Mario Avagliano, Marco Palmieri, l’Italia di Salò, Il Mulino, Bologna,
2017
Gli autori proseguono la loro
opera di scavo nel “come eravamo” della nostra nazione, e come nei volumi
precedentemente editi, emergono dettagli importanti trascurati in altri studi
sul passaggio traumatico dal regime fascista alla democrazia in Italia. Avevamo
lasciato in Vincere e vinceremo, un
paese stremato e maturo per il collasso istituzionale soprattutto a causa del
crollo del fronte interno, ma con ancora fiammate di sincero appoggio al
fascismo e alla guerra mussoliniana. La scomparsa del duce dalla scena politica
provoca l’ira sorda dei fascisti, i quali, a differenza di come è stato detto e
scritto per decenni, non si nascondono e non si convertono, anzi, in molti casi
già iniziano a pensare al “dopo” che ritengono inevitabile, ossia l’arrivo dei
tedeschi per il ristabilimento dell’ordine interno e delle alleanze belliche.
Se quindi il 25 luglio provoca sgomento e desiderio di vendetta fra le camicie
nere e fra i tanti simpatizzanti di Mussolini, l’armistizio dell’8 settembre è
il momento in cui, drammaticamente emergono le fratture nel tessuto sociale
della nazione, seguendo fratture già “in nuce”: dittatura contro democrazia,
onore contro libertà, volontarismo contro l’attendismo; il ritorno di
Mussolini, la fondazione di uno stato fascista sotto l’aquila nazista e il
proseguimento della guerra saranno poi le condizioni perché questo magma
ribollente inizi a percorrere l’inevitabile sentiero della guerra civile. Da
nessuno voluta (almeno a parole) ma da tutti combattuta, la lotta fratricida
sarà lo stigma dei seicento giorni di Salò, con gradazioni diverse di
partecipazione: dai soldati in grigioverde reclutati con i bandi emessi da
Rodolfo Graziani, che per evitarla diserteranno in modo massiccio, spesso verso
le formazioni partigiane (ma anche semplicemente per tornare a casa), alle
brigate nere che hanno nel loro dna la repressione dell’antifascismo e della
resistenza. Nel vortice finiranno tutti: uomini e donne, giovanissimi e
squadristi del ’22, torturatori e galantuomini, profittatori e persone perbene:
come spesso accade, nella resa dei conti conclusiva di una guerra civile, il
conto sarà pagato in solido non dai più colpevoli ma quasi sempre dai meno
furbi, mentre molti fra i capi riuscirono a passare indenni dalla bufera
successiva al 25 aprile 1945. Avagliano e Palmieri indagano con maestria questi
“cluster”, e fanno luce sulle motivazioni di alcuni protagonisti, ma
soprattutto dei tanti comprimari, tratteggiando una comunità disperata e
assieme orgogliosa, spietata e talvolta umanissima, che finì per trovarsi dalla
parte sbagliata della storia.
Alessandro Carlini, Partigiano in camicia nera, Chiarelettere,
Milano, 2016
Una vicenda familiare, di quelle
che spesso vengono lasciate perdere e di cui si parla poco volentieri, diventa
per Alessandro Carlini la trama per un appassionato romanzo storico, che è
assieme la biografia di un percorso umano che non rientra negli schematismi,
talvolta manichei, della resistenza italiana. Uber Pulga, il protagonista del
racconto, attraversa in tutti i ruoli possibili la guerra 1940-45: volontario
nei Balcani, paracadutista della divisione Nembo sia con le stellette che con
il gladio sulle mostrine, poi specialista nella guerriglia antipartigiana,
spia, eroe di guerra decorato da Mussolini, e infine disertore e partigiano,
fucilato dai fascisti. In ognuno di questi segmenti, il giovane Pulga, fascista
per convinzione personale ed educazione familiare, si spende senza riserve e
senza risparmi, spesso a rischio della propria vita, con la convinzione di
svolgere la propria parte all’interno della guerra “del sangue contro l’oro”
dichiarata dal balcone di piazza Venezia. Poi nei mesi della guerra civile,
qualcosa si inceppa negli automatismi del protagonista, anche a causa del
periodo trascorso come informatore dei fascisti all’interno di una formazione
partigiana nella pianura reggiana. Inizia così un percorso di faticosa
revisione del proprio sistema valoriale, che lo porta, dopo la promozione a
ufficiale per merito di guerra conferitagli personalmente dal grigio duce di
Salò, a fare il salto definitivo della barricata, comunque a suo modo, ossia in
camicia nera. Ed è con questa contraddizione che andrà incontro al suo destino,
venendo catturato dai suoi ex camerati, anche essi in camicia nera, dopo una
spericolata azione volta a rifornire di armi i patrioti con cui era entrato in
contatto. Torturato ripetutamente, Pulga sarà processato in modo sommario, e
passato per le armi presso il cimitero di Gaiano, sulle colline parmensi. E’ da
qui, sull’ultimo tratto di strada fatto a piedi dal giovane “partigiano in
camicia nera” che l’autore riflette sulle contraddizioni di Uber, coraggioso e
assieme ingenuo, spavaldo e incosciente, fascista e antifascista. Forse la
chiave per comprendere il percorso umano del giovane mantovano, dovrebbe essere proprio quella che ci lascia
l’autore di questo bel lavoro: l’accettazione della complessità e delle
contraddizioni, dopo decenni in cui i giudizi morali hanno imperversato anche
sulle vicende storiche. Siamo grati ad Alessandro Carlini per averci lasciato
questa memoria dolorosa, che dovrebbe farci riflettere su cosa siamo stati, per
capire ciò che siamo oggi.
Gianluca Fulvetti, Paolo Pezzino
(a cura di), Zone di guerra, geografie di
Sangue, Il Mulino, Bologna, 2016
La gran mole di dati oggi
disponibile grazie all’atlante delle stragi nazifasciste in Italia, disponibile
online sul sito http://www.straginazifasciste.it/
rappresenta un passo avanti decisivo nello studio dell’occupazione tedesca nel
nostro paese; in questo volume collettaneo, un gruppo di studiosi, diversi dei
quali coinvolti nella lunga e faticosa compilazione dell’atlante, cerca di
iniziare a trarre qualche conclusione su cosa si può dire di nuovo sui fatti di
sangue avvenuti durante il biennio 1943-45. Fra le varie direttrici di studio,
alcune ci paiono degne di nota; la prima riguarda la “contabilità” delle
vittime: la larga maggioranza degli episodi di sangue sia addebitabile ai
nazisti, mentre la violenza fascista appare inferiore nella portata omicida,
anche se più parcellizzata, a dimostrazione di una diffusione capillare della
guerra civile nel centro e nel nord Italia. La seconda considerazione è di tipo
geografico: emerge infatti con prepotenza una memoria “figlia di un Dio minore”
degli eccidi avvenuti nel Mezzogiorno, che invece furono numerosi e quasi
sempre impuniti; la Campania, l’Abruzzo, la Puglia conobbero durante la
ritirata della Wehrmacht una stagione particolarmente cruenta, che purtroppo ha
scarsa o nessuna presenza nella memoria collettiva del paese. Infine la
questione cronologica, dalla quale emerge con chiarezza come l’azione stragista
degli occupanti raggiunse il culmine durante le ritirate aggressive
dell’esercito tedesco, nell’autunno 1943, nell’estate del 1944 e nella
primavera 1945. Non va dimenticato, infatti, specie per quanto riguarda
l’ultimo anno di guerra, che l’intenzione dei nazisti era quella di arroccarsi sulla
linea blu, che percorreva le prealpi lombarde, venete e trentine, e che i
reparti in ritirata avevano ordine di farsi largo a qualsiasi costo per poter
impostare una nuova linea di difesa. Infine nella distribuzione geografica
degli eventi, è utile constatare come alcune zone siano rimaste sostanzialmente
non toccate dalla tragedia della guerra, come l’Alto adige, parte del Trentino
e del Bellunese: è superfluo sottolineare che questa area del paese era stata
sottoposta al diretto controllo dei nazisti, e che, specie il Sud Tirolo, non
aveva conosciuto alcun moto di resistenza agli occupanti, in molti casi
considerati veri e propri liberatori. Il lavoro edito a cura di Fulvetti e
Pezzino, insomma, rappresenta un notevole passo avanti non solo per quanto
riguarda le conoscenze specifiche sul tema della “guerra ai civili” in Italia,
ma anche nelle questioni di rilevanza statistica, forse meno appariscenti nel
discorso pubblico sulla resistenza nel nostro paese, ma a parer nostro non meno
importanti.