“In memoriam” di un intellettuale italiano controcorrente
Di Giuseppe Brienza*
Lo scorso anno è morto ad Albano Laziale, in provincia di Roma, l’economista e studioso sociale Ferdinando Enrico Loffredo, uno dei più interessanti e meno conosciuti ispiratori intellettuali della politica sociale e della famiglia del Regime fascista. Era nato a Roma il 14 giugno 1908. Chi volesse imbattersi in centinaia di citazioni può digitare il suo nome in un qualsiasi motore di ricerca Internet e si troverà davanti a siti “para” – “post” – e “filo” femministi che ne esecrano le teorie, additandolo a modello di sciovinismo fascista e di sessismo cattolico. In realtà Loffredo rappresenta una figura complessa di studioso del diritto socio-assistenziale italiano ed occidentale, oltre che di fervente militante politico (prima fascista, poi liberal-conservatore), attivo in un periodo, quello del fascismo-regime e della prima fase del miracolo economico italiano (dal 1933 funzionario dell’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, nel dopoguerra passò all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dove nel 1968 giunge alla qualifica apicale di Capo Servizio Affari Generali), in cui furono poste le basi di molte realtà ed istituzioni del contemporaneo stato sociale. Dopo essersi laureato giovanissimo (nel 1930), in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma “La Sapienza”, con una tesi sulla colonizzazione tedesca (relatore lo storico economico Gennaro Mondaini), durante l’ultimo periodo del Regime Loffredo collabora a testate tanto scientifico-divulgative, come “Difesa Sociale - Organo dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale” (troviamo suoi saggi nelle annate dal 1938 al 1940), quanto a riviste di militanza come “Famiglia Fascista”, il bollettino ufficiale dell’Unione fascista famiglie numerose (1939-1940) e “La Difesa della Razza” (1939- 1940), fondata nel 1938 sotto gli auspici del Ministero della Cultura popolare e diretta fino alla cessazione delle sue pubblicazioni nel 1943 dal giornalista Telesio Interlandi. Alla seconda metà degli anni Trenta risalgono le sue pubblicazioni principali come Perequazione degli oneri familiari (Roma, USILA, 1936), Studi e attuazioni nel campo degli assegni familiari in Germania (Milano, Vita e Pensiero, 1936), Applicazioni australiane del principio degli assegni familiari (Roma, USILA, 1937), Aspetti demografici della riforma della previdenza sociale (Roma, USILA, 1939), L’eccesso assistenziale nella politica demografica (Roma, USILA 1939), La famiglia nell’economia della nazione (Bologna, Zanichelli, 1939), Reddito individuale e reddito familiare (Roma, USILA, 1939) e, soprattutto, l’opera più corposa ed interessante, Politica della famiglia, che reca una presentazione dell’allora gerarca e ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (Milano, Bompiani, 1938). Prima di partire per il fronte greco-albanese nel 1940, lasciando a casa moglie e quattro figli, lo studioso romano si occupa anche della traduzione in italiano dei primi discorsi che Francisco Franco y Bahamonde aveva pronunciato alla fine della guerra civile spagnola, con un volume prefato da Galeazzo Ciano (Parole del Caudillo: discorsi, allocuzioni e proclami, messaggi, dichiarazioni alla stampa del generalissimo Franco dall’aprile al settembre 1939, Firenze, Le Monnier, 1940). Per stendere un profilo bio-bibliografico dell’intellettuale italiano nel mio saggio Ferdinando Loffredo e lo sviluppo delle politiche familiari in Italia, pubblicato su “Annali Italiani - rivista dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Italiana”, (n. 3 - gennaio-giugno 2003, pp. 179-230, www.identitanazionale.it) mi sono anche avvalso di un’intervista con Loffredo, che mi è stata concessa l’11 novembre 2002. Di seguito ne riporto il testo da lui successivamente rivisto.
* Giornalista pubblicista, dottore di ricerca nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”
Dove è nato e quali studi universitari ha svolto?
Di Giuseppe Brienza*
Lo scorso anno è morto ad Albano Laziale, in provincia di Roma, l’economista e studioso sociale Ferdinando Enrico Loffredo, uno dei più interessanti e meno conosciuti ispiratori intellettuali della politica sociale e della famiglia del Regime fascista. Era nato a Roma il 14 giugno 1908. Chi volesse imbattersi in centinaia di citazioni può digitare il suo nome in un qualsiasi motore di ricerca Internet e si troverà davanti a siti “para” – “post” – e “filo” femministi che ne esecrano le teorie, additandolo a modello di sciovinismo fascista e di sessismo cattolico. In realtà Loffredo rappresenta una figura complessa di studioso del diritto socio-assistenziale italiano ed occidentale, oltre che di fervente militante politico (prima fascista, poi liberal-conservatore), attivo in un periodo, quello del fascismo-regime e della prima fase del miracolo economico italiano (dal 1933 funzionario dell’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale, nel dopoguerra passò all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dove nel 1968 giunge alla qualifica apicale di Capo Servizio Affari Generali), in cui furono poste le basi di molte realtà ed istituzioni del contemporaneo stato sociale. Dopo essersi laureato giovanissimo (nel 1930), in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma “La Sapienza”, con una tesi sulla colonizzazione tedesca (relatore lo storico economico Gennaro Mondaini), durante l’ultimo periodo del Regime Loffredo collabora a testate tanto scientifico-divulgative, come “Difesa Sociale - Organo dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale” (troviamo suoi saggi nelle annate dal 1938 al 1940), quanto a riviste di militanza come “Famiglia Fascista”, il bollettino ufficiale dell’Unione fascista famiglie numerose (1939-1940) e “La Difesa della Razza” (1939- 1940), fondata nel 1938 sotto gli auspici del Ministero della Cultura popolare e diretta fino alla cessazione delle sue pubblicazioni nel 1943 dal giornalista Telesio Interlandi. Alla seconda metà degli anni Trenta risalgono le sue pubblicazioni principali come Perequazione degli oneri familiari (Roma, USILA, 1936), Studi e attuazioni nel campo degli assegni familiari in Germania (Milano, Vita e Pensiero, 1936), Applicazioni australiane del principio degli assegni familiari (Roma, USILA, 1937), Aspetti demografici della riforma della previdenza sociale (Roma, USILA, 1939), L’eccesso assistenziale nella politica demografica (Roma, USILA 1939), La famiglia nell’economia della nazione (Bologna, Zanichelli, 1939), Reddito individuale e reddito familiare (Roma, USILA, 1939) e, soprattutto, l’opera più corposa ed interessante, Politica della famiglia, che reca una presentazione dell’allora gerarca e ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai (Milano, Bompiani, 1938). Prima di partire per il fronte greco-albanese nel 1940, lasciando a casa moglie e quattro figli, lo studioso romano si occupa anche della traduzione in italiano dei primi discorsi che Francisco Franco y Bahamonde aveva pronunciato alla fine della guerra civile spagnola, con un volume prefato da Galeazzo Ciano (Parole del Caudillo: discorsi, allocuzioni e proclami, messaggi, dichiarazioni alla stampa del generalissimo Franco dall’aprile al settembre 1939, Firenze, Le Monnier, 1940). Per stendere un profilo bio-bibliografico dell’intellettuale italiano nel mio saggio Ferdinando Loffredo e lo sviluppo delle politiche familiari in Italia, pubblicato su “Annali Italiani - rivista dell’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Italiana”, (n. 3 - gennaio-giugno 2003, pp. 179-230, www.identitanazionale.it) mi sono anche avvalso di un’intervista con Loffredo, che mi è stata concessa l’11 novembre 2002. Di seguito ne riporto il testo da lui successivamente rivisto.
* Giornalista pubblicista, dottore di ricerca nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”
Dove è nato e quali studi universitari ha svolto?
Sono nato a Roma nel giugno 1908. Mi sono laureato in Scienze economiche e commerciali all’Università di Roma nel 1930, con una tesi sulla colonizzazione tedesca, relatore il professor Gennaro Mondaini, allora titolare della cattedra di Storia Economica. Scelsi quell’argomento perché ho sempre avuto una particolare simpatia ed interesse culturale per le “cose tedesche”.
Subito dopo riuscì a trovare un impiego?
Negli anni immediatamente successivi partecipai quasi contemporaneamente a due concorsi pubblici, uno bandito dall’INFPS, ed uno dal Ministero delle Corporazioni. Entrambi erano per funzionario, ed in entrambi risultai primo nella graduatoria. Optai comunque per quello che sarebbe poi diventato l’INPS perché, allora come in seguito, le retribuzioni di quell’ente pubblico equivalgono ed equivalevano quasi al doppio di quelle previste nei ministeri. Fui ivi assunto così nel 1933, e vi rimasi, con la sola interruzione della guerra (perché andai al fronte) e dell’immediato dopoguerra (perché, in quanto aderente alla RSI, fui – anche se solo per un certo periodo – epurato), fino al 1968, anno in cui fui pensionato con la qualifica di “Capo Servizio”.
Per partecipare ai due concorsi era necessaria l’iscrizione al P.N.F.?
No, non era richiesta iscrizione al partito.
Fu per caso “raccomandato” all’uno od all’altro dei concorsi?
No, non ebbi nessuna raccomandazione. Del resto mio padre Anacleto, di origine sarda (tutta la nostra famiglia paterna era nativa di Oristano - quella materna di Sassari -, trasferitasi a Roma all’inizio del 1900), era un semplice funzionario presso il Comune di Roma. Prima ancora era stato impiegato nella riscossione delle imposte daziarie (i “Regi Dazi”) e nel Comune di Napoli.
Di sua madre invece che mi può dire?
Mia madre, Riccarda Passeroni, era di una intelligenza e cultura finissima. Conseguì nel 1902 il titolo di studio presso l’Istituto Superiore di Magistero di Roma, avendo fra i suoi insegnanti anche Luigi Pirandello. I miei ebbero poi tre figli: Domenico, me e da ultimo Margherita, nata nel 1919 e tuttora vivente.
La sua famiglia, invece, di quanti componenti è composta?
Io e mia moglie Teresa abbiamo avuto quattro figli: Teresa del 1938, Gianfranco del 1940, Clara ed Eleonora concepiti invece al ritorno dalla guerra.
Appena terminata l’Università e vinti i concorsi di cui sopra, dovette partire per il servizio militare?
Si, effettuando il servizio di complemento nel Regio Esercito, Arma di Fanteria. Nel 1931 feci quindi la Scuola Allievi Ufficiali a Spoleto, nello stesso corso che frequentò Amintore Fanfani. Nella compagnia eravamo i più affiatati, anche perché eravamo i più istruiti, ed i nostri lettini, nella camerata, erano giustappunto affiancati.
Non sorgevano allora “dispute ideologiche” fra Lei ed il futuro esponente della “sinistra D.C.” Fanfani?
No, perché allora lui non era assolutamente “anti-fascista”. In quegli anni, si può dire, si era tutti fascisti senza nemmeno accorgersene. Anch’io come lui provenivo poi dall’associazionismo cattolico, avendo in gioventù frequentato i Boy scouts (ebbi persino l’onore di stringere la mano, nel 1924 a Copenaghen, al fondatore dello scoutismo Lord Baden-Powell).
Insomma stringeste una solida amicizia…
Di lui e del nostro periodo comune di servizio militare, le racconterò un aneddoto che non smise di suscitarci calorose risa per molti anni successivi. Il Fanfani, infatti, era molto colto e bravo nelle materie teoriche, ma nella “praticità” e nella “immediatezza” dei modi che veniva richiesta (soprattutto in quegli anni poi!) nell’ambito della vita militare non era affatto a suo agio! Non era poi per niente portato in quella che veniva chiamata l’“attitudine al comando”. Arrivati alla fine del corso Allievi Ufficiali, infatti, si giunse alla verifica finale che avrebbe dovuto dimostrare come ognuno noi avrebbe dovuto essere in grado di comandare una compagnia. Il colonnello Camillo Percalli, allora Comandante della scuola, giunse quindi, in alta uniforme e dopo una solenne cavalcata, dal sottotenente “in pectore” Fanfani. Così, dall’alto del suo cavallo, domandò marziale all’emozionato “professorino”, di esporre la strategia tattica immediatamente susseguente all’avvistamento di una compagnia di fanteria nemica. Il “poeta” Fanfani, del tutto fuori dall’ambiente e dall’atmosfera che il tempo ed il luogo esigevano, non trovò invece di meglio che esordire, nel toscano raffinato ed aulico che lo caratterizzava, con un “… il nemico vien sul dall’erta …”. Il colonnello, visibilmente irritato da cotanta “mollezza”, in mezzo a non poche imprecazioni, dette quindi immediatamente una rabbiosa frustata al suo cavallo, passando in fretta al successivo “esaminando”, considerando evidentemente il Fanfani del tutto “irrecuperabile”… Non parliamo poi di quando dovevamo fare il “salto mortale”. Non le dico le scene esilaranti. Per fargli superare anche questa prova, noi “recuperavamo” il Fanfani, al di là dell’ostacolo ed al nascosto, e lo giravamo su una coperta. Una volta congedati mantenemmo un’ottimo rapporto. Di reciproca stima culturale, peraltro.
Da questa vostra amicizia nacque quindi la sua collaborazione, che ebbe inizio nel 1933 e si prolungò fino al 1961, con il bimestrale dell’Università del Sacro Cuore di Milano,“Rivista internazionale di scienze sociali”, diretto fino al 1940 dallo stesso Fanfani (ed in seguito ampiamente da lui influenzato), che allora ivi teneva la cattedra di Storia economica?
Si, certamente. L’allora professore all’Università del Sacro Cuore, infatti, insegnava la materia che più coltivavo anch’io, vale a dire la storia economica, e m’inviava ogni anno da recensire una mezza dozzina di libri, quasi tutti non tradotti (soprattutto di lingua tedesca).
Quali considera gli economisti che maggiormente l’hanno influenzata?
Ha influito molto su di me il francese Paul Leroy-Beaulieu (1843-1916, professore all’Ecole libre des sciences politiques di Parigi, divulgatore delle teorie liberiste e individualiste e quindi anche coerentemente anti-socialista; sotto quest’ultimo profilo, si osservi soprattutto il suo Le collettivisme: examen critique du nouveau socialisme, del 1885). Penso, in primo luogo, al Traité d’economie politique, da lui pubblicato in due volumi fra il 1897-98 (fu contemporaneamente tradotto anche in italiano e, fra i due curatori del secondo tomo, figurava anche un allora giovanissimo Luigi Einaudi). Si trattava allora di un libro fondamentale per chi voleva avere un’idea chiara dei primi grandi economisti “classici”, da Adam Smith a Malthus. Ricordo di averlo letto, appena uscito in francese, e di averne fatto un riassunto di 100 pagine, ad uso personale e mai pubblicato che consultavo e rileggevo continuamente. Amavo sempre preferibilmente leggere in lingua originale, per il piacere di conoscere gli autori direttamente.
E di Colin Clark che mi può dire, visto che ne ha sempre recensito le opere, oltre ad aver contribuito a farlo conoscere in Italia con il suo saggio, che pubblicò nel 1954 sulla “Rivista di Politica economica”, intitolato Il progetto di Colin Clark per la riforma fiscale e dei servizi sociali in Gran Bretagna?
Le opere di Clark, per uno come me che si definisce liberale e liberista, sono sempre state interessantissime. Anche durante il fascismo, sono sempre stato contrario alle eccessive “partecipazioni statali”, nonché (e l’ho anche scritto) alle stesse politiche familiari di tipo assistenzialistico e statalistico. C’è un punto ad esempio in “Politica della Famiglia”, su cui venni non poco criticato, in cui “attaccavo”, a titolo meramente esemplare, l’iniziativa del Regime di distribuire i regali alla festa dell’Epifania. Sì, insomma, la cosiddetta “Befana Fascista”. Ma la befana, sostenevo, può essere “fascista” solo per i genitori, non certo per i figli! Ai bambini dovevano rimanere il babbo e la mamma a dare i doni e l’affetto tipico di una festività dai risvolti familiari e domestici come quella della “befana”. Di qui la mia costante tendenza a raccomandare di limitare il più possibile l’intervento dello Stato nella vita delle famiglie, nonché nei rapporti fra Stato e individuo. Tranne che nei casi indispensabili, ovviamente.
Ricordo poi le mie forti perplessità anche nei confronti dei concetti di Ugo Spirito, il quale in quegli anni vagheggiava di “corporazioni proprietarie”: concetto pericolosissimo! Ed infatti il fascismo, come la maggior parte di tutti gli altri regimi autoritari, partì come liberista, ma finì inevitabilmente con il finire dirigista ed interventista.
Come nacque la sua opera più nota Politica della famiglia del 1938 (con prefazione di Giuseppe Bottai)?
L’allora ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, fu incaricato, fra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, da parte della segreteria del P.N.F., di preparare una relazione sui problemi demografici del Paese per un imminente Gran Consiglio del Fascismo da convocarsi su tali tematiche, il quale avrebbe dovuto imprimere una svolta alle politiche fino allora adottate. Il segretario del ministro, il quale aveva già letto qualche mio articolo sull’argomento che gli era piaciuto (v. soprattutto quelli allora pubblicati su “Rivista internazionale di scienze sociali”, “Rivista di Politica Economica” e “Difesa Sociale”), mi consigliò a Bottai, per il quale scrissi prontamente due relazioni da presentare al Gran Consiglio. O meglio, una più lunga nella quale profusi moltissimo impegno, dalla quale appunto scaturì il libro che Lei ha citato, ed una più breve (l’unica che l’allora ministro avrebbe potuto meglio “digerire”), che fu quindi quella firmata e proposta da Bottai in quella riunione straordinaria, che poi si tenne il 3 marzo del 1937. Per quanto mi riguarda, avevo personalmente conosciuto Bottai prima di allora in una sola occasione. Quando, cioè, durante il suo breve periodo da presidente dell’INPS fra il 1933 ed il 1934, venne in visita all’Istituto un rappresentante tedesco, al fine di scambi culturali in tematiche relative alla previdenza sociale. Serviva allora un interprete ed io, conoscendo bene il tedesco, mi proposi da interprete fra il Bottai ed il funzionario straniero.
Da allora continuarono i suoi rapporti con Bottai?
Il ministro apprezzò molto la relazione e da allora ebbe grande fiducia e simpatia per me; tanto che ogni volta che Mussolini, per imitare Hitler, faceva passi avanti sulla via del razzismo, Bottai mi mandava a chiamare per “sfogarsi” con me. Nutrendo egli non poche perplessità su questo tipo di iniziative. Bottai in seguito continuò molto a stimarmi, sia come studioso, poiché dopo il libro ricevei l’incarico dell’insegnamento di Demografia presso la facoltà di Scienze politiche della Regia Università di Perugia (1938-1940), sia come “combattente”, scrivendomi egli, mentre ero sul fronte greco-albanese, lettere piene di entusiasmo. “Tua madre è fiera di te”, ricordo mi scrisse in una di queste (dopo aver sentito personalmente per telefono la mia genitrice), missive che ebbi poi il piacere di consegnare personalmente al figlio, ambasciatore Bruno Bottai, allorquando fu nominato Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri.
Come fu accolto “Politica della famiglia” dall’allora mondo politico e culturale?
La stampa cattolica, allora ridotta a poche testate, accolse con grande favore questo mio libro, a partire da “Civiltà cattolica”. Il gesuita padre Angelo Brucculeri lo recensì infatti subito con un articolo di fondo di ben 12 pagine. Ciò voleva dire che in quel momento il mondo cattolico e la Santa Sede riteneva molto utile questo lavoro per il bene dell’istituto familiare. Il pubblico, poi, tributò un notevole successo al mio studio, se solo si pensa che rimase a lungo esposto nelle principali librerie del centro di Roma e continuai per oltre quattro anni dalla sua uscita a percepire i diritti d’autore dalla Bompiani.
Nell’ambito del P.N.F., invece, furono condivise le sue tesi in tema di politiche familiari?
Beh, risponde a questa sua domanda l’episodio della mia convocazione diretta, nell’autunno del 1938, da parte di Mussolini in persona, al fine di essere sentito sulle prospettive di miglioramento e/o modifica dei provvedimenti fino allora assunti dal Regime. Quando ero ancora un modesto funzionario dell’INFPS, mi arrivò infatti, di punto in bianco, una telefonata da parte del segretario personale del Duce, il quale mi comunicò ch’egli mi voleva vedere subito. Gli contestai che non ero molto “presentabile” (indossavo una modesta giacchetta!), ma il segretario mi ribadì che dovevo farmi trovare immediatamente a Palazzo Venezia, perché Mussolini aveva saputo del libro e voleva parlarne direttamente con me. Mi precipitai dunque e, senza troppe formalità, fui ricevuto nella sala del Mappamondo, avendo una conversazione con il Duce di circa 45 minuti. Lui esordì contestandomi che io ero contrario (perché deresponsabilizzante e diseducativa) ad un politica demografica fondata principalmente sugli incentivi economici, mentre lui riteneva che l’aiuto economico “faceva effetto”. Io gli risposi che, secondo me, “non faceva effetto” ma la promozione della famiglia e della natalità dovevano basarsi essenzialmente su principi “spirituali” (nel senso di culturali), per educare alla onestà (nel senso di lotta all’aborto ed alla contraccezione), alla purezza (contrasto dei rapporti pre-matrimoniali ed alla concezione della sessualità esclusivamente come egoistico piacere). Mi diffusi ampiamente per dimostrare che, alla lunga, i sussidi economici sarebbero risultati secondari. La mia, del resto, era la posizione del magistero sociale della Chiesa. Mussolini mi ascoltò tutto il tempo con attenzione e, per quanto riguarda il fatto se l’avessi convinto o meno (dato che dal punto di vista della “rettificazione” delle politiche non ci fu il tempo necessario, a causa dell’ingresso dell’Italia nella Guerra), potrei citare la battuta con la quale mi congedò: “… Forse avete ragione, se a questi sposini moderni si assegna una somma di denaro, questi ci si comprano una cassa di preservativi e non fanno più figli…”
Avendo avuto modo di leggere Sue recensioni e citazioni bibliografiche da libri anche specialistici mai tradotti in italiano, mi sono reso conto che Lei conosce almeno 4 lingue straniere. Come le ha imparate?
Conosco il tedesco, per averlo “optato” (la mia fissazione per la cultura e la storia della Germania…) e studiato alle scuole superiori, per poi perfezionarlo privatamente. Nella seconda metà degli anni ’30, ebbi persino modo di scrivere su tematiche previdenziali e sociali su riviste specialistiche tedesche. L’inglese, l’ho studiato da autodidatta. Per quanto riguarda il francese, anch’esso iniziato a studiare durante la scuola dell’obbligo, ebbi modo di approfondirlo in un modo tutto particolare. Andavo infatti regolarmente, anche per non far spendere alla famiglia soldarelli preziosi per pagare gli insegnanti privati, ad ascoltare le prediche in madre-lingua, alla famosa chiesa romana di S. Luigi dei Francesi. Andavo così spesso che il predicatore cominciò a riconoscermi, iniziò a darmi confidenza e mi impadronii così bene dell’idioma che quando venne effettuata la prima verifica a scuola, l’esaminatore si meravigliò molto della mia “perizia” linguistica. Lo spagnolo l’ho studiato invece all’Università, e fra l’altro mi è riuscito molto facile di apprenderlo, dato anche il fatto che il dialetto della Sardegna meridionale (spesso parlato in famiglia) somiglia molto a tale idioma.
Ricordo poi le mie forti perplessità anche nei confronti dei concetti di Ugo Spirito, il quale in quegli anni vagheggiava di “corporazioni proprietarie”: concetto pericolosissimo! Ed infatti il fascismo, come la maggior parte di tutti gli altri regimi autoritari, partì come liberista, ma finì inevitabilmente con il finire dirigista ed interventista.
Come nacque la sua opera più nota Politica della famiglia del 1938 (con prefazione di Giuseppe Bottai)?
L’allora ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, fu incaricato, fra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, da parte della segreteria del P.N.F., di preparare una relazione sui problemi demografici del Paese per un imminente Gran Consiglio del Fascismo da convocarsi su tali tematiche, il quale avrebbe dovuto imprimere una svolta alle politiche fino allora adottate. Il segretario del ministro, il quale aveva già letto qualche mio articolo sull’argomento che gli era piaciuto (v. soprattutto quelli allora pubblicati su “Rivista internazionale di scienze sociali”, “Rivista di Politica Economica” e “Difesa Sociale”), mi consigliò a Bottai, per il quale scrissi prontamente due relazioni da presentare al Gran Consiglio. O meglio, una più lunga nella quale profusi moltissimo impegno, dalla quale appunto scaturì il libro che Lei ha citato, ed una più breve (l’unica che l’allora ministro avrebbe potuto meglio “digerire”), che fu quindi quella firmata e proposta da Bottai in quella riunione straordinaria, che poi si tenne il 3 marzo del 1937. Per quanto mi riguarda, avevo personalmente conosciuto Bottai prima di allora in una sola occasione. Quando, cioè, durante il suo breve periodo da presidente dell’INPS fra il 1933 ed il 1934, venne in visita all’Istituto un rappresentante tedesco, al fine di scambi culturali in tematiche relative alla previdenza sociale. Serviva allora un interprete ed io, conoscendo bene il tedesco, mi proposi da interprete fra il Bottai ed il funzionario straniero.
Da allora continuarono i suoi rapporti con Bottai?
Il ministro apprezzò molto la relazione e da allora ebbe grande fiducia e simpatia per me; tanto che ogni volta che Mussolini, per imitare Hitler, faceva passi avanti sulla via del razzismo, Bottai mi mandava a chiamare per “sfogarsi” con me. Nutrendo egli non poche perplessità su questo tipo di iniziative. Bottai in seguito continuò molto a stimarmi, sia come studioso, poiché dopo il libro ricevei l’incarico dell’insegnamento di Demografia presso la facoltà di Scienze politiche della Regia Università di Perugia (1938-1940), sia come “combattente”, scrivendomi egli, mentre ero sul fronte greco-albanese, lettere piene di entusiasmo. “Tua madre è fiera di te”, ricordo mi scrisse in una di queste (dopo aver sentito personalmente per telefono la mia genitrice), missive che ebbi poi il piacere di consegnare personalmente al figlio, ambasciatore Bruno Bottai, allorquando fu nominato Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri.
Come fu accolto “Politica della famiglia” dall’allora mondo politico e culturale?
La stampa cattolica, allora ridotta a poche testate, accolse con grande favore questo mio libro, a partire da “Civiltà cattolica”. Il gesuita padre Angelo Brucculeri lo recensì infatti subito con un articolo di fondo di ben 12 pagine. Ciò voleva dire che in quel momento il mondo cattolico e la Santa Sede riteneva molto utile questo lavoro per il bene dell’istituto familiare. Il pubblico, poi, tributò un notevole successo al mio studio, se solo si pensa che rimase a lungo esposto nelle principali librerie del centro di Roma e continuai per oltre quattro anni dalla sua uscita a percepire i diritti d’autore dalla Bompiani.
Nell’ambito del P.N.F., invece, furono condivise le sue tesi in tema di politiche familiari?
Beh, risponde a questa sua domanda l’episodio della mia convocazione diretta, nell’autunno del 1938, da parte di Mussolini in persona, al fine di essere sentito sulle prospettive di miglioramento e/o modifica dei provvedimenti fino allora assunti dal Regime. Quando ero ancora un modesto funzionario dell’INFPS, mi arrivò infatti, di punto in bianco, una telefonata da parte del segretario personale del Duce, il quale mi comunicò ch’egli mi voleva vedere subito. Gli contestai che non ero molto “presentabile” (indossavo una modesta giacchetta!), ma il segretario mi ribadì che dovevo farmi trovare immediatamente a Palazzo Venezia, perché Mussolini aveva saputo del libro e voleva parlarne direttamente con me. Mi precipitai dunque e, senza troppe formalità, fui ricevuto nella sala del Mappamondo, avendo una conversazione con il Duce di circa 45 minuti. Lui esordì contestandomi che io ero contrario (perché deresponsabilizzante e diseducativa) ad un politica demografica fondata principalmente sugli incentivi economici, mentre lui riteneva che l’aiuto economico “faceva effetto”. Io gli risposi che, secondo me, “non faceva effetto” ma la promozione della famiglia e della natalità dovevano basarsi essenzialmente su principi “spirituali” (nel senso di culturali), per educare alla onestà (nel senso di lotta all’aborto ed alla contraccezione), alla purezza (contrasto dei rapporti pre-matrimoniali ed alla concezione della sessualità esclusivamente come egoistico piacere). Mi diffusi ampiamente per dimostrare che, alla lunga, i sussidi economici sarebbero risultati secondari. La mia, del resto, era la posizione del magistero sociale della Chiesa. Mussolini mi ascoltò tutto il tempo con attenzione e, per quanto riguarda il fatto se l’avessi convinto o meno (dato che dal punto di vista della “rettificazione” delle politiche non ci fu il tempo necessario, a causa dell’ingresso dell’Italia nella Guerra), potrei citare la battuta con la quale mi congedò: “… Forse avete ragione, se a questi sposini moderni si assegna una somma di denaro, questi ci si comprano una cassa di preservativi e non fanno più figli…”
Avendo avuto modo di leggere Sue recensioni e citazioni bibliografiche da libri anche specialistici mai tradotti in italiano, mi sono reso conto che Lei conosce almeno 4 lingue straniere. Come le ha imparate?
Conosco il tedesco, per averlo “optato” (la mia fissazione per la cultura e la storia della Germania…) e studiato alle scuole superiori, per poi perfezionarlo privatamente. Nella seconda metà degli anni ’30, ebbi persino modo di scrivere su tematiche previdenziali e sociali su riviste specialistiche tedesche. L’inglese, l’ho studiato da autodidatta. Per quanto riguarda il francese, anch’esso iniziato a studiare durante la scuola dell’obbligo, ebbi modo di approfondirlo in un modo tutto particolare. Andavo infatti regolarmente, anche per non far spendere alla famiglia soldarelli preziosi per pagare gli insegnanti privati, ad ascoltare le prediche in madre-lingua, alla famosa chiesa romana di S. Luigi dei Francesi. Andavo così spesso che il predicatore cominciò a riconoscermi, iniziò a darmi confidenza e mi impadronii così bene dell’idioma che quando venne effettuata la prima verifica a scuola, l’esaminatore si meravigliò molto della mia “perizia” linguistica. Lo spagnolo l’ho studiato invece all’Università, e fra l’altro mi è riuscito molto facile di apprenderlo, dato anche il fatto che il dialetto della Sardegna meridionale (spesso parlato in famiglia) somiglia molto a tale idioma.
Proprio in relazione a questa sua buona conoscenza della lingua spagnola le si chiese di tradurre i primi discorsi tenuti da Francisco Franco, nel libro edito nel 1940 ed intitolato: Parole del Caudillo: discorsi, allocuzioni e proclami, messaggi, dichiarazioni alla stampa del generalissimo Franco dall’aprile al settembre 1939 (con prefazione di Galeazzo Ciano)?
L’allora presidente dell’INFPS Bruno Biagi era, allo stesso tempo, anche presidente della casa editrice Le Monnier (la quale editò il libro da Lei citato), e mi chiese lui di tradurre tutti i discorsi che Franco andava pronunciando via via che “riconquistava” la Spagna. Fu il primo (e rimane, a tutt’oggi, l’unico) libro con cui si rende conoscibile, in italiano, il pensiero ed i discorsi del Caudillo. Peraltro, quelli che ho tradotto nel 1940, non sono nemmeno di eccezionale valore culturale, date le circostanze in cui furono perlopiù pronunciati: conquistando le città, infatti, Franco era uso affacciarsi nei principali balconi e piazze dei vari capoluoghi e, con l’enfasi di cui era capace, si rivolgeva alle folle.
Subito dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, Lei fu subito mobilitato?
Nel giugno del 1940 fui immediatamente richiamato e, con la mia Divisione Fanteria “Arezzo”, ci fecero restare dapprima a Monopoli e poi a Bari, per inviarci infine sul fronte greco-albanese. Nell’agosto 1940 mi trovavo quindi a Scutari, con il grado di Tenente dell’Esercito. In seguito giunse da Roma un dispaccio in cui, dato che risultava imminente l’attacco alla Grecia, si chiedeva agli ufficiali di complemento di scegliere se congedarsi od optare di rimanere in servizio, quest’ultima scelta equiparando il militare di leva a quello volontario. Optai per restare. Ciò al fine di, come venne trascritto anche nella motivazione alla medaglia di Bronzo al Valor Militare assegnatami “sul campo”, a Guru i Regjanit nel dicembre 1940, “partecipare attivamente ad operazioni di guerra”.
A quale incarico fu assegnato, una volta deciso di rimanere in servizio?
Fin dai primi tempi in cui mi trovavo a Scutari, il Comandante della Divisione, esaminando a fondo il mio fascicolo personale, nonostante sul luogo vi fossero ufficiali in servizio permanente, forse tenendo conto anche del mio curriculum di giornalista e scrittore, decise subito di nominarmi “Capo della Sezione Informazioni di Comando di Grande Unità”. In pratica, si trattava di essere responsabile ed organizzare tutta l’attività di spionaggio e controspionaggio.
Come andò invece a Guru i Regjanit, dove il 3 dicembre 1940 si meritò la Medaglia di Bronzo?
Io, il mio “bronzino”, me lo sono guadagnato abbondantemente. Sono infatti uno di quelli che, durante la seconda guerra mondiale, il fronte l’ha assaggiato, e non da lontano! Nell’ambito della mia Divisione sono stato peraltro l’unico decorato, anche perché sono stato l’unico messo nella concreta condizione di essere “esposto”. Dunque, nell’inverno del ‘40, sempre sul fronte greco-albanese, purtroppo, anziché avanzare ci fermammo. Il Comandante della mia Divisione si fermò quindi a 17 km dalla linea del fuoco. Nell’imperversare di un improvviso attacco nemico, mi dovetti allora portare in prima linea, per percorrere la “fronte” di un settore reggimentale al fine di rilevare la situazione avversaria. Il mitragliere greco cercò ripetutamente ma invano di colpirmi. Come venne poi trascritto al mio riguardo nella motivazione alla medaglia di Bronzo: “Coinvolto nel combattimento, con sana iniziativa riconduceva reparti al combattimento ripieganti sotto la soverchiante pressione avversaria, restava poi a fianco del comandante del settore fino al termine del combattimento, dando tutto l’ausilio della sua azione”. Rimasi poi per circa 5 mesi immerso nel fango, con il mio l’attendente Donato Lombardi e pochi altri, in una baita sulla linea del fronte greco. Eravamo tutti pieni di pidocchi. La Divisione andò poi a riposo, essendo sostituita da un’altra ma, scoppiata l’emergenza Jugoslavia, fu impiegata lì.
Fu sul fronte jugoslavo che entrò quindi in contatto con l’esercito tedesco, e si recò infine in Germania al suo seguito?
Ci “ricongiungemmo” con i tedeschi sulle rive del lago di Ocrida. Da allora, 1941, data la mia approfondita conoscenza della lingua, feci da interprete per le truppe della Wehrmacht, che seguii in seguito nel ripiegamento entro i confini germanici.
Cosa fece dunque in Germania dopo l’8 settembre?
Affiancai, dopo l’8 settembre, un capitano austriaco (allora, come noto, le Forze Armate dei due paesi di lingua e cultura tedesca erano unificate). Alcuni militari italiani lì sbandati, infatti, in quel particolare frangente, si unirono alla Wermacht in ritirata dai Balcani, ed io e l’austriaco comandavamo appunto insieme tale, come allora era stato denominato, “Comando di Presa ed Assistenza”.
Dopo la resa quale sorte le toccò nella Germania occupata dagli Alleati?
Una volta trasferitici in Germania, rimasi lì sino alla fine della guerra, allorquando fui “trattenuto” dal 414° Gruppo artiglieria di campagna americano. Mi trovavo infatti, nel ’45, in Baviera, dove le truppe statunitensi andavano rastrellando tutti gli sbandati. Gli americani ci comprendevano ben poco e, anche in questa circostanza, grazie alle mie conoscenze linguistiche, presi ad assistere due Ufficiali americani a districarsi in questo difficile compito. Stetti quindi, per ben 6 mesi e vestito da soldato americano, in una Batteria del loro esercito.
Quando tornò in Italia?
Tornai in patria il 31 dicembre 1945, dopo aver lavorato anche per un po’ di tempo nella segheria
L’allora presidente dell’INFPS Bruno Biagi era, allo stesso tempo, anche presidente della casa editrice Le Monnier (la quale editò il libro da Lei citato), e mi chiese lui di tradurre tutti i discorsi che Franco andava pronunciando via via che “riconquistava” la Spagna. Fu il primo (e rimane, a tutt’oggi, l’unico) libro con cui si rende conoscibile, in italiano, il pensiero ed i discorsi del Caudillo. Peraltro, quelli che ho tradotto nel 1940, non sono nemmeno di eccezionale valore culturale, date le circostanze in cui furono perlopiù pronunciati: conquistando le città, infatti, Franco era uso affacciarsi nei principali balconi e piazze dei vari capoluoghi e, con l’enfasi di cui era capace, si rivolgeva alle folle.
Subito dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, Lei fu subito mobilitato?
Nel giugno del 1940 fui immediatamente richiamato e, con la mia Divisione Fanteria “Arezzo”, ci fecero restare dapprima a Monopoli e poi a Bari, per inviarci infine sul fronte greco-albanese. Nell’agosto 1940 mi trovavo quindi a Scutari, con il grado di Tenente dell’Esercito. In seguito giunse da Roma un dispaccio in cui, dato che risultava imminente l’attacco alla Grecia, si chiedeva agli ufficiali di complemento di scegliere se congedarsi od optare di rimanere in servizio, quest’ultima scelta equiparando il militare di leva a quello volontario. Optai per restare. Ciò al fine di, come venne trascritto anche nella motivazione alla medaglia di Bronzo al Valor Militare assegnatami “sul campo”, a Guru i Regjanit nel dicembre 1940, “partecipare attivamente ad operazioni di guerra”.
A quale incarico fu assegnato, una volta deciso di rimanere in servizio?
Fin dai primi tempi in cui mi trovavo a Scutari, il Comandante della Divisione, esaminando a fondo il mio fascicolo personale, nonostante sul luogo vi fossero ufficiali in servizio permanente, forse tenendo conto anche del mio curriculum di giornalista e scrittore, decise subito di nominarmi “Capo della Sezione Informazioni di Comando di Grande Unità”. In pratica, si trattava di essere responsabile ed organizzare tutta l’attività di spionaggio e controspionaggio.
Come andò invece a Guru i Regjanit, dove il 3 dicembre 1940 si meritò la Medaglia di Bronzo?
Io, il mio “bronzino”, me lo sono guadagnato abbondantemente. Sono infatti uno di quelli che, durante la seconda guerra mondiale, il fronte l’ha assaggiato, e non da lontano! Nell’ambito della mia Divisione sono stato peraltro l’unico decorato, anche perché sono stato l’unico messo nella concreta condizione di essere “esposto”. Dunque, nell’inverno del ‘40, sempre sul fronte greco-albanese, purtroppo, anziché avanzare ci fermammo. Il Comandante della mia Divisione si fermò quindi a 17 km dalla linea del fuoco. Nell’imperversare di un improvviso attacco nemico, mi dovetti allora portare in prima linea, per percorrere la “fronte” di un settore reggimentale al fine di rilevare la situazione avversaria. Il mitragliere greco cercò ripetutamente ma invano di colpirmi. Come venne poi trascritto al mio riguardo nella motivazione alla medaglia di Bronzo: “Coinvolto nel combattimento, con sana iniziativa riconduceva reparti al combattimento ripieganti sotto la soverchiante pressione avversaria, restava poi a fianco del comandante del settore fino al termine del combattimento, dando tutto l’ausilio della sua azione”. Rimasi poi per circa 5 mesi immerso nel fango, con il mio l’attendente Donato Lombardi e pochi altri, in una baita sulla linea del fronte greco. Eravamo tutti pieni di pidocchi. La Divisione andò poi a riposo, essendo sostituita da un’altra ma, scoppiata l’emergenza Jugoslavia, fu impiegata lì.
Fu sul fronte jugoslavo che entrò quindi in contatto con l’esercito tedesco, e si recò infine in Germania al suo seguito?
Ci “ricongiungemmo” con i tedeschi sulle rive del lago di Ocrida. Da allora, 1941, data la mia approfondita conoscenza della lingua, feci da interprete per le truppe della Wehrmacht, che seguii in seguito nel ripiegamento entro i confini germanici.
Cosa fece dunque in Germania dopo l’8 settembre?
Affiancai, dopo l’8 settembre, un capitano austriaco (allora, come noto, le Forze Armate dei due paesi di lingua e cultura tedesca erano unificate). Alcuni militari italiani lì sbandati, infatti, in quel particolare frangente, si unirono alla Wermacht in ritirata dai Balcani, ed io e l’austriaco comandavamo appunto insieme tale, come allora era stato denominato, “Comando di Presa ed Assistenza”.
Dopo la resa quale sorte le toccò nella Germania occupata dagli Alleati?
Una volta trasferitici in Germania, rimasi lì sino alla fine della guerra, allorquando fui “trattenuto” dal 414° Gruppo artiglieria di campagna americano. Mi trovavo infatti, nel ’45, in Baviera, dove le truppe statunitensi andavano rastrellando tutti gli sbandati. Gli americani ci comprendevano ben poco e, anche in questa circostanza, grazie alle mie conoscenze linguistiche, presi ad assistere due Ufficiali americani a districarsi in questo difficile compito. Stetti quindi, per ben 6 mesi e vestito da soldato americano, in una Batteria del loro esercito.
Quando tornò in Italia?
Tornai in patria il 31 dicembre 1945, dopo aver lavorato anche per un po’ di tempo nella segheria
del padre (uno dei più grossi industriali tedeschi), di un mio vecchio carissimo amico tedesco, conosciuto fin dal tempo degli scouts.
Tornò subito in contatto con Fanfani, una volta tornato in Italia?
Fanfani, appena saputo che ero ritornato, anche se ben sapeva che avevo ufficialmente aderito alla RSI, mi chiese di collaborare con la Democrazia Cristiana. Ed erano desiderosissimi di “sfruttarmi”, anche perché, come mi diceva, si aveva una grossa “carenza di intellettuali” nel partito, ed in particolare di specialisti e studiosi nel campo della previdenza e delle politiche sociali. Gli feci presente la mia scelta dopo l’8 settembre, ma lui mi disse di stare tranquillo, lasciando passare semplicemente qualche mese per poi trovare una collocazione in seno o “collateralmente” alla DC In ogni caso, nell’immediato (gennaio 1946), anche perché non avevo materialmente di che “sfamarmi”, Fanfani mi presentò all’Azione Cattolica, allora brillantemente guidata dal Luigi Gedda, per dirigere il “Fronte della Famiglia”. Si trattava di una delle tante “Opere” collegate all’AC, che aveva come specifica missione di opporsi al divorzio. Il pontefice Pio XII temeva infatti che, una volta caduto il fascismo (il quale, in qualche modo, si era reso protettore della famiglia), si sarebbero potute attivare spinte disgregatrici nella direzione di un potente indebolimento dell’istituto familiare. Il “Fronte”, particolarmente, doveva effettuare una campagna di formazione e sensibilizzazione culturale e sociale in funzione preventiva di presumibili future battaglie divorzistiche.
Quantò durò ed in cosa consistette la sua attività nel “Fronte della Famiglia”?
La Direzione centrale del “Fronte” era a Roma. Tale organismo era sostenuto dai due rami dell’AC (adulto maschile e femminile), e la sua attività consistette nella propaganda e formazione dei quadri dell’associazione nella direzione pro-famiglia ed anti-divorzio. La mia collaborazione durò per due anni dato che, una volta rifiutato definitivamente di entrare nella DC, mi trovai una collocazione lavorativa in seno a Confindustria.
Perché rifiutò di collaborare con la DC, ed invece accettò di sostenere l’allora Azione Cattolica?
Innanzitutto perché un conto è (era) l’Azione Cattolica, ed un conto era la DC In secondo luogo, perché conobbi Gedda, il quale, oltre ad essere stato nella Milizia fascista, era una persona dalle grandi capacità (peccato che in seguito non fu più utilizzato!) e, molti anni prima, mi aveva impressionato l’adunata che aveva organizzato a Roma, detta dei “berretti verdi”. Non volevo aderire alla DC perché mi sentivo molto diverso da quella gente. Era tutto un altro mondo quello che veniva al proscenio nel secondo dopoguerra, era gente che non aveva fatto la guerra. Gli allora dirigenti democristiani mi fecero tutta una serie d’offerte d’incarichi di responsabilità (e ben remunerati) in enti ed aziende del “sottogoverno” e del parastato, aspettando però (anche se la cosa non era esplicitamente richiesta) che io mi iscrivessi al partito. Ma io ero stato un militare del Regio esercito (votai peraltro per la monarchia nel ’46, sebbene avessi aderito alla Repubblica Sociale ma, tutti quanti noi di quella generazione, ci sentimmo di votare in questo senso al momento del referendum istituzionale), moltissimi dei miei “compagni di fede” erano morti. Mi sembrò di tradirli “mischiandomi” con tutta quella gente che non aveva fatto la guerra e che era espressione di tutto un altro mondo! Insomma, mi sentivo molto diverso da loro, io avevo il mio “bronzino”. Inoltre non volli avvicinarmi alla politica anche perché il riemergere della mia passata militanza fascista mi avrebbe fatto tribolare.
Per quale partito della “Prima repubblica” quindi lei simpatizzava?
Andavo volentieri a sentire i discorsi ed i comizi del MSI, e mi sentivo legato a questo partito.
Quindi, in un certo senso, rimase “coerente” a certe sue scelte politiche ed ideali, anche se questo le costò una sicura carriera e notevoli profitti personali…
Qualche volta, soprattutto pensando alla mia famiglia, mi capita di interrogarmi se non abbia fatto male dopo la guerra a conservare il mio “rigore”. Qualche volta mi pento di come mi comportai. Se mi fossi messo dietro a Fanfani sarei diventato un potente notabile democristiano…
A proposito di tribolazioni, lei fu anche soggetto a provvedimenti di “epurazione”?
Proprio al fine di non essere soggetto a tali provvedimenti, con la conseguente sequela di processi ed interrogatori, alla fine del 1945, diedi spontaneamente le dimissioni dall’allora divenuto INPS e nel 1947 (anno in cui si concluse quindi la mia collaborazione a tempo pieno con il “Fronte della Famiglia”; rapporti di tipo personale proseguirono anche dopo, ma non più sotto il profilo professionale), grazie anche all’intervento di un mio ex compagno di Università, entrai in Confindustria. Ero nel settore della politica economica, il mio capoufficio era un certo Galvani. Mi occupavo per l’associazione di fornire consulenza ed aiutare anche a livello burocratico le industrie, intervenendo a questo fine anche presso i ministeri economici.
Tornò in seguito nell’INPS?
Si, mi richiamarono nell’Istituto nel 1952 e lì rimasi sino al 1968, quando fui pensionato con la qualifica di Capo Servizio. Ad ogni modo, non dimentico la mia fruttuosa esperienza in Confindustria. E’ stato il migliore ambiente di lavoro che io abbia mai conosciuto. Fui valorizzato e tratto assai bene, con l’allora presidente Angelo Costa.
Ebbe compiti prevalentemente di studio, una volta riammesso nell’Istituto?
Direttore di “Previdenza Sociale”, il bimestrale organo ufficiale dell’INPS, era per statuto il presidente dell’Istituto. Fui capo redattore di tale testata dal 1957 al 1968 ma, in pratica, anche prima tale rivista la facevo quasi tutta io. Provai rammarico quando, nel 1990, seppi della sua soppressione. Durante questo periodo scrissi anche per la rivista dell’istituto infortuni (INAIL) e dell’INAM.
Come nacque il suo saggio del 1958, pubblicato su “Previdenza Sociale”, intitolato La sicurezza sociale nelle dichiarazioni del Pontefice Pio XII?
Era in quel periodo presidente dell’Istituto Angelo Corsi, che allora era socialdemocratico, ma persona di molto buon senso. Mi permise di andare a spulciare tutte le dichiarazioni e documenti di Pio XII in materia di sicurezza sociale, la cui concezione di una previdenza “personalizzata” andava a cozzare con gli indirizzi “collettivistici”socialisti. Nonostante fosse, per appartenenza partitica contro tali posizioni, Corsi fu molto contento dello studio, apprezzando in modo particolare che il Papa promuovesse una sicurezza sociale che non fosse meramente “cieca e livellatrice”, ma nascesse anche dalla “buona volontà” degli individui e delle famiglie.
Ho notato che anche in suoi saggi successivi, pubblicati sulla medesima Rivista (ad esempio Lo Stato assistenziale in una polemica tra cattolici inglesi del 1960, e L’enciclica Mater et Magistra del 1961) Lei risulta come attento cultore della Dottrina Sociale della Chiesa…
Ho sempre letto con attenzione le encicliche sociali e, del resto, fin dal mio primo ingresso all’INPS, ho sempre studiato attentamente tutti gli studi sulle tematiche sociali e familiari pubblicati di volta in volta su “Civiltà cattolica”. A questo proposito, ho sempre nutrito qualche perplessità nel definire l’insegnamento sociale della Chiesa una “dottrina”. A mio avviso si dovrebbe parlare, più propriamente, di un “magistero”.
Dopo il pensionamento nel 1968 continuò a lavorare a livello intellettuale?
Si, fornii consulenza a Confindustria per 3-4 anni a proposito delle questioni previdenziali, e gli fui utile in particolare per assistere le rappresentanze straniere di industriali, illustrando a tali delegazioni l’assetto previdenziale italiano.
Come nacque il suo ultimo libro La Protezione sociale del cittadino del 1962?
Fu l’allora direttore generale dell’INPS che mi chiese di preparare un “manualetto” da distribuire a tutti gli operai di un settore privato industriale.
Direttore di “Previdenza Sociale”, il bimestrale organo ufficiale dell’INPS, era per statuto il presidente dell’Istituto. Fui capo redattore di tale testata dal 1957 al 1968 ma, in pratica, anche prima tale rivista la facevo quasi tutta io. Provai rammarico quando, nel 1990, seppi della sua soppressione. Durante questo periodo scrissi anche per la rivista dell’istituto infortuni (INAIL) e dell’INAM.
Come nacque il suo saggio del 1958, pubblicato su “Previdenza Sociale”, intitolato La sicurezza sociale nelle dichiarazioni del Pontefice Pio XII?
Era in quel periodo presidente dell’Istituto Angelo Corsi, che allora era socialdemocratico, ma persona di molto buon senso. Mi permise di andare a spulciare tutte le dichiarazioni e documenti di Pio XII in materia di sicurezza sociale, la cui concezione di una previdenza “personalizzata” andava a cozzare con gli indirizzi “collettivistici”socialisti. Nonostante fosse, per appartenenza partitica contro tali posizioni, Corsi fu molto contento dello studio, apprezzando in modo particolare che il Papa promuovesse una sicurezza sociale che non fosse meramente “cieca e livellatrice”, ma nascesse anche dalla “buona volontà” degli individui e delle famiglie.
Ho notato che anche in suoi saggi successivi, pubblicati sulla medesima Rivista (ad esempio Lo Stato assistenziale in una polemica tra cattolici inglesi del 1960, e L’enciclica Mater et Magistra del 1961) Lei risulta come attento cultore della Dottrina Sociale della Chiesa…
Ho sempre letto con attenzione le encicliche sociali e, del resto, fin dal mio primo ingresso all’INPS, ho sempre studiato attentamente tutti gli studi sulle tematiche sociali e familiari pubblicati di volta in volta su “Civiltà cattolica”. A questo proposito, ho sempre nutrito qualche perplessità nel definire l’insegnamento sociale della Chiesa una “dottrina”. A mio avviso si dovrebbe parlare, più propriamente, di un “magistero”.
Dopo il pensionamento nel 1968 continuò a lavorare a livello intellettuale?
Si, fornii consulenza a Confindustria per 3-4 anni a proposito delle questioni previdenziali, e gli fui utile in particolare per assistere le rappresentanze straniere di industriali, illustrando a tali delegazioni l’assetto previdenziale italiano.
Come nacque il suo ultimo libro La Protezione sociale del cittadino del 1962?
Fu l’allora direttore generale dell’INPS che mi chiese di preparare un “manualetto” da distribuire a tutti gli operai di un settore privato industriale.