Violenza fascista, violenza partigiana?
M. Storchi, Il sangue dei vincitori, Roma, Aliberti, 2008.
I volumi di Gianpaolo Pansa, anche a detta dei più caustici detrattori, hanno avuto il merito di mettere al centro del pubblico dibattito il problema della violenza postbellica nel nostro paese. Massimo Storchi, che ha a lungo studiato l’argomento nell’ambito della provincia reggiana, nel suo ultimo volume rende – provocatoriamente – tributo al titolo più famoso fra quelli del giornalista piemontese, ossia il notissimo Il sangue dei vinti. Il volume dello studioso emiliano è una approfondita e puntuale indagine sulle vicende belliche e i successivi processi ad alcuni fra i peggiori desperados che imperversarono a Reggio Emilia durante la RSI: il capitano della GNR Cesare Pilati, il federale fascista Guglielmo Ferri, il maggiore della GNR Attilio Tesei e l’avventuriero-poliziotto fascista Gioacchino Pelliccia.
Come in altri studi simili, ci troviamo di fronte a squallide vicende umane, poco o nulla rischiarate dalla fede politica dei tragici protagonisti, personaggi che al giorno d’oggi avrebbero fatto la felicità dei tanti criminologi che animano i talk show televisivi. Pochi fra questi uomini pagarono subito e “in solido” le loro malefatte. Chi riuscì a superare i giorni del furore, rientrò senza troppi scossoni alla vita civile, sino alla fine dei propri giorni; fu un copione generalizzato in tutto il centro-nord del paese, in un’Italia che, a eccezione di chi aveva subito lutti e violenze, voleva dimenticare, e anche in fretta. In questo Reggio Emilia non fu diversa da altre realtà della nazione.
Di diverso, e allo stesso tempo in comune con il resto dell’Emilia, ci fu lo strascico di violenze politiche che si protrasse per mesi dopo il termine delle ostilità, il quale provocò decine di uccisioni a freddo compiute da ex partigiani ai danni sì di ex fascisti impuniti, ma anche di dirigenti d’azienda, proprietari terrieri, giornalisti e sacerdoti.
E’ su questo che divergiamo dalla tesi presente nel volume, che lega la rabbia per la giustizia lenta (o assente) dello Stato alla giustizia sommaria e di popolo dei vari pistoleros del comunismo reggiano. E ancor più divergiamo dall’introduzione dello studio, quasi giustificatoria, redatta da Mimmo Franzinelli: come si faccia a sostenere che lo scempio del cadavere dell’ex carceriere fascista Giuseppe Sidoli “avesse una sua ragion d’essere”, ci pare davvero una inutile iperbole. Così come il problema dei “fatti separati dalle opinioni” di cui Storchi parla a inizio del volume, dovrebbe condurre, oltre alle critiche al sensazionalismo della pubblicistica neofascista, anche a una pacata riflessione su cinquant’anni di storiografia resistenziale, che sovente ha prima interpretato e poi ricostruito i fatti (Renzo de Felice lo diceva, irriso e inascoltato, trentacinque anni fa …). Oppure li ha “sbianchettati” perché scomodi.
Se un dopoguerra più civile nel Reggiano come nel Modenese o altrove nel “triangolo rosso”, potesse essere possibile, lo dicono a parer nostro le stesse statistiche riportate da Storchi: Lombardia e Veneto, che avevano ricevuto sfregi orrendi durante l’occupazione tedesca, conobbero strascichi luttuosi più ridotti e vendette assai più isolate di quelle emiliane. In alcune zone, come la Bergamasca, il Trentino, il Vicentino e il Bellunese, già nell’estate del 1945 la violenza si esaurì completamente, ed episodi brutali come l’uccisione dei sacerdoti (tragico stigma emiliano) furono del tutto assenti.
I partigiani delle Fiamme verdi erano meno antifascisti dei garibaldini reggiani? O forse erano solo meno imbevuti di ideologia? E poi: come criticare il disarmo immediato dei partigiani effettuato dalle truppe alleate, a fronte delle centinaia di morti ammazzati a guerra finita in tutta la regione?
E’ su questo che bisognerebbe iniziare nuove riflessioni che, purtroppo, ancora mancano nella storiografia di quel tormentato periodo.
La marcia dei dannati
P. Pavesi, La colonna Morsero, (edizione aggiornata), Maro, Pavia, 2007.
Non conoscevamo questo interessante lavoro di Pierangelo Pavesi, uscito nel 2002 e ripubblicato lo scorso anno in versione rivista e ampliata. Lo studio tratta la vicenda della cosiddetta colonna Morsero, dal nome di Michele Morsero, capo della provincia di Vercelli: una delle tante “marce dei dannati di Salò” che si svolsero nei giorni della fine della guerra, nel tentativo – vano – di raggiungere Mussolini e il suo governo, e che conobbero esiti diversi a seconda delle capacità dei capi e della compattezza dei gregari. Nel caso affrontato dal volume di Pavesi, il finale fu tragico, e dopo la resa decine di militi furono uccisi a sangue freddo dai partigiani a cui avevano ceduto le armi.
La narrazione è ricostruita prevalentemente tramite i ricordi e le testimonianze di reduci fascisti, ed è inutile sottolineare quanto risulti sbilanciata verso punti di vista apertamente nostalgici; chi scrive ha conosciuto in passato numerosi dei testimoni citati nel volume, ed è sempre rimasto colpito dall’incapacità di persone, anche colte e sensibili, di tentare una qualsivoglia rielaborazione critica delle proprie esperienze.
Nel contempo, questa cristallizzazione della memoria ha fatto sì che lo svolgersi degli eventi sia riportato, nella sua spietata drammaticità, come una sorta di present continuous; le ausiliarie e i militi che avevano all’epoca sedici/diciassette anni, parlano della vicenda che vissero a cavallo fra l’aprile e il maggio 1945 come se fosse avvenuta nei giorni precedenti all’intervista di Pavesi. Ciò non può non condurre ad una forma di umana pietà nei confronti di uomini e donne che a causa delle loro convinzioni ideologiche hanno vissuto i successivi anni della propria vita come italiani all’estero, in una nazione animata da valori opposti a quelli con cui essi erano stati educati.
I fatti, come detto, ricalcano per sommi capi storie simili viste in ogni dove nei giorni dell’agonia della RSI: assenza di direttive superiori perché i capi militari si sono eclissati, iniziative contrastanti dei comandanti militari locali, grande confusione nei quadri e fra i militi, che pur dimostrano, nella disperazione della fine, una inattesa compattezza, tanto che le forze di Salò che escono da Vercelli il 26 aprile 1945 per dirigersi (fuori ogni tempo massimo) su Como, ammontano a oltre 2000 uomini, comprensivi di due fra i meglio addestrati e armati reparti della GNR, i battaglioni “Pontida” e “Montebello”.
Con il senno di poi l’unica cosa sensata che questa congerie di formazioni avrebbe dovuto fare, era attendere in buon ordine gli americani, cosa che avviene negli stessi giorni a Ivrea alla colonna italotedesca del generale Hans Schlemmer. Invece Morsero e i suoi vagano nella pianura fra Vercelli e Novara, che è ormai in mano delle forti formazioni partigiane provenienti dalla Valsesia, senza piani precisi, tanto da fermarsi nel paese di Castellazzo Novarese, dove si arrendono – invero senza troppa gloria – ad un gruppo di insorti che probabilmente, in altri momenti, sarebbe stato affrontato senza troppi riguardi dalle camicie nere.
Pur tra le reticenze dei testimoni, emergono nei racconti tutte le lacune dei capi, diversi dei quali si eclissarono al momento del redde rationem (qualcuno anche prima) tanto che, in definitiva, i “pesci grossi” in mano partigiana furono soltanto il prefetto e il federale di Vercelli (Michele Morsero e Gaspare Bertozzi), il primo dei quali sarà fucilato poco dopo nel capoluogo piemontese. Gli altri subiranno la consueta trafila di altri prigionieri fascisti in mano partigiana; chi riuscirà a superare le vendette dei primi giorni, culminate con il noto episodio delle fucilazioni avvenute presso l’ospedale psichiatrico di Greggio, passerà attraverso i campi di Coltano e Laterina, e tornerà in breve tempo alla vita civile.
I fatti raccolti da Pavesi dimostrano, una volta di più, come una volta ceduto lo schermo offerto dalle forze armate tedesche, la RSI non fu capace ne’ di difendersi, ne’ di chiudere dignitosamente la propria esistenza. La fede cieca dei giovani volontari poco poteva nei confronti di formazioni partigiane agguerrite e ben equipaggiate, ad un paese in rivolta e, soprattutto alle preponderanti forze angloamericane. Resta il sacrificio di molti di quei giovani di allora, degno peraltro di causa migliore di quella mussoliniana.
Le altre foibe
J. Corsellis, M. Ferrar, Slovenia 1945, Gorizia, LEG, 2008
Questo volume, meritoriamente edito, come altri simili, grazie alla sensibilità editoriale della Libreria editrice goriziana, racconta cose che supponevamo e solo parzialmente conoscevamo, ma non nelle dimensioni narrate dagli autori del lavoro: lo sterminio di migliaia di sloveni collaborazionisti, militari e civili, da parte dei partigiani dell’esercito di liberazione jugoslavo a cui erano stati consegnati, senza particolari remore, dalle forze della VIII armata britannica a cui si erano arresi nel maggio 1945, in Austria. Lo studio, nel suo seguito, narra, tramite numerose testimonianze, l’odissea dei profughi e il loro destino di sradicati, obbligati a rifarsi una vita in terre lontane e non sempre accoglienti, e il ritorno in patria di molti di essi, negli anni ’90, esperienza talvolta non meno traumatizzante delle precedenti.
Studiosi titolati e politicamente orientati, di fronte alle pagine redatte da due storici non professionisti, talvolta lacunose e sin troppo “partecipate”, potrebbero obiettare che si tratta di pubblicistica di scarso valore scientifico, dedicata a vicende patrimonio di quell’emigrazione anticomunista slovena, croata, ucraina o baltica, indegna di qualsivoglia attenzione se non per il fatto di aver convogliato all’estero, specie in Sudamerica, ogni sorta di criminali di guerra tramite inconfessabili complicità vaticane.
Altri ricercatori, soprattutto gli specialisti dell’antifascismo militante, probabilmente nel leggere le testimonianze delle esecuzioni nelle foibe di Kocevje avranno lo stesso tipo di atteggiamento che tuttora anima le loro descrizioni delle esecuzioni di massa di italiani nell’Istria occupata (liberata?) dai titini: episodi marginali, ingigantiti per propaganda anti-comunista, che comunque riguardarono minoranze di collaboratori che avevano affiancato volontariamente i nazisti fino alla fine della guerra, e che quindi pagavano le loro malefatte. Insomma, come con un certo verace cinismo sostenevano a microfoni spenti alcuni ex partigiani da noi intervistati anni addietro, “...sempre pochi...”.
Infine, seguendo la risacca dell’anticlericalismo di ritorno, mai così arzillo e pimpante come in questi ultimi tempi, ci sarà chi sottolineerà quanto la posizione della chiesa slovena sia stata determinante a orientare numerosi cattolici verso la collaborazione militare con gli occupanti nazisti fra il 1943 ed il 1945; e siccome, usando una limpida definizione di Gaetanò Arfè, il presule croato Alojzije Stepinac, beato della chiesa cattolica, era “un vescovo ustascia”, i parallelismi con il comportamento del clero nella vicina Slovenia diverranno una ulteriore atto di accusa nel pluridecennale e ininterrotto processo postumo a carico di Pio XII; un singolare procedimento volto a dimostrare, a parer nostro, soprattutto alcune verità ideologiche.
Per chi invece, come noi, ritiene che qualche dubbio è sempre meglio delle “granitiche certezze”, e che non si fa un buon servizio alla storia trattandola come un cespuglio, potando tutto quanto di contraddittorio, asimmetrico e diseguale c’è in essa, Slovenia 1945 è un libro da leggere assolutamente, con rispetto pari almeno al dolore che emerge in ogni pagina del volume.
M. Storchi, Il sangue dei vincitori, Roma, Aliberti, 2008.
I volumi di Gianpaolo Pansa, anche a detta dei più caustici detrattori, hanno avuto il merito di mettere al centro del pubblico dibattito il problema della violenza postbellica nel nostro paese. Massimo Storchi, che ha a lungo studiato l’argomento nell’ambito della provincia reggiana, nel suo ultimo volume rende – provocatoriamente – tributo al titolo più famoso fra quelli del giornalista piemontese, ossia il notissimo Il sangue dei vinti. Il volume dello studioso emiliano è una approfondita e puntuale indagine sulle vicende belliche e i successivi processi ad alcuni fra i peggiori desperados che imperversarono a Reggio Emilia durante la RSI: il capitano della GNR Cesare Pilati, il federale fascista Guglielmo Ferri, il maggiore della GNR Attilio Tesei e l’avventuriero-poliziotto fascista Gioacchino Pelliccia.
Come in altri studi simili, ci troviamo di fronte a squallide vicende umane, poco o nulla rischiarate dalla fede politica dei tragici protagonisti, personaggi che al giorno d’oggi avrebbero fatto la felicità dei tanti criminologi che animano i talk show televisivi. Pochi fra questi uomini pagarono subito e “in solido” le loro malefatte. Chi riuscì a superare i giorni del furore, rientrò senza troppi scossoni alla vita civile, sino alla fine dei propri giorni; fu un copione generalizzato in tutto il centro-nord del paese, in un’Italia che, a eccezione di chi aveva subito lutti e violenze, voleva dimenticare, e anche in fretta. In questo Reggio Emilia non fu diversa da altre realtà della nazione.
Di diverso, e allo stesso tempo in comune con il resto dell’Emilia, ci fu lo strascico di violenze politiche che si protrasse per mesi dopo il termine delle ostilità, il quale provocò decine di uccisioni a freddo compiute da ex partigiani ai danni sì di ex fascisti impuniti, ma anche di dirigenti d’azienda, proprietari terrieri, giornalisti e sacerdoti.
E’ su questo che divergiamo dalla tesi presente nel volume, che lega la rabbia per la giustizia lenta (o assente) dello Stato alla giustizia sommaria e di popolo dei vari pistoleros del comunismo reggiano. E ancor più divergiamo dall’introduzione dello studio, quasi giustificatoria, redatta da Mimmo Franzinelli: come si faccia a sostenere che lo scempio del cadavere dell’ex carceriere fascista Giuseppe Sidoli “avesse una sua ragion d’essere”, ci pare davvero una inutile iperbole. Così come il problema dei “fatti separati dalle opinioni” di cui Storchi parla a inizio del volume, dovrebbe condurre, oltre alle critiche al sensazionalismo della pubblicistica neofascista, anche a una pacata riflessione su cinquant’anni di storiografia resistenziale, che sovente ha prima interpretato e poi ricostruito i fatti (Renzo de Felice lo diceva, irriso e inascoltato, trentacinque anni fa …). Oppure li ha “sbianchettati” perché scomodi.
Se un dopoguerra più civile nel Reggiano come nel Modenese o altrove nel “triangolo rosso”, potesse essere possibile, lo dicono a parer nostro le stesse statistiche riportate da Storchi: Lombardia e Veneto, che avevano ricevuto sfregi orrendi durante l’occupazione tedesca, conobbero strascichi luttuosi più ridotti e vendette assai più isolate di quelle emiliane. In alcune zone, come la Bergamasca, il Trentino, il Vicentino e il Bellunese, già nell’estate del 1945 la violenza si esaurì completamente, ed episodi brutali come l’uccisione dei sacerdoti (tragico stigma emiliano) furono del tutto assenti.
I partigiani delle Fiamme verdi erano meno antifascisti dei garibaldini reggiani? O forse erano solo meno imbevuti di ideologia? E poi: come criticare il disarmo immediato dei partigiani effettuato dalle truppe alleate, a fronte delle centinaia di morti ammazzati a guerra finita in tutta la regione?
E’ su questo che bisognerebbe iniziare nuove riflessioni che, purtroppo, ancora mancano nella storiografia di quel tormentato periodo.
La marcia dei dannati
P. Pavesi, La colonna Morsero, (edizione aggiornata), Maro, Pavia, 2007.
Non conoscevamo questo interessante lavoro di Pierangelo Pavesi, uscito nel 2002 e ripubblicato lo scorso anno in versione rivista e ampliata. Lo studio tratta la vicenda della cosiddetta colonna Morsero, dal nome di Michele Morsero, capo della provincia di Vercelli: una delle tante “marce dei dannati di Salò” che si svolsero nei giorni della fine della guerra, nel tentativo – vano – di raggiungere Mussolini e il suo governo, e che conobbero esiti diversi a seconda delle capacità dei capi e della compattezza dei gregari. Nel caso affrontato dal volume di Pavesi, il finale fu tragico, e dopo la resa decine di militi furono uccisi a sangue freddo dai partigiani a cui avevano ceduto le armi.
La narrazione è ricostruita prevalentemente tramite i ricordi e le testimonianze di reduci fascisti, ed è inutile sottolineare quanto risulti sbilanciata verso punti di vista apertamente nostalgici; chi scrive ha conosciuto in passato numerosi dei testimoni citati nel volume, ed è sempre rimasto colpito dall’incapacità di persone, anche colte e sensibili, di tentare una qualsivoglia rielaborazione critica delle proprie esperienze.
Nel contempo, questa cristallizzazione della memoria ha fatto sì che lo svolgersi degli eventi sia riportato, nella sua spietata drammaticità, come una sorta di present continuous; le ausiliarie e i militi che avevano all’epoca sedici/diciassette anni, parlano della vicenda che vissero a cavallo fra l’aprile e il maggio 1945 come se fosse avvenuta nei giorni precedenti all’intervista di Pavesi. Ciò non può non condurre ad una forma di umana pietà nei confronti di uomini e donne che a causa delle loro convinzioni ideologiche hanno vissuto i successivi anni della propria vita come italiani all’estero, in una nazione animata da valori opposti a quelli con cui essi erano stati educati.
I fatti, come detto, ricalcano per sommi capi storie simili viste in ogni dove nei giorni dell’agonia della RSI: assenza di direttive superiori perché i capi militari si sono eclissati, iniziative contrastanti dei comandanti militari locali, grande confusione nei quadri e fra i militi, che pur dimostrano, nella disperazione della fine, una inattesa compattezza, tanto che le forze di Salò che escono da Vercelli il 26 aprile 1945 per dirigersi (fuori ogni tempo massimo) su Como, ammontano a oltre 2000 uomini, comprensivi di due fra i meglio addestrati e armati reparti della GNR, i battaglioni “Pontida” e “Montebello”.
Con il senno di poi l’unica cosa sensata che questa congerie di formazioni avrebbe dovuto fare, era attendere in buon ordine gli americani, cosa che avviene negli stessi giorni a Ivrea alla colonna italotedesca del generale Hans Schlemmer. Invece Morsero e i suoi vagano nella pianura fra Vercelli e Novara, che è ormai in mano delle forti formazioni partigiane provenienti dalla Valsesia, senza piani precisi, tanto da fermarsi nel paese di Castellazzo Novarese, dove si arrendono – invero senza troppa gloria – ad un gruppo di insorti che probabilmente, in altri momenti, sarebbe stato affrontato senza troppi riguardi dalle camicie nere.
Pur tra le reticenze dei testimoni, emergono nei racconti tutte le lacune dei capi, diversi dei quali si eclissarono al momento del redde rationem (qualcuno anche prima) tanto che, in definitiva, i “pesci grossi” in mano partigiana furono soltanto il prefetto e il federale di Vercelli (Michele Morsero e Gaspare Bertozzi), il primo dei quali sarà fucilato poco dopo nel capoluogo piemontese. Gli altri subiranno la consueta trafila di altri prigionieri fascisti in mano partigiana; chi riuscirà a superare le vendette dei primi giorni, culminate con il noto episodio delle fucilazioni avvenute presso l’ospedale psichiatrico di Greggio, passerà attraverso i campi di Coltano e Laterina, e tornerà in breve tempo alla vita civile.
I fatti raccolti da Pavesi dimostrano, una volta di più, come una volta ceduto lo schermo offerto dalle forze armate tedesche, la RSI non fu capace ne’ di difendersi, ne’ di chiudere dignitosamente la propria esistenza. La fede cieca dei giovani volontari poco poteva nei confronti di formazioni partigiane agguerrite e ben equipaggiate, ad un paese in rivolta e, soprattutto alle preponderanti forze angloamericane. Resta il sacrificio di molti di quei giovani di allora, degno peraltro di causa migliore di quella mussoliniana.
Le altre foibe
J. Corsellis, M. Ferrar, Slovenia 1945, Gorizia, LEG, 2008
Questo volume, meritoriamente edito, come altri simili, grazie alla sensibilità editoriale della Libreria editrice goriziana, racconta cose che supponevamo e solo parzialmente conoscevamo, ma non nelle dimensioni narrate dagli autori del lavoro: lo sterminio di migliaia di sloveni collaborazionisti, militari e civili, da parte dei partigiani dell’esercito di liberazione jugoslavo a cui erano stati consegnati, senza particolari remore, dalle forze della VIII armata britannica a cui si erano arresi nel maggio 1945, in Austria. Lo studio, nel suo seguito, narra, tramite numerose testimonianze, l’odissea dei profughi e il loro destino di sradicati, obbligati a rifarsi una vita in terre lontane e non sempre accoglienti, e il ritorno in patria di molti di essi, negli anni ’90, esperienza talvolta non meno traumatizzante delle precedenti.
Studiosi titolati e politicamente orientati, di fronte alle pagine redatte da due storici non professionisti, talvolta lacunose e sin troppo “partecipate”, potrebbero obiettare che si tratta di pubblicistica di scarso valore scientifico, dedicata a vicende patrimonio di quell’emigrazione anticomunista slovena, croata, ucraina o baltica, indegna di qualsivoglia attenzione se non per il fatto di aver convogliato all’estero, specie in Sudamerica, ogni sorta di criminali di guerra tramite inconfessabili complicità vaticane.
Altri ricercatori, soprattutto gli specialisti dell’antifascismo militante, probabilmente nel leggere le testimonianze delle esecuzioni nelle foibe di Kocevje avranno lo stesso tipo di atteggiamento che tuttora anima le loro descrizioni delle esecuzioni di massa di italiani nell’Istria occupata (liberata?) dai titini: episodi marginali, ingigantiti per propaganda anti-comunista, che comunque riguardarono minoranze di collaboratori che avevano affiancato volontariamente i nazisti fino alla fine della guerra, e che quindi pagavano le loro malefatte. Insomma, come con un certo verace cinismo sostenevano a microfoni spenti alcuni ex partigiani da noi intervistati anni addietro, “...sempre pochi...”.
Infine, seguendo la risacca dell’anticlericalismo di ritorno, mai così arzillo e pimpante come in questi ultimi tempi, ci sarà chi sottolineerà quanto la posizione della chiesa slovena sia stata determinante a orientare numerosi cattolici verso la collaborazione militare con gli occupanti nazisti fra il 1943 ed il 1945; e siccome, usando una limpida definizione di Gaetanò Arfè, il presule croato Alojzije Stepinac, beato della chiesa cattolica, era “un vescovo ustascia”, i parallelismi con il comportamento del clero nella vicina Slovenia diverranno una ulteriore atto di accusa nel pluridecennale e ininterrotto processo postumo a carico di Pio XII; un singolare procedimento volto a dimostrare, a parer nostro, soprattutto alcune verità ideologiche.
Per chi invece, come noi, ritiene che qualche dubbio è sempre meglio delle “granitiche certezze”, e che non si fa un buon servizio alla storia trattandola come un cespuglio, potando tutto quanto di contraddittorio, asimmetrico e diseguale c’è in essa, Slovenia 1945 è un libro da leggere assolutamente, con rispetto pari almeno al dolore che emerge in ogni pagina del volume.