Negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi volumi inerenti la storia dell’Emilia Romagna nel corso del ‘900, e soprattutto sul cruciale passaggio del ventennio fascista, dall’avvento della dittatura, passando attraverso le fosche giornate di Salò per finire con le sanguinose epurazioni successive al secondo dopoguerra.
Soffermiamo di seguito la nostra analisi su tre studi che hanno diversi motivi di interesse.
Bastonatori per caso?
(ILARIA PAVAN, Il podestà ebreo, Bari, Laterza, 2006)
Lo studio della Pavan ha l’indubbio pregio di mettere a fuoco la vita del podestà di Ferrara Renzo Ravenna, e assieme il difetto di ignorare il contesto generale in cui si svolse la vicenda umana al centro della biografia. Ravenna fu ininterrottamente podestà a Ferrara per quasi quindici anni, fino a quando, poco prima dell’emanazione delle leggi razziali, dopo pressioni governative a lungo respinte dai circoli estensi più vicini all’avvocato (Italo Balbo in testa), fu costretto a dimettersi, ultimo amministratore di religione ebraica ancora in carica nel nostro paese.
La figura di Ravenna e delle sue amicizie appare correttamente delineata, specie per quanto concerne l’ambiente familiare, la descrizione della comunità ebraica ferrarese e i legami fra i principali gruppi economici della città estense. Ben descritte inoltre, grazie al notevole apporto di documentazione degli archivi familiari, la sua azione – invero innovativa e onesta – per la città, le persecuzioni successive al 1938, e, soprattutto, quelle patite durante l’occupazione tedesca.
Lacune, talvolta piuttosto sorprendenti, si trovano come detto nella narrazione della Ferrara culla dello squadrismo di Italo Balbo. Non pare reggere, alla prova delle ricerche più accurate e della documentazione reperibile presso l’archivio di stato di Ferrara (praticamente assente nel libro della Pavan), la descrizione di un Ravenna fascista per caso, quando ben si sa come la comunità ebraica fosse fortemente affascinata dal movimento mussoliniano; ancor meno plausibile è l’oleografia di Italo Balbo, incredibilmente raccontato come un bastonatore per caso: neanche cinque pagine per descrivere le imprese giovanili di “pizzo di ferro” (compresa la feroce uccisione di don Minzoni) a fronte delle decine dedicate a Balbo aviatore e poi “illuminato” governatore della Libia. Il fatto che la carica di podestà fosse di nomina governativa, infine, passa quasi come un dettaglio secondario; indipendentemente dalle qualità umane, nessuno infatti, aveva eletto Ravenna come amministratore della città (la quale, peraltro, appare fra quelle dove maggiore fu il consenso per la dittatura).
Ci avrebbe forse aiutato a comprendere meglio le vicende di Ferrara negli anni ‘30 la lettura degli atti del convegno Italo Balbo e il ventennio fascista svoltosi nel capoluogo estense nel dicembre del 2000, e citati dalla Pavan. Non abbiamo purtroppo avuto la fortuna della studiosa milanese e allo stato attuale non ci è dato sapere dove tali atti siano: certamente non in fase di pubblicazione presso la casa editrice “Il Mulino” come sostiene in nota l’autrice.
In conclusione si tratta di un volume complessivamente utile e interessante, che però, come altri hanno scritto, dice molto sul “podestà ebreo” e poco, o quasi nulla, sul capoluogo che governava.
Sindacalisti “cuori neri”
(ROBERTO PARISINI, Dal regime corporativo alla repubblica sociale, Ferrara, Corbo, 2006)
Roberto Parisini affronta per la prima volta il tema del corporativismo in una delle province dove maggiormente si sviluppò la struttura del sindacalismo fascista, ossia Ferrara e la sua provincia. Con una espansione a tappe forzate, condotta con energia sconosciuta in altre realtà italiane, il regime corporativo nella provincia estense conobbe nel corso del ventennio una capillare estensione dal capoluogo alla periferia, con unità locali dei sindacati in camicia nera nei luoghi più lontani, e all’epoca, più desolati e poveri del Ferrarese.
In realtà dove leghe rosse e bianche erano state spazzate via delle squadracce di Italo Balbo, Giulio Divisi e Olao Gaggioli, gli unici luoghi dove era possibile fare una – sia pur modesta – azione a favore delle diseredate classi lavoratrici (braccianti soprattutto), furono le sezioni dei sindacati corporativi, i quali, in diversi casi finirono per avvalersi di anche personale che proveniva da esperienze di colore politico affatto diverso. Bon grè mal grè, il lumpenproletariat del basso Ferrarese accettò questo cambiamento e dove prima bussava alla porta della lega, si recò con sempre maggior frequenza all’uscio del sindacato fascista.
Il quadro che emerge dalla efficace analisi di Parisini è straordinariamente complesso, e assai mutevole a seconda delle varie realtà locali: si constata, comunque, un certo consenso da parte dei lavoratori per le strutture corporative, almeno in un primo periodo; poi, con il trascorrere degli anni e con l’emergere delle contraddizioni interne al sindacato fascista (insanabile la divisione fra chi credeva davvero possibile una funzione di rappresentanza delle istanze dei lavoratori e chi aveva semplicemente assunto una nomina e il relativo stipendio), subentrò la sfiducia e il distacco. Resta però innegabile una presenza sul territorio ferrarese di una forma di organizzazione del consenso al regime che riuscì a trasferire, a differenza di altre, la sua continuità anche nella discreditata stagione di Salò.
Dove il partito fascista implode con il 25 luglio e fatica a risorgere dopo l’8 settembre, il sindacato (e, aggiungiamo noi, la milizia) sopravvive e diventa una delle strutture locali su cui il malfermo regime della repubblica di Mussolini può contare dal principio alla fine della sua triste avventura, nell’aprile del 1945.
E’ questo, forse, il contrasto stridente con il resto dell’Emilia Romagna, dove il consenso alle organizzazioni fasciste era già precario nel 1940-43 e nullo dopo tale data. Ferrara resta, innegabilmente, un’isola nera, un luogo dove il forsennato prefetto-federale (ossia Gauleiter, alla nazista) Enrico Vezzalini semina il terrore con i suoi scagnozzi guidati da Carlo Tortonesi, ed assieme registra un imprevedibile favore, diffuso non solo all’interno del partito fascista repubblicano, con le sue “tirate” contro i potentati dell’economia agraria.
In conclusione, uno studio prezioso, che rivela aspetti poco studiati almeno per quanto riguarda una realtà, quella di Ferrara, considerata marginale rispetto al resto dell’Emilia proprio per i suoi tratti distintivi, così poco omologabili con il resto della regione.
Preti che un po’ se la sono cercata …
(NAZARIO SAURO ONOFRI, Il triangolo rosso, Bologna, Edizioni Sapere 2000, 2007)
Chiariamo immediatamente un punto: questo accurato studio di Onofri (in realtà è una ristampa aggiornata: la prima edizione è del 1994) è uno dei pochi lavori in cui sono offerti numeri attendibili sulla stagione delle violenze postbelliche in Emilia Romagna; i circa 2.000 morti in tutta la regione dalla liberazione alla fine del 1946 (quasi tutti raggruppati nei mesi del furore del 1945) sono una cifra quasi certa, frutto di uno studio scrupoloso su documenti d’archivio e fonti edite (comprese quelle dei reduci della RSI), incrociati con pazienza certosina dall’ex giornalista e partigiano, senza cedimenti ideologici o inutili semplificazioni. Di questo occorre essere grati a Onofri, poiché offre dati certi, un appiglio sicuro in un oceano di propaganda di vario colore politico che nell’arco di 50 anni ha spesso voluto far passare per veri sia gli improponibili “rigonfiamenti” della pubblicistica nostalgica, sia gli altrettanto incredibili “assottigliamenti” di alcuni studiosi più amanti dell’ideologia che della verità.
Insomma, del merito e del metodo nulla si può dire. Non convincono invece alcune interpretazioni e conclusioni (drastiche) che qua e là nel libro si incontrano.
E’ certamente vero che l’esplosione della furia sui collaborazionisti alla fine della guerra fosse ampiamente prevedibile, e che sia stata una cifra caratteristica di tutta l’Europa occidentale - specie in Francia e Belgio - . Da questo a esaltare la violenza sommaria di quei giorni dicendo che “mai a memoria d’uomo i popoli d’Europa furono animati, come in quel momento da un comune anche se violento (sic) desiderio di giustizia” (p. 37) ce ne corre parecchio. La giustizia anomica (senza regole, come diceva Max Weber) ha il pregio di essere veloce e il difetto di non prendere sempre i colpevoli, e se li prende, di non punirli con proporzione. Se quella stagione di cui Onofri pare senta nostalgia fosse proseguita per molto tempo, probabilmente ricorderemmo il 25 aprile volentieri come il terrore di Maximilien Robespierre.
Inaccettabile è la spiccia descrizione di alcuni episodi indegni di un paese che aveva appena riacquistato la libertà, come l’assalto alle carceri di Carpi e Ferrara e soprattutto l’atroce vicenda dei sette fratelli Govoni di Pieve di Cento (BO), catturati, torturati e massacrati da alcuni partigiani comunisti della brigata “Paolo” nel maggio 1945. Onofri dedica a questa tragedia poche righe distratte, sostenendo, cosa che non ci risulta in alcun modo, che due di essi avevano partecipato a rastrellamenti nella zona. Non una parola di pietà ne’ di rammarico.
In più punti e segnatamente quando parla di un noto opuscolo edito dalla DC (La seconda liberazione dell’Emilia, Roma, SPES, 1949), si irride alcune esagerazioni della propaganda cattolica, sui fatti avvenuti negli anni fra il 1945 ed il 1948. Spiace però che il bravo studioso ignori tutti gli studi scientifici che Salvatore Sechi ha svolto sul PCI emiliano e sulle sue effettive potenzialità insurrezionali. I militanti del PCI non avevano probabilmente i rubli d'oro, come si diceva nell’opuscolo, ma armi automatiche, munizioni e radio trasmittenti, quelle però c’erano eccome. Lamentarsi della propaganda della DC senza poi leggere le cronache de L’Unità o de L’Avanti in quegli stessi anni, appare poi espediente discutibile. In realtà, in piena guerra fredda gli interventi di ambo le parti furono a gamba tesa in diverse occasioni; esisteva comunque una non trascurabile differenza nei valori di fondo proposti dai due schieramenti, uno dei quali, e lo stesso Onofri lo ammette, non prevedeva la costruzione di una democrazia occidentale in Italia.
Come già detto dianzi, c’è una sorta di costante giustificazionista nella puntuale descrizione che si fa di quella non pacifica stagione. Le proteste degli agricoltori e dei mezzadri contro i proprietari, piccoli e grandi, che sfociarono in proteste con morti non meno defunti dei contadini celebrati nei martirologi del PCI, secondo l'autore erano dovuti all’ostinazione dei padroni i quali non capivano che “la rivoluzione e la violenza dei mezzadri erano i mezzi e non il fine (sic)” (pp. 111-112). Insomma, un po’ se l’erano cercata.
Altri che se “l’erano cercata” furono i preti ammazzati in Emilia in quegli stessi anni (una ventina quelli su cui esistono dati certi, nella precisa analisi sui singoli casi fatta da Onofri). Don Umberto Pessina, ammazzato a rivoltellate in canonica nel giugno 1946, è così ricordato dall’autore: “era un prete intransigente e non certo un don Camillo” (p. 133): insomma, forse anche lui se l’era meritata, almeno un pò.
In conclusione ribadiamo il giudizio in precedenza esposto: il volume offre una messe di dati su cui non è oggettivamente possibile avere dubbi. E di ciò ne siamo grati all’autore. Assai meno convincente appare Onofri quando ci vuole descrivere l’atmosfera e i fatti dell’Emilia post bellica, con una agiografia imbarazzante di una stagione che, comunque, non fu tra le più memorabili di questa regione, almeno secondo noi.
1 commento:
Caro Andrea, intanto complimenti per l'iniziativa del blog; come in altre occasioni ti mostri particolarmente "vivace". Grazie per le recensioni a un paio di libri che non conoscevo.
Circa il tuo commento al volume di Onofri è in gran parte condivisibile anche se trovo ci sia un eccesso di zelo nello scovare giudizi frettolosi e lacune storiche. Non dobbiamo dimenticare che quei pochi limiti fronteggiano la montagna di lacune volute dei volumi di Pansa, convitato di pietra del saggio di Onofri.
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