Il fascio, la svastica, il
sangue
Massimo Storchi, Anche contro donne e bambini, Reggio
Emilia, Imprimatur, 2016
La provincia di Reggio Emilia
conobbe nel corso dell’occupazione tedesca una sequenza terribile di episodi
sanguinosi causati da nazisti e fascisti, con modalità, ragioni e strategie
diverse, e il comune denominatore di essere diretti contro gli indifesi:
vecchi, donne, bambini, sacerdoti e, in genere, cittadini disarmati. Nell’analisi
puntuale e documentata di Storchi, si resta stupiti dalla ferocia senza freno
dei nazifascisti sulle cui motivazioni l’autore si sofferma cercando di
cogliere in ciascuno degli episodi narrati un nesso causa-effetto: impresa che
si rivela non facile, vista l’eterogeneità delle truppe coinvolte negli episodi
di sangue, e la differente prospettiva con cui i leader politici e militari
della RSI e le unità della Wehrmacht conducevano la guerra contro il movimento
di liberazione: i fascisti fin da subito misero in atto un modello punitivo
rivolto ormai non più e non solo verso gli oppositori veri o presunti, ma verso
l’intera popolazione, considerata in modo generalizzato nemica della repubblica
di Mussolini. Dal sanguinario prefetto Enzo Savorgnan, responsabile delle
fucilazioni avvenute nell’inverno 1943-44 fino allo spietato comandante della
III brigata nera mobile Franz Pagliani, tragico protagonista a Reggiolo ormai
alla vigila della fine della guerra, la sparuta compagine delle camicie nere cercò
di acquisire invano credibilità e rispetto seminando terrore a piene mani, in
modo giudicato estremo e irragionevole dagli stessi vertici del governo
fascista. Diverso il discorso per i tedeschi, i quali replicarono in territorio
reggiano lo stesso copione visto in altre aree del centro e nord Italia: nella
primavera-estate 1944 reparti scelti per la bandenkampf
condussero una serie di rastrellamenti senza riguardo o divisione fra
partigiani armati, disarmati o semplici civili. Nell’autunno-inverno 1944 il
lavoro “sporco” fu condotto dall’intelligence nazista, presso la scuola di
lotta alle bande di Ciano d’Enza: una violenza “chirurgica” che lasciò però
nuovamente posto alle esecuzioni esemplari lungo le strade reggiane ancora nel
febbraio e marzo 1945. Solo qualcuno dei colpevoli fu processato a guerra
finita, e nessuno di parte nazista: i primi nomi tedeschi verranno alla luce
solo dopo l’apertura degli armadi a Palazzo Cesi, ossia fuori tempo massimo per
colpire gli assassini e i loro complici. Il volume lascia poco spazio alla
stagione delle violenze postbelliche, anche se non mancano le narrazioni di
episodi sanguinosi avvenuti in vari luoghi della provincia nel corso del 1945;
è questo l’unico “peccato veniale” di uno studio altresì pregevole ed
equilibrato.
Donne violente
Cecilia Nubola, Fasciste di Salò, Bari, Laterza, 2015
E’ possibile ridurre la vicenda
del volontarismo femminile nella RSI narrando le storie giudiziarie di una
ventina di autentiche criminali, alcune delle quali con tratti di psicopatia?
Secondo l’autrice evidentemente sì, ed è vano cercare nell’indagine un legame
fra l’adesione di molte giovani e giovanissime all’ultimo fascismo e il grand
guignol di torturatrici, spie e assassine ritratte tratteggiate nel volume. Un
argomento così complesso e articolato avrebbe dovuto e potuto meritare
attenzioni maggiori, o quantomeno una analisi più cauta, specie alla luce della
bibliografia edita nell’ultimo ventennio; purtroppo Cecilia Nubola sceglie
invece la strada opposta, quella della “damnatio memoriae” e ci propone una
carrellata di aguzzine con almeno due scopi evidenti: la condanna senza appello
per le donne fasciste e per il ruolo della donna nella repubblica di Mussolini
(relegata a meri compiti assistenziali) e l’accusa di eccessiva indulgenza
della giustizia postbellica nei confronti delle recluse per reati politici.
Scorrendo senza pretesa di completezza i casi esposti dalla ricercatrice, in
realtà ci si trova di fronte, più che al paradigma della militanza femminile in
camicia nera, ad una sfilata di devianze patologiche: figlie di torturatori a
loro volta rastrellatrici e seviziatrici, amanti di fascisti e delatrici per
motivi di rivalsa sociale o politica, per finire con alcune allogene di lingua
tedesca che incitavano a Merano alla strage di italiani ormai a guerra finita,
come vendetta per la sconfitta imminente e odio verso il nostro paese. In
realtà chiunque si sia avvicinato all’argomento, o alle testimonianze di chi ha
partecipato a quella esperienza estrema in età giovanile (talvolta
adolescenziale) sa che il tema della violenza dovrebbe essere quantomeno declinato
fra violenza inferta e subìta, mentre nel lavoro della Nubola non c’è traccia
di violenza partigiana, ne’ durante ne’ (soprattutto) dopo il termine della
guerra. Il ricordo delle sevizie, spesso a sfondo sessuale, è invece una
costante delle testimonianze delle ausiliarie di Salò, diverse delle quali
furono in grado di raccontare quegli eventi solo a distanza di decenni. Chi
scrive non intende fare rivalsa storica di alcun tipo, o disegnare santini a
fini nostalgici o reducistici; però far credere che l’adesione all’ultimo
scampolo dell’avventura mussoliniana sia stato un fenomeno irrisorio che
coinvolse ristretto gruppo di erinni, con l’intero popolo italiano sulle
barricate per la democrazia e la libertà ci pare davvero superficiale e sbagliato.
Un tradizionalista a Salò
Gianfranco de Turris, Julius evola un filosofo in guerra,
Milano, Mursia, 2016-07-19
Il 20 luglio 1944, Julius Evola
era presente a Rastenburg all’ultimo incontro fra Hitler e Mussolini, avvenuto
immediatamente dopo l’attentato di Klaus Stauffenberg? Partiamo da questo
quesito, uno dei tanti presenti nel volume di Gianfranco de Turris dedicato al
filosofo tradizionalista e al suo tormentato percorso durante gli ultimi mesi
della seconda guerra mondiale. Il volto misterioso che si intravede nella foto
di copertina del volume non è però quello di Evola, come immaginato
dall’autore, bensì dell’interprete ufficiale nei meeting fra i dittatori, ossia
Eugen Dollmann, come si può osservare nel Wochenschau n. 735/1944. La foto,
infatti è un fotogramma del cinegiornale e la scena prosegue con Hitler che va
incontro ad alcuni operai che lo salutano calorosamente. Se questo è un enigma
risolto (anche se non nel senso ipotizzato da de Turris) ci sono molti altri
lati oscuri della vicenda del filosofo che vengono finalmente illuminati nella ricerca:
la presenza, questa sì accertata, sempre a Rastenburg nel settembre 1943,
assieme ad altri gerarchi fascisti fuggiti in Germania dopo il 25 luglio,
all’atto della liberazione di Mussolini, il successivo ritorno a Roma dove
operò in collaborazione con i servizi nazisti alla creazione di una rete “stay
behind” a favore dell’Asse, e successivamente la presenza a Vienna nell’inverno
1944-45. Qui Evola restò ferito a causa di un bombardamento e fu
successivamente ricoverato in clinica nella località termale di Bad Ischl dal
1945 al 1947, al suo rientro in Italia, fatto salvo un periodo trascorso a
Budapest, durante 1946, nel tentativo di recuperare la funzionalità degli arti
inferiori. Ora, quest’ultimo itinerario, che appare accertato, apre però altri
interrogativi, iniziando con uno magari banale, ma non secondario: chi pagò la
degenza? chi fornì i documenti falsi in possesso del filosofo? Come fece Evola,
in piena occupazione dell’armata rossa, a superare la frontiera fra Austria e
Ungheria (andata e ritorno) senza destare sospetti e a rimanere nella capitale
magiara per diversi mesi? L’amicizia con la famiglia del filosofo austriaco
Othmar Spann è cosa certa, ma ci pare riduttiva per spiegare una così lunga e
complessivamente serena permanenza in zone dove i servizi alleati e sovietici
erano in costante ricerca di collaborazionisti di ogni ordine e tipo.
Confidiamo che l’autore possa tornare sull’argomento, perché come in un vaso di
Pandora, la risposta ad alcuni enigmi ha finito per crearne altri.