La morte dall’aria
Nicola Malizia, Italy primari
target, Roma, IBN, 2013
La guerra aerea in Italia è
argomento che solo in tempi recenti è uscito dall’ambito delle ricerche
specialistiche, per passare a una diffusione divulgativa; Malizia, che non è
storico di professione e che spesso pecca nell’offrire una dimensione
equilibrata a un fenomeno che fu europeo ed ebbe come precursori i teorici
della guerra totale come Giulio Douhet, ha comunque la capacità di lasciarci
una descrizione puntigliosa di come si svolse il conflitto negli spazi aerei
del nostro paese durante gli ultimi due anni di guerra, ossia dal gennaio 1943
al maggio 1945. Si ha così la possibilità di confrontare le descrizioni di
identici episodi, letti attraverso i documenti alleati, soprattutto
statunitensi, e quelli italiani, prima della regia aeronautica e poi
dell’aviazione di Salò. Ciò che emerge è la straordinaria pesantezza e
intensità dell’offesa aerea anglo-americana, elemento che sovente è risultato
marginalizzato rispetto alla “guerra in casa”, il fronte che risalì la penisola
dalla Calabria all’Alto Adige, portando ovunque lutti e distruzione. I civili
caduti furono migliaia (ricordiamo su tutte le carneficine di Foggia e
Grosseto, che purtroppo lasciano tracce solo nella memorialistica locale), in
un tragico rosario che non conobbe armistizi o tregue, proseguendo senza
interruzioni sino alla fine del conflitto. Per quanto concerne gli scontri
avvenuti nel cielo, l’analisi è impietosa e non lascia spazio a equivoci; anche
facendo la tara ai rapporti talvolta approssimativi della RAF o dell’USAAF, la
superiorità alleata è schiacciante non solo nei mezzi e nei materiali, ma anche
nell’addestramento dei piloti e degli equipaggi. Il confronto appare
mortificante specie osservando il numero rilevante di perdite dovute a
incidenti di volo o a errori del personale regio e repubblichino (composto
nella quasi totalità da elementi già appartenenti all’aeronautica con le
stellette: anche su questa adesione massiccia a Salò serviranno prima o poi
studi accurati e scientifici); non si contano poi vere e proprie carneficine
nei cieli della penisola, a fronte di risultati amplificati in modo
imbarazzante dalla propaganda fascista, che nella realtà appaiono magri ai
limiti dell’insignificanza; peraltro le scarse attività dell’aviazione
cobelligerante, la quale prestò uomini e mezzi ai limiti dell’usura, o scartati
“in toto” dagli alleati, restano a testimonianza di scarsa fiducia nelle
capacità di coloro che rimasero al servizio del re di Brindisi. Pur con i
limiti di alcune parentesi di chiara polemica dal sapore nostalgico, i dati
offerti dal Malizia sono strumento utile e interessante per chiunque voglia
avvalersi di una cronologia di cosa fu la strage dall’aria, complemento
fondamentale per ben comprendere cosa fu la guerra nel nostro paese.
Il monopolio della memoria?
Le stragi del 1943-45, (a
cura dell’ANPI), Roma, Carocci, 2013
Nel momento in cui è ormai
prossima la redazione de “l’atlante delle stragi”, opera che a settanta anni di
distanza dalla guerra ai civili condotta dai nazifascisti dovrebbe offrire un
quadro finalmente completo e scientifico sulla stagione del sangue innocente in
Italia, il volume raccoglie quelli che sono i “desiderata” dell’ANPI, associazione
che ha fortemente incoraggiato la ricerca storica su questi temi. I testi
raccolti sono quelli dei diretti interessati al futuro lavoro: gli studiosi, i
magistrati che hanno condotto – con il ritardo dovuto al tardivo e incredibile
ritrovamento degli archivi di palazzo Cesi a Roma – le indagini su assassini
ormai nella loro impunita vecchiaia, e i dirigenti della maggiore
organizzazione di ex partigiani del nostro paese. L’intera operazione è
meritoria, non fosse altro perché la memoria nazionale, esaurita la generazione
di coloro che furono protagonisti e comprimari di quei giorni, appare sempre
più sbiadita e lontana; i motivi a parere nostro non sono dolosi, come spesso
sottolinea in modo fortemente ideologizzato l’ANPI, ma hanno altre ragioni,
lontane e recenti: il sentimento diffuso dell’oblio, al fine di dimenticare il
male inflitto e subito, la pluridecennale scarsa propensione al ricordo
collettivo, e, al giorno d’oggi, i nuovi fattori di discontinuità nell’entità
stessa del paese, a partire dal fenomeno dell’immigrazione, la quale ha
condotto nella penisola popolazioni lontane e vicine, con un vissuto del XX
secolo totalmente diverso dal nostro, per non dire animato da contrasti
stridenti e irrisolti; basti pensare al diffuso e generalizzato sentimento di
repulsione degli immigrati slavi verso il marxismo in generale e il socialismo di
stato in particolare. Detto questo a nostro avviso si evidenziano limiti e tare
che se non corretti, potrebbero pregiudicare i propositi dell’opera; questi
cluster sono già evidenziati nelle “anticipazioni” del volume in oggetto: la
memoria “monca”, amputata di tutte le contraddizioni che hanno impedito la
nascita non solo di una storia condivisa, ma anche e solo semplicemente di una
storia accettata da tutti gli italiani; il rifiuto del concetto di guerra
civile, con l’ostentata omissione di giudizi discordanti; l’inelegante
liquidazione della posizione degli studiosi tedeschi, definita superficiale o
poco attenta alle nostre ragioni: in realtà, a parer nostro, è bene non pigiare
troppo su questo tasto, visto il nostro atteggiamento da occupanti violenti e
straccioni in Slovenia o in Dalmazia, solo per ricordare due delle nazioni più
vicine alla nostra; che riparazioni pubbliche abbiamo fatto in queste nazioni?
In ultimo, è davvero sconcertante il fatto che giudici unici e ultimi del bene
e nel male siano i vertici dell’ANPI, i
quali – davvero con scarso senso delle proporzioni – lasciano in lettura una
“relazione di maggioranza” (senza nomi dei firmatari) e “di minoranza”
(altrettanto anonima) quasi come se l’associazione fosse una sorta di
istituzione rappresentativa di tutte le storie e memorie dell’antifascismo. In
realtà così non è, e, aggiungiamo, questa pervicace tendenza all’egemonia non
rende giustizia degli sforzi volti a redigere una ricerca di carattere
definitivo sull’argomento. Forse, un po’ più di umiltà e meno certezze
granitiche avrebbe giovato sia ai redattori che ai promotori del lavoro.
Guerra, guerre, macro, micro …
Alessandro Roveri, La guerra
di Hitler da Monaco 1938 a Ferrara 1943, Ferrara, Este edition, 2013
Difficile riuscire a immaginare
un titolo tanto infelice per uno studio meritevole invece di attenzioni non
provinciali. Roveri è ricercatore che ha lasciato materiali e riflessioni non
banali, e anche se nella sua produzione ultima ha illuminato protagonisti
discutibili e sbilenchi (rammentiamo una biografia di Antonio di Pietro
descritto come uomo provvidenziale per l’Italia del XXI secolo) non va
dimenticato quanto di buono ha lasciato in eredità alla storiografia scientifica
specie per quanto riguarda la nascita e lo sviluppo del fascismo emiliano e
romagnolo. Quest’ultimo lavoro, che copre i sette anni dal 1938 al 1943,
interrompendosi senza spiegazioni apparenti alla fine di quest’ultimo anno,
offre una interessante carrellata sui principali attori della crisi europea e
del conflitto mondiale, e delle principali scuole storiografiche
sull’argomento. Roveri si sofferma lungamente sull’ultima stagione defeliciana,
inquadrandone i pregi e i difetti nell’indagine dell’Italia fascista
dall’apogeo del regime sino alla sua dissoluzione, così come riprende in modo
analitico i nodi emersi negli studi accademici sui totalitarismi svolti nel
corso del ‘900 dai ricercatori inglesi e tedeschi. Si può discutere sulla
postuma rivalutazione del ruolo di Stalin e dell’URSS nel corso della guerra,
ma le tesi dello storico romagnolo sono comunque ben argomentate e documentate
– anche se troppo indulgenti nei confronti di un regime oppressivo e
sanguinario – pur non portando particolari novità nel dibattito scientifico. Il
testo prosegue poi in modo piuttosto frammentario, passando dall’ambito “macro”
a quello “micro” delle vicende più strettamente ferraresi, affrontate alla
luce delle scoperte più recenti sulla nascita e lo sviluppo del fascismo
salotino nella provincia estense; probabilmente ha ragione Roveri quando, senza
entrare nel dettaglio dell’annosa diatriba, osserva i risultati primi e
definitivi dell’uccisione del federale di Ferrara, Igino Ghisellini, ossia
l’inarrestabile ed esponenziale sviluppo della generalizzata violenza fascista
e dell’altrettanto dura reazione partigiana. Indubbiamente quella morte
(assieme a quella del leader del fascismo milanese Aldo Resega, di cui non si
fa menzione nello studio) fu uno spartiacque tra le indecisioni post
armistiziali e la stagione della guerra civile conclamata in ogni luogo e ad
ogni livello. Non si può infine non concordare con l’autore per una sua
riflessione critica, ossia la sciatteria provinciale del ricordo pubblico di
quei fatti: una nota e assai imprecisa lapide sul muretto del fossato che
circonda il Castello estense, una lapide poco lontano, e un cippo sulle mura
cittadine, sul quale le righe consunte dal tempo, riportano nomi e cognomi
degli uccisi, con un vago accenno alle cause della prematura dipartita. Spiace
la successiva, brusca conclusione dello scritto, che coincide anche con la fine
del volume, forse meritevole, come dicevamo di un editing migliore, o di una
stesura diversa, magari come raccolta di saggi.