lunedì 15 dicembre 2008

Buone (e cattive) letture natalizie

In fondo a destra…
Antonio Carioti, Gli orfani di Salò, Milano, Mursia, 2008

Il volume di Antonio Carioti è balzato agli onori delle cronache per un allucinante episodio di teppismo ideologico avvenuto la scorsa estate in quel di San Giuliano, quando all’autore fu impedito di presentare presso il municipio della cittadina termale pisana il suo studio sulla stagione del protagonismo giovanile dei giovani di destra nell’immediato dopoguerra.
Peccato per chi non l’ha letto (persone che immaginiamo non leggerebbero neppure le guide del Touring ove fosse riportata l’innominabile località gardesana) perché il volume rivela e raccoglie aspetti solo in parte esplorati da altri autori, in genere con taglio agiografico (su tutti rammentiamo lo studio di Nicola Rao Neofascisti! edito ormai quasi dieci anni fa da Settimo Sigillo), scoprendo un interessante tessuto di consenso che le organizzazioni giovanili e soprattutto universitarie legate al neonato MSI avevano raccolto e consolidato tra la fine degli anni ’40 ed i primi anni ’50.
Si tratta di una prima messa a punto di fatti e questioni che meritano senz’altro maggiori approfondimenti, specie per quanto riguarda il rapporto inquieto fra i giovani post-repubblichini, il partito che solo in parte li rappresentava e le altre forze politiche dell’arco costituzionale; il lavoro di Carioti ha comunque il pregio di aver esposto con prosa semplice, ma non per questo meno documentata, una storia “minore” che comunque mise in luce elementi divenuti in seguito esponenti di spicco del mondo culturale, sindacale e politico della destra italiana.

Sangue sui Balcani
Eric Gobetti, L’occupazione allegra, Roma, Carocci, 2008

Conveniamo con Giorgio Rochat quando sostiene che lo studio di Eric Gobetti sull’occupazione italiana in Jugoslavia (in realtà il lavoro copre solo una ristretta fascia del paese balcanico, a cavallo fra Dalmazia, Erzegovina e Montenegro) ha un titolo poco azzeccato, ed aggiungiamo che la definizione, in quarta di copertina, dell’autore come “giovane storico” (sic) non appare tra le più felici. Detto ciò, il lavoro ha l’innegabile pregio di essere basato su una notevole messe di documenti e rimandi bibliografici italiani e soprattutto in lingua serbo-croata che Gobetti ha reperito in un suo lungo soggiorno nella ex Jugoslavia.
L’occupazione allegra, che in realtà allegra non fu per nulla, del nostro esercito nei Balcani, fu caratterizzata da politiche eterogenee e non di rado conflittuali che misero per due anni e mezzo l’un contro l’altro il governo di Mussolini, il partito fascista, gli esponenti diplomatici che rappresentavano il regno d’Italia a Zagabria, i governanti civili delle province annesse, gli esponenti dell’esercito e quelli della milizia. In questa surreale congerie di interessi e strategie contrapposte, l’unica cosa vera erano i morti ammazzati: serbi uccisi dagli ustasci e croati per mano dei cetnici, civili passati per le armi da italiani e tedeschi perché fiancheggiatori dei partigiani di Tito o dalle forze armate dell’esercito di liberazione jugoslavo perché ritenuti collaborazionisti (e qui divergiamo dall’autore sulla vetusta questione della violenza “buona” e quella “cattiva”, o su una presunta maggiore “moralità” delle forze partigiane nel trattare i propri nemici e le popolazioni che non appoggiavano il movimento comunista). Ultimi solo per ragioni di elenco in questa non lieta rassegna sono i nostri soldati, caduti a migliaia in una guerra poco sentita e assai meno approvata, che correttamente Gobetti paragona a ciò che fu il Vietnam per gli americani.
Elencati i numerosi pregi, non mancano però consistenti difetti nella ricerca; è presente una certa superficialità nella descrizione di reparti e formazioni militari, soprattutto per quanto riguarda quelli croati e tedeschi. Inoltre lascia stupefatti che in un testo in cui vengono utilizzati elementi d’archivio croati e serbi, nonché una vasta bibliografia jugoslava inedita in Italiano, l’autore non trovi di meglio per inquadrare la delicata vicenda di Alojze Stepinac, vescovo di Zagabria, che il volume denigratorio di Marco Aurelio Rivelli L’arcivescovo del genocidio (Milano, Kaos edizioni, 1999). Purtroppo questo rientra in un certo anticlericalismo “di ritorno” che sta finendo per accecare anche gli studiosi più ragionevoli.

Deja-vù
AA. VV., La politica del terrore, stragi e violenze naziste in Emilia Romagna, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2008

Si tratta di un volume collettaneo, curato da Luciano Casali e Dianella Gagliani, che riunisce i frutti di una serie di indagini condotte a livello provinciale in tutta l’Emilia Romagna sulle stragi tedesche e fasciste nel territorio regionale.
Il risultato finale è assai eterogeneo per contenuti e risultati; assieme a contributi di notevole spessore, come quello di Carlo Gentile riguardo alla vicenda di Marzabotto, di Marco Minardi sulle fasi finali dell’occupazione tedesca a Parma e di Massimo Storchi sul Reggiano, altri lavori sono più che altro sintesi di studi precedenti, apportando poche novità al tema e una generale sensazione di deja-vu: mancano infatti ricerche capaci di dire qualcosa di nuovo, o comunque di diverso, su fatti che invece – a parer nostro – necessiterebbero di approfondimenti ben maggiori. Spiace poi constatare che lo spazio dedicato ad alcune province appaia nettamente sbilanciato rispetto ad altre, quasi che di alcune realtà ci fosse da dire quanto basta per riempire cinque paginette scarne di note: è il caso del Ferrarese, descritto dall’incolpevole Davide Guarnieri del quale poco sotto diremo.
Insomma, se questo lavoro doveva essere una sorta di risposta emiliano-romagnola alla corposa rassegna di studi pubblicati presso Carocci in collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza toscana, o al volume gemello curato sempre per L’ancora del Mediterraneo da Gianluca Fulvetti e dalla compianta Francesca Pelini (La politica del massacro: per un atlante delle stragi naziste in Toscana, Napoli, ADM, 2006), ci pare che il confronto sia piuttosto sfavorevole per le ricerche svolte al di sopra dell’Appennino.

Storie locali da riscrivere
D. Guarnieri, Il comandante Pietro – Walter Feggi e la Resistenza ferrarese, Ferrara, Corbo, 2008

Dopo una tormentata gestazione, vedono finalmente la luce le memorie di Walter Feggi, comandante partigiano nel Basso ferrarese, pubblicate grazie alla perseveranza e alla competenza di Davide Guarnieri, il quale completa l’opera con una appendice abbondante di documenti e biografie. Dall’opera emergono dettagli che gettano una luce nuova, ed in molti casi inquietante, sulla faticosa nascita, la difficile esistenza e la tragica conclusione dell’esperienza patriottica nelle zone della bonifica estense. L’analisi puntuale e dettagliata del curatore – che davvero sarebbe stata meritevole di essere inserita nell’opera collettanea dianzi commentata – mette in evidenza un elemento su tutti: se il partigiano “padano” nella vicina Romagna poteva contare sul favore e l’appoggio quasi generale del mondo contadino, cosa che consentì ad Arrigo Boldrini di portare la lotta ai fascisti in pianura già nella primavera del 1944, sopra al Reno le cose andarono assai diversamente, nonostante sessant’anni di propaganda abbiano cercato di dare a intendere il contrario.
Feggi e i suoi faticarono a trovare appoggi sicuri nelle campagne, vissero un costante isolamento e la paura di essere in qualche modo infiltrati o strumentalizzati da chi stava facendo giochi doppi o tripli alle loro spalle: memorabile la figura di Labindo Bisi, fondatore del fascio repubblicano di Berra, poi partigiano combattente, sindaco della cittadina a guerra finita e infine ucciso in circostanze misteriose nell’estate del 1945; il tentativo di “ravennizzare” il territorio ferrarese, compiuto dai comunisti romagnoli nell’autunno 1944 tramite un inviato di Boldrini, il comandante “Leo”, si risolse in un tragico fallimento. Questi condusse infatti una serie di azioni scriteriate che ebbero come unico risultato quello di condurre alla cattura decine di patrioti, diversi dei quali furono fucilati o deportati, e alla disarticolazione, all’inizio del 1945, di tutta l’attività resistenziale nella zona di Berra e Codigoro. “Leo”, vista la mala parata, scomparve prima della fine della guerra eclissandosi in modo talmente riuscito da risultare a tutt’oggi (incredibilmente) sconosciuto in tutti gli organigrammi dei partigiani ravennati, nonostante documenti e bibliografia lo citino a più riprese. Un caso in cui davvero si fa fatica a non parlare di “sbianchettamento” di tutto ciò che macchiava il blasone leggendario del partigianato romagnolo.
In conclusione Guarnieri e Feggi scrivono finalmente le prime cose serie e documentate (anzi, sarebbe meglio dire le prime cose in assoluto) sulla guerra di liberazione in una parte dell’Emilia Romagna sino ad oggi ignorata dalla grande storia. E di questo non possiamo che portare gratitudine.

Letto senza essere prevenuto
Roberto Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia, Bologna, il Mulino, 2008

Davvero non si capisce l’ostracismo con cui parte della comunità scientifica italiana ha accolto i lavori di Roberto Vivarelli successivi al suo libro autobiografico, in cui narrava la sua esperienza di giovanissimo volontario in camicia nera durante RSI. Desta una certa amarezza il fatto che il giudizio di molti critici attorno a questa raccolta di saggi editi ed inediti sul fascismo non si sia soffermato sui contenuti (i quali possono essere giudicati in modo positivo o negativo per la loro validità), ma, ancora una volta, sul “peccato originale” di non aver esternato in modo chiaro e per tempo le sue scelte di quattordicenne, cosa peraltro non vera, visto che lo studioso senese parlò urbi et orbi sulle pagine de “Il Ponte” negli anni ’50 della sua condizione di reduce di Salò.
Fatta questa precisazione, in questo volume si rinvengono diversi spunti di interesse: il fatto che il regime non produsse particolari traumi nei corpi dello stato (magistratura, burocrazia, forze armate, università, scuola) tanto che risultano numerosi – e ancor oggi poco studiati – i fattori di continuità che il fascismo ebbe con le istituzioni liberali; il “consenso lungo” che la dittatura ebbe secondo Vivarelli anche dopo l’entrata in guerra, almeno fino a che i rovesci bellici non distrussero la falsa immagine della propaganda fascista. Non meno interessante lo spunto sulla persistenza maggiore nella memoria collettiva delle stragi naziste, le quali produssero un numero di morti (circa 10.000) di quasi quattro volte inferiore alle vittime dei bombardamenti aerei alleati. Ed effettivamente ci è sempre parso ingiusto il diverso livello di ricordo fra i bambini uccisi a S. Anna di Stazzema e quelli morti (e furono decine) nella scuola di Gorla, a Milano, a causa di un bombardamento inglese nell’ottobre 1944.
Altre considerazioni appaiono meno condivisibili: a differenza dello studioso senese, riteniamo che le efferatezze dei tedeschi in Italia avevano effettivamente un’impronta di “tipicità” ideologica chiara ed evidente, e che le precedenti esperienze sul fronte russo di molti reparti della Wehrmacht e delle SS avevano largamente contribuito a far considerare tutti i civili italiani untermensch (oltre che verraeter, ovviamente). Neghiamo inoltre che la RSI, in qualche modo sia servita da “scudo” rispetto alle prepotenze naziste.
Detto ciò, le nostre sono opinioni e interpretazioni, esattamente come quelle di Vivarelli. I pregiudizi ideologici li lasciamo volentieri ad altri.