia prima che fosse scoppiata la guerra civile...
Confidiamo che i giovani studiosi che De Luna ringrazia ed elenca a p. 18 come coloro che hanno “lo sguardo proiettato al futuro” possano anche studiare il passato con senso critico e senza livore. Ce n’è un gran bisogno.