I fatti:
A Roma, lo scorso 8 settembre, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, nel corso del suo intervento in occasione delle commemorazioni della battaglia di Porta san Paolo, episodio culminante della difesa di Roma contro le truppe tedesche, faceva le seguenti affermazioni:
“…Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia…”.
Purtroppo non è stato possibile, neppure nel sito istituzionale del ministero così come in quello del ministro, rinvenire il testo completo dell’intervento. Non siamo quindi in grado, se non per sommari resoconti di stampa, sapere con esattezza in che contesto Ingazio La Russa abbia pronunciato le parole sopra riportate, sulle quali si è innescata una – assai prevedibile – polemica fra giornalisti, politici e storici di ogni parte politica.
Abbiamo deciso di lasciar “decantare” per alcune settimane questi fatti prima di occuparcene; abbiamo infatti constatato anche in questo caso come i temi più profondi e importanti della nostra cultura e della nostra storia recente si riducano ormai a dei battibecchi polemici che durano lo spazio di un istante. Poi gli accademici tornano nei dipartimenti, i giornalisti alla cronaca e i politici ai loro doveri istituzionali. In questa “distrazione di massa” rispetto a fatti e questioni per noi invece di fondamentale rilievo, abbiamo deciso di coinvolgere alcuni studiosi in una tavola rotonda nel corso della quale riflettere su quanto espresso in modo così inequivocabile dal ministro della Difesa.
Abbiamo chiesto quindi agli amici che partecipano al dibattito, che giudizio dare di queste espressioni, specie alla luce dell’occasione in cui le parole sono state pronunciate, ossia nel corso di una cerimonia – quella di porta San Paolo a Roma – nel corso della quale per decenni gli oratori hanno sottolineato il sacrifico delle forze armate in difesa di scelte del tutto diverse da quelle rammentate da Ignazio La Russa.
VINCENZO PINTO: "le parole di Ignazio La Russa sono molto importanti, perché dimostrano come la Repubblica Italiana nata nel 1948 fu in realtà l’esito di una decisione dei paesi vincitori della guerra, in special modo delle truppe anglo-americane. I sacrifici delle forze armate o delle truppe partigiane non sono sentiti da molti italiani come l’espressione dei propri sentimenti (patriottici) più intimi. Lo stesso credo che valga, a parti invertite, per coloro che scelsero di restare fedeli all’utopia dell’ordine nero. L’assenza di sentimento patriottico è solo una conseguenza di tutto ciò che vi è a monte, ovvero la mancanza di profonda consapevolezza per ciò che l’Italia era ed è diventata tutt’oggi: un paese d’irresponsabili piagnoni. Il panorama piuttosto desolante che si staglia di fronte ai nostri occhi, caratterizzato da assenza di senso civico, da partigianeria della peggior risma viene talora inghirlandato con gli interventi di coloro che ringraziano gli eroi che hanno detto di no ai nemici della libertà. È lecito chiederci che cosa sia il vero eroismo: combattere sui monti per difendere l’idea di libertà? Oppure lottare quotidianamente perché la giustizia trionfi sempre quaggiù in pianura?
Ignazio La Russa ha espresso quello che è il comune sentire di molti italiani di oggi, i quali non sono contenti della classe dirigente che ha governato per tanti decenni sostenendo valori che non sono stati in grado di realizzare nella pratica. Mi si obietterà che i valori sono unicamente stelle fisse del firmamento celeste e che poco o nulla servono a spiegare la dura realtà quotidiana. Mi si obietterà anche che l’establishment riflette pregi e difetti della base. Mi si obietterà anche che l’obiettivo di La Russa era quello di screditare una parte cospicua delle forze partigiane comuniste che combatterono soltanto strumentalmente (chi può negarlo?) per la fine del progetto di “ordine nuovo” (nero) europeo. Non credo che le parole di La Russa siano unicamente l’espressione di un malessere di una parte politica, che si è sentita privata per troppi anni della propria fetta di torta e cerca di re-integrarsi nella storia nazionale. Credo piuttosto che siano un monito contro coloro che continuano a parlare di democrazia agendo da anti-democratici, che parlano di rispetto del proprio prossimo trincerandosi dietro le cosiddette circostanze della vita, che parlano di rispetto soltanto fra presunti pari e che discriminano coloro che non la pensano come loro. A tutte queste persone – e non tanto agli “eroici caduti” della guerra – si rivolge il monito di La Russa: il tempo delle chiacchiere vuote è finito".
RICCARDO CAPORALE: "Come ho già anticipato sulla mailing list Sissco penso che il ministro abbia fatto detto qualcosa di non richiesto e, soprattutto, di non dovuto. Era infatti lì per ricordare il sacrificio di quella parte di militari che resistettero ai tedeschi.
Il dibattito storico merita un'altra sede. La cultura della destra (post?) fascista rincorre i miti di sempre: l'onore reso dagli Alleati, la “buona fede” dal “loro punto di vista”. Peccato che il “loro punto di vista” non includesse una buona parte di italiani. Questo è un punto fermo che il ministro, volutamente a parer mio, ignora. Ma nelle sue parole vedo anche la debolezza di un sapere storico che, ancora, non è riuscito a creare un forte dibattito nell'opinione pubblica verso una storia condivisa (non parlo di memorie perché ognuno ha la propria) con valori condivisi, da sinistra a destra.
A mio parere questa è una operazione resa molto più difficile a destra, causa la vicinanza, ideale e no, al mondo salotino nel dopoguerra".
LEONARDO RAITO: "Personalmente credo che sia un segnale di coscienza civile procedere a un tentativo di confronto democratico per costruire una memoria condivisa dei fatti che hanno riguardato l’esperienza della guerra civile. Pur essendo la mia estrazione culturale antifascista, ed essendo portato a rifiutare ogni forma di totalitarismo e di fascismo, devo richiamare l’attenzione sul tema delle motivazioni. Chi e perché aderì alla Repubblica Sociale? Chi e perché salì sulle montagne e decise di intraprendere la lotta di resistenza? Provare maggior simpatia per i secondi piuttosto che per i primi può essere un sentimento umano, ma di certo è talmente soggettivo che non deve inficiare il giudizio di uno storico.
L’analisi poi non tiene in giusto conto dell’immediato dopoguerra. Quanti uomini, che prima furono fascisti convinti, finirono nei ranghi dei partiti di sinistra? Quanti ingrossarono le fila dei partigiani che scendevano dai monti nelle città, magari mettendo al collo un fazzoletto rosso? Nella sola mia provincia (Rovigo), ho raccolto informazioni su casi di importanti dirigenti del PCI che furono prima fascisti. Un libro pubblicato qualche anno fa da un editore torinese aveva denunciato pubblicamente la capacità degli italiani di cambiare bandiera a seconda di dove tirava il vento. Credo che passeranno anni prima che in Italia si possa attivare un sereno dibattito su temi che toccano la sensibilità pubblica. Occorrerebbe un ciclone positivo, in grado di rovesciare la nostra mediocre classe politica".
GIUSEPPE BRIENZA: "La vicenda evocata da La Russa è particolarmente delicata anche perché legata alla pagina dolorosa della morte del Tenente colonnello Giovanni Alberto Bechi Luserna (1904-1943) che, nel tentativo di forzare un posto di blocco stradale costituito dal suo ex reparto paracadutisti, “ammutinato”, il “Nembo” appunto, venne colpito a morte da una raffica di mitragliatrice insieme ai due carabinieri della scorta. Alla memoria dell’ufficiale spoletano fu data poi, per questo episodio, la medaglia d’oro al valor militare con una motivazione unilaterale che riporta: “caduto in mezzo a coloro che aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell’onore”.
A oltre sessant’anni dalla “morte della patria” sarebbe però tempo, a mio avviso, di chiudere una volta per tutte il lunghissimo “secondo dopoguerra”, avviandoci in spirito di riconciliazione nazionale a soluzioni come quelle realizzate, ormai anni or sono, per altri episodi e militari caduti in quei tragici momenti della “guerra fratricida” 1943-45. Mi riferisco, per citare uno dei casi più recenti, alla serietà dimostrata verso i marò del Battaglione “Barbarigo” caduti per mano Alleata al momento dello sbarco di Anzio. Nel 1993, per alcuni di essi, fu realizzato nella vicina Nettuno un “Campo della memoria”, riconosciuto nel 2000 dal Ministero della Difesa, fra l’altro, con la sua ammissione all’OnorCaduti. Pochi anni dopo, il 16 giugno 2005, ai resti dei 7 caduti presenti nel “Campo” fin dall’inizio, si sono aggiunte le salme di altri 65 militari della “X MAS” uccisi ad Anzio. Le 65 piccole bare arrivarono a Nettuno dal Verano a bordo di 3 camion militari, ricevendo gli onori di un picchetto di soldati dell’Esercito e la benedizione di un Ordinario militare. I rappresentanti delle associazioni di partigiani (cfr. Un cimitero per la X Mas. I partigiani: li rispettiamo, in Corriere della sera, 16 giugno 2005) e gli storici più accreditati dell’antifascismo come Nicola Tranfaglia (cfr. Tranfaglia: è giusto avere memoria dei morti, in Corriere della sera, 16 giugno 2005), allora, approvarono tutto ciò, perché allora non riconoscere anche a quelli della “Nembo” l’onore delle armi (e della memoria)? Forse perché al governo ora ci sono rappresentanti della destra che, in un modo o nell’altro, sono avvertiti come ricollegati ai “vinti” ed alle loro memorie?
Quelle memorie rimandano invece all’Italia intera che, ancora oggi evidentemente, attende di rialzarsi forte delle sue radici ritornando ad essere un paese unito e protagonista del suo futuro".
ANDREA ROSSI: "innanzitutto il ministro, forse suggestionato dalla giovanile lettura dei ponderosi volumi di Giorgio Pisanò, poteva scegliere meglio il reparto a cui dedicare il commosso omaggio della propria coscienza. Il “Nembo”, infatti, era sul fronte di Anzio poiché proprio nei giorni successivi all’8 settembre ricordato a Porta San Paolo aveva prestato giuramento di fedeltà ad Adolf Hitler, fatto rivendicato orgogliosamente dal carismatico comandante del reparto, Mario Rizzatti, il quale in una lettera a Benito Mussolini sosteneva che la svastica era un simbolo più antico e glorioso dell’”etrusco fascio littorio”. Una gaffe rivelatrice di ulteriori e inconfessabili nostalgie? Non lo crediamo. In realtà i simboli ed i richiami espressi da La Russa sono quelli classici del cultura missina e di conseguenza fanno inevitabilmente parte del “patrimonio genetico” della generazione che oggi è ai vertici di Alleanza Nazionale. Ignorare questo che è un dato di fatto, e come tale secondo noi andrebbe preso, ci pare davvero una imperdonabile miopia. Almeno due generazioni di italiani si sono succedute nel paese, e occorre accettare l’idea che una parte consistente della nazione si rivede, in tutto o in parte, nelle posizioni espresse dal ministro, dal suo partito e dal governo italiano. Se gli intellettuali del nostro paese fossero meno provinciali, probabilmente si sarebbero accorti, buoni ultimi, che ovunque il dibattito fra storici mette e rimette in discussione l’interpretazione del passato. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo, le granitiche certezze di una certa storiografia e memorialistica di impronta marxista si sono sciolte in buona parte del continente; dai paesi baltici, alla Slovenia, all’Ucraina, ci si interroga e si certa di guardare in modo critico agli eventi del novecento. L’equivoco per cui non tutti coloro che si opponevano ai nazisti volevano la democrazia appare superato dagli intellettuali di buona parte d’Europa, anche se residue sacche di studiosi che considerano nel fondo del loro cuore l’unione sovietica staliniana un baluardo di libertà e giustizia sociale si annidano ancora in diversi atenei dell’UE.
Occorrerà prima o poi che qualcuno avverta questi “ultimi giapponesi” della fine della stagione in cui, come diceva il cantautore Francesco de Gregori, la storia dava torto e dava ragione. La storia, come sosteneva sbeffeggiato oltre trent’anni fa Renzo de Felice, non esprime giudizi; semmai lo fanno gli storici, che come tutti gli esseri umani sbagliano, ci azzeccano e – se sono onesti – ammettono i propri errori, mettendosi sempre in discussione.
A Roma, lo scorso 8 settembre, il ministro della Difesa Ignazio La Russa, nel corso del suo intervento in occasione delle commemorazioni della battaglia di Porta san Paolo, episodio culminante della difesa di Roma contro le truppe tedesche, faceva le seguenti affermazioni:
“…Farei un torto alla mia coscienza se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia…”.
Purtroppo non è stato possibile, neppure nel sito istituzionale del ministero così come in quello del ministro, rinvenire il testo completo dell’intervento. Non siamo quindi in grado, se non per sommari resoconti di stampa, sapere con esattezza in che contesto Ingazio La Russa abbia pronunciato le parole sopra riportate, sulle quali si è innescata una – assai prevedibile – polemica fra giornalisti, politici e storici di ogni parte politica.
Abbiamo deciso di lasciar “decantare” per alcune settimane questi fatti prima di occuparcene; abbiamo infatti constatato anche in questo caso come i temi più profondi e importanti della nostra cultura e della nostra storia recente si riducano ormai a dei battibecchi polemici che durano lo spazio di un istante. Poi gli accademici tornano nei dipartimenti, i giornalisti alla cronaca e i politici ai loro doveri istituzionali. In questa “distrazione di massa” rispetto a fatti e questioni per noi invece di fondamentale rilievo, abbiamo deciso di coinvolgere alcuni studiosi in una tavola rotonda nel corso della quale riflettere su quanto espresso in modo così inequivocabile dal ministro della Difesa.
Abbiamo chiesto quindi agli amici che partecipano al dibattito, che giudizio dare di queste espressioni, specie alla luce dell’occasione in cui le parole sono state pronunciate, ossia nel corso di una cerimonia – quella di porta San Paolo a Roma – nel corso della quale per decenni gli oratori hanno sottolineato il sacrifico delle forze armate in difesa di scelte del tutto diverse da quelle rammentate da Ignazio La Russa.
VINCENZO PINTO: "le parole di Ignazio La Russa sono molto importanti, perché dimostrano come la Repubblica Italiana nata nel 1948 fu in realtà l’esito di una decisione dei paesi vincitori della guerra, in special modo delle truppe anglo-americane. I sacrifici delle forze armate o delle truppe partigiane non sono sentiti da molti italiani come l’espressione dei propri sentimenti (patriottici) più intimi. Lo stesso credo che valga, a parti invertite, per coloro che scelsero di restare fedeli all’utopia dell’ordine nero. L’assenza di sentimento patriottico è solo una conseguenza di tutto ciò che vi è a monte, ovvero la mancanza di profonda consapevolezza per ciò che l’Italia era ed è diventata tutt’oggi: un paese d’irresponsabili piagnoni. Il panorama piuttosto desolante che si staglia di fronte ai nostri occhi, caratterizzato da assenza di senso civico, da partigianeria della peggior risma viene talora inghirlandato con gli interventi di coloro che ringraziano gli eroi che hanno detto di no ai nemici della libertà. È lecito chiederci che cosa sia il vero eroismo: combattere sui monti per difendere l’idea di libertà? Oppure lottare quotidianamente perché la giustizia trionfi sempre quaggiù in pianura?
Ignazio La Russa ha espresso quello che è il comune sentire di molti italiani di oggi, i quali non sono contenti della classe dirigente che ha governato per tanti decenni sostenendo valori che non sono stati in grado di realizzare nella pratica. Mi si obietterà che i valori sono unicamente stelle fisse del firmamento celeste e che poco o nulla servono a spiegare la dura realtà quotidiana. Mi si obietterà anche che l’establishment riflette pregi e difetti della base. Mi si obietterà anche che l’obiettivo di La Russa era quello di screditare una parte cospicua delle forze partigiane comuniste che combatterono soltanto strumentalmente (chi può negarlo?) per la fine del progetto di “ordine nuovo” (nero) europeo. Non credo che le parole di La Russa siano unicamente l’espressione di un malessere di una parte politica, che si è sentita privata per troppi anni della propria fetta di torta e cerca di re-integrarsi nella storia nazionale. Credo piuttosto che siano un monito contro coloro che continuano a parlare di democrazia agendo da anti-democratici, che parlano di rispetto del proprio prossimo trincerandosi dietro le cosiddette circostanze della vita, che parlano di rispetto soltanto fra presunti pari e che discriminano coloro che non la pensano come loro. A tutte queste persone – e non tanto agli “eroici caduti” della guerra – si rivolge il monito di La Russa: il tempo delle chiacchiere vuote è finito".
RICCARDO CAPORALE: "Come ho già anticipato sulla mailing list Sissco penso che il ministro abbia fatto detto qualcosa di non richiesto e, soprattutto, di non dovuto. Era infatti lì per ricordare il sacrificio di quella parte di militari che resistettero ai tedeschi.
Il dibattito storico merita un'altra sede. La cultura della destra (post?) fascista rincorre i miti di sempre: l'onore reso dagli Alleati, la “buona fede” dal “loro punto di vista”. Peccato che il “loro punto di vista” non includesse una buona parte di italiani. Questo è un punto fermo che il ministro, volutamente a parer mio, ignora. Ma nelle sue parole vedo anche la debolezza di un sapere storico che, ancora, non è riuscito a creare un forte dibattito nell'opinione pubblica verso una storia condivisa (non parlo di memorie perché ognuno ha la propria) con valori condivisi, da sinistra a destra.
A mio parere questa è una operazione resa molto più difficile a destra, causa la vicinanza, ideale e no, al mondo salotino nel dopoguerra".
LEONARDO RAITO: "Personalmente credo che sia un segnale di coscienza civile procedere a un tentativo di confronto democratico per costruire una memoria condivisa dei fatti che hanno riguardato l’esperienza della guerra civile. Pur essendo la mia estrazione culturale antifascista, ed essendo portato a rifiutare ogni forma di totalitarismo e di fascismo, devo richiamare l’attenzione sul tema delle motivazioni. Chi e perché aderì alla Repubblica Sociale? Chi e perché salì sulle montagne e decise di intraprendere la lotta di resistenza? Provare maggior simpatia per i secondi piuttosto che per i primi può essere un sentimento umano, ma di certo è talmente soggettivo che non deve inficiare il giudizio di uno storico.
L’analisi poi non tiene in giusto conto dell’immediato dopoguerra. Quanti uomini, che prima furono fascisti convinti, finirono nei ranghi dei partiti di sinistra? Quanti ingrossarono le fila dei partigiani che scendevano dai monti nelle città, magari mettendo al collo un fazzoletto rosso? Nella sola mia provincia (Rovigo), ho raccolto informazioni su casi di importanti dirigenti del PCI che furono prima fascisti. Un libro pubblicato qualche anno fa da un editore torinese aveva denunciato pubblicamente la capacità degli italiani di cambiare bandiera a seconda di dove tirava il vento. Credo che passeranno anni prima che in Italia si possa attivare un sereno dibattito su temi che toccano la sensibilità pubblica. Occorrerebbe un ciclone positivo, in grado di rovesciare la nostra mediocre classe politica".
GIUSEPPE BRIENZA: "La vicenda evocata da La Russa è particolarmente delicata anche perché legata alla pagina dolorosa della morte del Tenente colonnello Giovanni Alberto Bechi Luserna (1904-1943) che, nel tentativo di forzare un posto di blocco stradale costituito dal suo ex reparto paracadutisti, “ammutinato”, il “Nembo” appunto, venne colpito a morte da una raffica di mitragliatrice insieme ai due carabinieri della scorta. Alla memoria dell’ufficiale spoletano fu data poi, per questo episodio, la medaglia d’oro al valor militare con una motivazione unilaterale che riporta: “caduto in mezzo a coloro che aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell’onore”.
A oltre sessant’anni dalla “morte della patria” sarebbe però tempo, a mio avviso, di chiudere una volta per tutte il lunghissimo “secondo dopoguerra”, avviandoci in spirito di riconciliazione nazionale a soluzioni come quelle realizzate, ormai anni or sono, per altri episodi e militari caduti in quei tragici momenti della “guerra fratricida” 1943-45. Mi riferisco, per citare uno dei casi più recenti, alla serietà dimostrata verso i marò del Battaglione “Barbarigo” caduti per mano Alleata al momento dello sbarco di Anzio. Nel 1993, per alcuni di essi, fu realizzato nella vicina Nettuno un “Campo della memoria”, riconosciuto nel 2000 dal Ministero della Difesa, fra l’altro, con la sua ammissione all’OnorCaduti. Pochi anni dopo, il 16 giugno 2005, ai resti dei 7 caduti presenti nel “Campo” fin dall’inizio, si sono aggiunte le salme di altri 65 militari della “X MAS” uccisi ad Anzio. Le 65 piccole bare arrivarono a Nettuno dal Verano a bordo di 3 camion militari, ricevendo gli onori di un picchetto di soldati dell’Esercito e la benedizione di un Ordinario militare. I rappresentanti delle associazioni di partigiani (cfr. Un cimitero per la X Mas. I partigiani: li rispettiamo, in Corriere della sera, 16 giugno 2005) e gli storici più accreditati dell’antifascismo come Nicola Tranfaglia (cfr. Tranfaglia: è giusto avere memoria dei morti, in Corriere della sera, 16 giugno 2005), allora, approvarono tutto ciò, perché allora non riconoscere anche a quelli della “Nembo” l’onore delle armi (e della memoria)? Forse perché al governo ora ci sono rappresentanti della destra che, in un modo o nell’altro, sono avvertiti come ricollegati ai “vinti” ed alle loro memorie?
Quelle memorie rimandano invece all’Italia intera che, ancora oggi evidentemente, attende di rialzarsi forte delle sue radici ritornando ad essere un paese unito e protagonista del suo futuro".
ANDREA ROSSI: "innanzitutto il ministro, forse suggestionato dalla giovanile lettura dei ponderosi volumi di Giorgio Pisanò, poteva scegliere meglio il reparto a cui dedicare il commosso omaggio della propria coscienza. Il “Nembo”, infatti, era sul fronte di Anzio poiché proprio nei giorni successivi all’8 settembre ricordato a Porta San Paolo aveva prestato giuramento di fedeltà ad Adolf Hitler, fatto rivendicato orgogliosamente dal carismatico comandante del reparto, Mario Rizzatti, il quale in una lettera a Benito Mussolini sosteneva che la svastica era un simbolo più antico e glorioso dell’”etrusco fascio littorio”. Una gaffe rivelatrice di ulteriori e inconfessabili nostalgie? Non lo crediamo. In realtà i simboli ed i richiami espressi da La Russa sono quelli classici del cultura missina e di conseguenza fanno inevitabilmente parte del “patrimonio genetico” della generazione che oggi è ai vertici di Alleanza Nazionale. Ignorare questo che è un dato di fatto, e come tale secondo noi andrebbe preso, ci pare davvero una imperdonabile miopia. Almeno due generazioni di italiani si sono succedute nel paese, e occorre accettare l’idea che una parte consistente della nazione si rivede, in tutto o in parte, nelle posizioni espresse dal ministro, dal suo partito e dal governo italiano. Se gli intellettuali del nostro paese fossero meno provinciali, probabilmente si sarebbero accorti, buoni ultimi, che ovunque il dibattito fra storici mette e rimette in discussione l’interpretazione del passato. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine del comunismo, le granitiche certezze di una certa storiografia e memorialistica di impronta marxista si sono sciolte in buona parte del continente; dai paesi baltici, alla Slovenia, all’Ucraina, ci si interroga e si certa di guardare in modo critico agli eventi del novecento. L’equivoco per cui non tutti coloro che si opponevano ai nazisti volevano la democrazia appare superato dagli intellettuali di buona parte d’Europa, anche se residue sacche di studiosi che considerano nel fondo del loro cuore l’unione sovietica staliniana un baluardo di libertà e giustizia sociale si annidano ancora in diversi atenei dell’UE.
Occorrerà prima o poi che qualcuno avverta questi “ultimi giapponesi” della fine della stagione in cui, come diceva il cantautore Francesco de Gregori, la storia dava torto e dava ragione. La storia, come sosteneva sbeffeggiato oltre trent’anni fa Renzo de Felice, non esprime giudizi; semmai lo fanno gli storici, che come tutti gli esseri umani sbagliano, ci azzeccano e – se sono onesti – ammettono i propri errori, mettendosi sempre in discussione.