lunedì 24 ottobre 2011

Storie in nero


Radiografia della Milizia
Piero Crociani, Pier Paolo Battistelli, Le camicie nere 1935-1945, Gorizia, LEG, 2011

Libreria editrice goriziana (meritevolmente) pubblica in lingua italiana questo saggio uscito lo scorso anno per i tipi dell’inglese Osprey, e dedicato alla vicenda della MVSN a cavallo fra quattro guerre: Etiopia, Spagna, conflitto mondiale e guerra civile. I due autori, esperti nella (neglettissima) storia militare, fanno propria, fin dal titolo, una tesi a noi cara: la vicenda dell’esercito di Mussolini va letta in un “continuum” che copre appunto l’arco di dieci anni, nei quali le varie fratture (guerra coloniale, guerra antipartigiana all’estero, guerriglia “in casa”) furono eventi che incisero in maniera modesta sulle sorti di queste formazioni e sulle convinzioni ideologiche dei militi. I reparti in camicia nera, infatti, pur subendo modifiche in termini di organizzazione territoriale, equipaggiamento, uniformi, armamento e addestramento, ebbero un filo conduttore unico, ossia l’essere la forza armata della “rivoluzione fascista”, unica ad avere reclutamento unicamente su base volontaria e a basarsi su elementi esplicitamente animati dalla dottrina del regime.
Crociani e Battistelli con dovizia di dettagli e documentazione, ricostruiscono le vicende dei reparti, il loro impiego nei vari scenari di guerra, gli intrecci complicati fra le competenze del regio esercito e del comando generale della MVSN i quali emanavano spesso disposizioni contraddittorie e confuse. Viene poi finalmente fatta chiarezza su quello che pare ancora oggi un vulnus nella ricostruzione storica, ossia il comportamento successivo al 25 luglio e all’8 settembre. Gli autori, infatti, smentiscono tutte le vulgate che vogliono la milizia “disciolta” dopo la caduta di Mussolini e “dissolta” dopo l’armistizio: la MVSN non fu disciolta da alcuno, fu anzi integrata nell’esercito. Dopo l’8 settembre (spesso prima ancora della liberazione di Mussolini) non solo non avvennero “dissoluzioni”, anzi, la quasi totalità dei battaglioni in camicia nera passò ai tedeschi e successivamente divenne il nerbo della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) della RSI. Siamo grati per l’opera minuziosa dei due autori, e confidiamo che anche in qualche volume divulgativo si cominci a prendere atto dei fatti realmente accaduti, i quali sono quelli sopra riportati e non altri.

Ali nere
Marco Mattioli, I falchi di Mussolini, Roma, IBN, 2011

La vicenda dell’Aeronautica Nazionale Repubblicana (ANR) è fra quelle che hanno ricevuto la maggiore attenzione degli studiosi di cose militari, oltre che essere da mezzo secolo oggetto di decine di memoriali, agiografie e romanzi. Pochi fra i volumi pubblicati in questo lasso di tempo hanno avuto il pregio di raccontare in modo documentato e obiettivo la frammentaria e complessa storia dei componenti della regia aeronautica che decisero di proseguire la guerra assieme alla Luftwaffe fino al 1945. Mattioli, in questo agile studio, non ha la pretesa di dare risposte esaustive su tutti i fatti che videro protagonisti gli aviatori della RSI dall’armistizio al 25 aprile, ma di offrire una cronologia delle vicende che coinvolsero i caccia dell’ANR nei 600 giorni di Salò, sulla base della bibliografia esistente e sulla documentazione disponibile presso l’archivio storico dell’aeronautica militare (che forse andava citata con maggiore precisione nel testo).
Il quadro che emerge è privo dei toni agiografici presenti in molta produzione sul tema; nella RSI operarono senza dubbio alcuni tra i migliori piloti da caccia italiani, i quali furono intralciati in ogni modo da camarille politiche, interferenze naziste e un apparato militare pletorico e inefficiente (sul quale prima o poi qualcuno dovrà scrivere qualcosa: centinaia di “aviatori da scrivania” percepirono lauti stipendi mussoliniani senza spostarsi dalle lacustri sedi ministeriali, salvo poi proseguire la propria carriera nella democratica aeronautica post-bellica…). Compaiono poi in modo finalmente visibile i veri “padroni di casa” degli aeroporti del nord Italia, ossia gli onnipresenti ufficiali di collegamento della Luftwaffe, che fecero e disfecero come e quanto vollero ai danni dei propri “alleati”, fino a provocare i gravi incidenti dell’agosto 1944, quando il comando della Luftflotte 2 provò a inserire “de facto” l’ANR nell’arma aerea germanica, scatenando in molti aeroporti l’irata reazione degli italiani, che distrussero quasi ovunque i propri velivoli. Altro dettaglio che emerge sono le perdite, altissime, a fronte degli scarsi risultati nell’impiego bellico: l’autore sottolinea infatti correttamente come le vittorie aeree accertate siano meno di metà di quelle effettivamente dichiarate da molti storici nostalgici. Peraltro, aggiungiamo noi, il rapporto perdite inflitte/perdite subite, nell’ultimo anno di guerra fu terribile anche per la Luftwaffe, con dati non diversi da quelli della modesta pattuglia degli aviatori di Mussolini, a dimostrazione che, nei cieli ormai sotto pieno dominio anglo-americano, la vita era complicata anche per gli aviatori del III Reich.
Nel volume si dà conto infine anche delle vicende del battaglione “Forlì”, il quale fu formato da aviatori “appiedati” che vollero creare una sorta di X Mas dell’aeronautica, e furono l’unico reparto della RSI ad essere schierato per oltre sei mesi esclusivamente al fronte. Purtroppo non c’è traccia invece dell’impiego delle formazioni dell’antiaerea (Flak Italien) che ebbero un ruolo grave e poco conosciuto nella guerriglia antipartigiana.

Il bignami di Dongo
Pierre Milza, Gli ultimi giorni di Mussolini, Milano, Longanesi, 2011

Nel leggere questo volume di Pierre Milza, la nostra principale riflessione esulava dalle ricostruzioni dello studioso francese; più prosaicamente, ci chiedevamo cosa sarebbe accaduto se uno dei tanti carneadi animati da buone intenzioni avesse presentato un volume come “Gli ultimi giorni di Mussolini” a qualsiasi casa editrice a diffusione nazionale. La cosa più probabile è che lo sventurato avrebbe assistito al passaggio della propria fatica dalla buca delle lettere direttamente nel cestino. Si dirà che questa è una analisi drastica e forse ingiusta, ma anche ad una seconda o a una terza lettura, chi scrive trova piuttosto inspiegabile la pubblicazione di questo libro sulla fine del duce, denso di cose straconosciute e stralette.
Pierre Milza ha senz’altro scritto di meglio in passato, e anche per questo troviamo inspiegabilmente scadente il livello di questa ricerca; il lavoro è sciatto nella scrittura, povero nella bibliografia, indisponente negli inserti cartografici (le località del lago di Como sono scritte in un italiano traballante, dettaglio colpevolmente sfuggito al momento della correzione delle bozze), ovvio nelle conclusioni e sconcertante in alcune rivelazioni: senza citare le proprie fonti, Milza sostiene che il partigiano “Bill”, Urbano Lazzaro, che sapevamo vicentino, era di origini slave e si chiamava Karol Urbaniec (!), mentre la 52° brigata Garibaldi aveva in organico decine di polacchi, tanto da farne una vera e propria “brigata internazionale” (sic); come questi compatrioti del futuro Papa Giovanni Paolo II fossero giunti nei pressi di Menaggio è mistero doloroso, perché Milza non aggiunge altri dettagli in merito, così come permane la nostra curiosità su quale lingua si usasse in questa stravagante formazione partigiana: forse l’esperanto.
Sulle vicende relative alla cattura del duce e del governo della RSI, nulla si dice nuovo e molto si scrive di vecchio, visto che il canovaccio sono le polverose memorie di Pier Bellini delle Stelle, superate da numerosi studi scientifici editi nell’ultimo decennio. Appena accettabili, infine, appaiono alcune riflessioni, come la possibile veridicità della cosiddetta “pista inglese” per comprendere l’uccisione di Mussolini: si può convenire che la presenza di Winston Churchill nell’estate 1945 proprio nei luoghi in cui si consumarono le ultime ore dell’ex duce risulta effettivamente sospetta, ma l’autore non porta alcun documento che non fosse stato già pubblicato e conosciuto da anni nel nostro paese.
Il valore (scarso) del volume è quindi quello di essere una specie di “Bignami”, un libricino utile per chi voglia affrontare da neofita un argomento che annovera autentici specialisti, i quali non a caso sono definiti “dongologi” per la cura maniacale delle proprie ricostruzioni. Milza però non si avvicina minimamente a questa pattuglia, restando a parer nostro piuttosto distante, come qualità del lavoro, anche dal livello medio che può essere considerato accettabile per una casa editrice a distribuzione nazionale.

La missione più segreta
Francesco Gnecchi Ruscone, Missione Nemo (a cura di Marino Viganò), Milano, Mursia, 2011

Spesso la locuzione “se l’Italia fosse un paese normale …” è la premessa per sciorinare terribili ovvietà, come “… tutti pagherebbero le tasse”, “… i treni arriverebbero in orario”, “… non ci sarebbe la mafia” e via banalizzando. A chi scrive però non viene in mente niente di meglio per introdurre questo volume, la cui curatela è opera di Marino Viganò, uno storico che “in un paese normale”, appunto, sarebbe cattedratico da lustri, forse semplicemente in base alla propria sterminata bibliografia; invece, come in centinaia di altri casi, il lagnoso mondo accademico nostrano, attento soprattutto alla protezione corporativa dei propri interessi, si è privato di uno dei migliori ricercatori di cose militari della nazione. Motivo in più per non essere particolarmente commossi o indignati per i previsti tagli economici al settore.
Ciò premesso, lo studio si articola in una introduzione, redatta da Viganò, dal memoriale di Gnecchi Ruscone, inedito in Italia e pubblicato in proprio in Gran Bretagna nel 1999, e da una ricca appendice di documenti, che chiariscono in modo esemplare le vicende narrate. La storia è quella, davvero inedita e scarsamente conosciuta, della missione “Nemo Sand II” coordinata dal capitano di corvetta della regia marina Emilio Elia (“Nemo”), e che ebbe fra i suoi collaboratori l’autore, allora nemmeno ventenne. I compiti di questo gruppo di agenti segreti provenienti dal sud Italia (ma con numerosi collaboratori reclutati nella zona di occupazione tedesca) era quello di raccogliere informazioni sulla dislocazione dei comandi e delle formazioni della Wehrmacht e di infiltrare propri uomini nelle strutture di governo di Salò.
Quest’ultima parte della missione è quella sino ad oggi meno conosciuta e più sorprendente. Gli uomini di Elia, infatti, nell’ultimo inverno di guerra trovano diversi gerarchi bendisposti a collaborare con la Resistenza al fine, piuttosto ovvio, di crearsi benemerenze postbelliche. Due in particolare risulteranno di fondamentale importanza ai fini della operazione “Nemo”: il prefetto Temistocle Testa, che raccoglie e trasmette informazioni direttamente dal ministero degli Interni della RSI, e Vincenzo Cersosimo, giudice presso il tribunale speciale repubblichino, il quale a sua volta modificherà decine di sentenze riguardanti partigiani in mano fascista, sottraendo tra l’altro l’intero fascicolo relativo a Ferruccio Parri, poi liberato in virtù del complesso di trattative per la resa tedesca in Italia.
L’appendice documentaria riguarda soprattutto questi doppiogiochisti di Salò, e risulta di particolare interesse per sfrondare ulteriormente il mito dei “duri e puri” di Mussolini: Cersosimo, il “Robespierre fascista” che mandò a morire Galeazzo Ciano, nemmeno un anno dopo la sentenza di Verona nascondeva documenti e alterava sentenze, peraltro con la compiacenza dei propri colleghi magistrati in camicia nera, nonostante i cruenti giuramenti di fedeltà sino alla tomba. Quella altrui, evidentemente.

Carnefici e vittime nella Genova fascista
Andrea Casazza, La beffa dei vinti, Genova, Il melangolo, 2011

Difficile immaginare un volume così controproducente come quello di Andrea Casazza. L’autore si inserisce nella scia di studi all’insegna dell’antifascismo militante, scatenati dalla pubblicazione (e dal notevole successo editoriale) delle opere di Giampaolo Pansa; alcuni di questi scritti, densi di roboante retorica partigiana – che sempre retorica rimane, anche se democratica, plurale e progressista – sono rimasti confinati nell’ambito della storia locale. Altri, come “Il sangue dei vincitori” di Massimo Storchi, da noi recensito qualche tempo addietro, sono effettivamente opere articolate e complesse, sulle quali occorre soffermarsi indipendentemente dalle proprie convinzioni personali.
La tesi dell’autore non è particolarmente innovativa, ed è quella che i processi ai fascisti si siano conclusi nella stragrande maggioranza con un nulla di fatto; per suffragare questa interpretazione, Casazza utilizza come fonti soprattutto le sentenze della corte d’assise straordinaria del capoluogo ligure; se l’obiettivo era quello di suscitare l’indignazione dei lettori, si resta però perplessi di fronte ai “case study” presentati; effettivamente appaiono vergognose le vicende processuali di Arturo Bigoni, Livio Faloppa e Carlo Emanuele Basile (rispettivamente questore, federale e prefetto di Genova), le quali, peraltro, meritavano maggiore spazio Le altre storie narrate invece sono vicende minori o trascurabili: che dire di capitoli intitolati “un commesso in camicia nera”, “il primario collaborazionista” o addirittura “l’amore ai tempi di Salò”? Insomma, un po’ difficile indignare il lettore raccontando di bulli di borgata, truffatori scalcagnati, medici fascisti e commesse innamorate del duce.
Il paradosso viene raggiunto dalla vicenda dell’ausiliaria Giuseppina F., una adolescente con deficit psichici, che era stata rapita dai partigiani nell’estate 1944, catturata dagli alpini della divisione Monterosa e successivamente consegnata al distaccamento di Chiavari della brigata nera “Parodi”. Le testimonianze sul suo caso sono confuse e contraddittorie: probabilmente la ragazza è stata stuprata da partigiani e fascisti, e quando arriva nella caserma del terribile Vito Spiotta ha solo voglia di sfogarsi urlando contro tutti (unico dettaglio che compare in tutte le testimonianze). Casazza, senza accorgersi minimamente dell’empatia suscitata dalla disgraziata giovane, chiude la narrazione sostenendo che l’ingiusta assoluzione giunse a Giuseppina F. mentre quest’ultima era in manicomio da due anni (!): quale “beffa dei vinti” rappresenti questa tragedia umana, è difficile da comprendere, almeno a parere nostro.
In conclusione, anche tralasciando le carenze in termini di bibliografia, le trascuratezze nella scrittura (l’autore utilizza spesso brigate nere e GNR come sinonimi) e lo stile ridondante, rimangono notevoli perplessità sull’utilità di lavori come questo, destinati evidentemente a un pubblico di militanti incapaci di farsi domande sulla stagione della guerra civile.