Dagli ai preti…
Massimiliano Ferrara, Ante Pavelic, il duce croato, Udine, Kappavu, 2008.
Massimiliano Ferrara, Ante Pavelic, il duce croato, Udine, Kappavu, 2008.
Massimiliano Ferrara, dottore di ricerca in storia ed istituzioni dei paesi extraeuropei, collaboratore della rivista “Limes”, dedica alla vicenda del movimento Ustascia e al suo capo, Ante Pavelic, un volume con buone intenzioni e risultati alterni. Tramite una raccolta di documenti inediti provenienti dall’archivio centrale dello stato e in particolare dal fondo “fuoriusciti croati”, l’autore fa ben comprendere come il ministero dell’Interno fascista negli anni ’30 avesse in ogni modo favorito l’aggregazione degli esuli croati più radicali attorno al Poglavnik, il duce Ustascia e il più deciso fra gli oppositori dei Karageorgevic a condurre con metodi terroristici la lotta politica. Appare da quanto sopra riportato del tutto evidente un coinvolgimento, quantomeno indiretto, del regime e delle sue strutture poliziesche nell’appoggio all’attentato che costò la vita al re Alessandro I a Marsiglia nel 1934.
Queste interessanti scoperte, comprese quelle legate all’agiata vita di Pavelic a Siena alla fine degli anni ’30, purtroppo faticano a bilanciare una scadente seconda parte dello studio. Basata quasi unicamente sui datati studi di Giacomo Scotti, la vicenda della Croazia indipendente del 1941-45 è tratteggiata in modo superficiale e spesso impreciso, specie nell’analisi delle formazioni militari (pp. 179-181). Il tono si abbassa ancor più nel finale, nel quale l’autore, dando fondo ad una rassegna di pregiudizi anticlericali, presenta come certezza il pieno appoggio del Vaticano (tutto intero, ovviamente) ai criminali di guerra in fuga dalla Jugoslavia. La tesi, invero non particolarmente originale, è suffragata more solito dalla faziosa raccolta di documenti presente nel volume di Marco Aurelio Rivelli, L’arcivescovo del genocidio, (Milano, Kaos, 1999), lavoro piuttosto datato che evidentemente continua ad essere una ingiustificata fonte di studio sul quel fosco periodo. Il livello generale della produzione di quest’ultimo autore è peraltro ben esemplificato da alcune righe, riportate da Ferrara senza alcuna riserva: “… La Santa Sede aiutò a fuggire duecento ustascia e cinquemila delinquenti nazisti (sic, n.d.a.), l’aristocrazia del crimine, fra i quali il dottor Mengele, Walter Rauff, Adolf Eichmann, Erich Priebke, Franz Stangl …” (p. 208).
Come sia possibile che un promettente studioso come Ferrara si rassegni a prendere come oro colato affermazioni apodittiche come quelle sopra riportate è mistero doloroso. Ancor più misterioso ci appare l’entusiasmo del direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo, che presenta nell’introduzione queste presunte scoperte come la “… chiara dimostrazione della collaborazione fra Vaticano e regime ustascia …” (p. IX). Addirittura.
La Jugoslavia sotto il giogo italiano
Francesco Caccamo, Luciano Monzali (a cura di), L’occupazione italiana della Jugoslavia (1941-43), Firenze, Le Lettere, 2008
Il volume raccoglie le ricerche di alcuni studiosi di storia dei Balcani nel periodo a cavallo fra la fine degli anni ’30 e la conclusione della 2° guerra mondiale.
Nel primo saggio Massimo Bucarelli si occupa con compiutezza dell’ondivaga politica estera del regime, dovuta non solo alle alterne decisioni del duce, ma anche a orientamenti spesso assai diversi del corpo diplomatico italiano, diviso fra nazionalisti che ritenevano il “regno dei croati, degli sloveni e dei serbi” un artificio nato sui tavoli di Versailles, e personale più equilibrato che vedeva il fragile stato dei Karageorgevic come un naturale alleato dell’Italia all’interno dei Balcani. La Croazia indipendente è oggetto delle precise analisi di Luciano Monzali, il quale conferma la spaccatura fra i militari del regio esercito, dai vertici alla base inclini a non tollerare le atrocità del governo di Ante Pavelic, e gli esponenti del governo civile, più attenti agli umori politici romani, o decisamente fascisti di convinzione (specie l’ambasciatore a Zagabria Raffaele Casertano, poi aderente alla RSI come larga parte dei prefetti e dei segretari federali inviati nelle zone occupate).
Francesco Caccamo, nell’esaminare l’occupazione del Montenegro rileva lo “stato confusionale” della politica estera del regime anche in territori, come quello della piccola nazione balcanica, in cui una maggiore accortezza diplomatica avrebbe potuto evitare la catastrofe della insurrezione generale avvenuta nell’estate 1941. Marco Cuzzi presenta una sintesi aggiornata dei suoi fondamentali studi sulla “Slovenia italiana”, approfondendo alcuni temi in genere ignorati o sottovalutati da altri studiosi, come il peso che ebbe l’orientamento del clero durante l’occupazione e i numerosi e partecipati movimenti nazionalisti che combatterono al fianco delle forze armate regie durante una sanguinosa guerra civile destinata a protrarsi ben oltre la dissoluzione del nostro esercito nel settembre 1943.
Luca Micheletta, nella sua esposizione delle vicende della “grande Albania” ampliata sino al Kossovo, dimostra ancora una volta l’insipienza e l’arroganza dei proconsoli mussoliniani inviati nei Balcani. Andrea Ungari descrive una ulteriore variabile presente in questo scacchiere, ossia la “diplomazia parallela” di casa Savoia, i cui obiettivi spesso non coincidevano con quelli del duce: la vicenda di Aimone di Savoia-Aosta, re (senza corona) della Croazia, è in questo senso esemplare. Anna Millo affronta senza stiracchiature agiografiche o ideologiche il tema della protezione offerta agli ebrei da parte delle autorità civili e militari italiane 1941-43, mentre Maria Teresa Giusti compie una carrellata sulle tendenze storiografiche inerenti la nostra occupazione nei Balcani.
In conclusione ci troviamo di fronte a un volume che non può mancare nella biblioteca degli studiosi più attenti alla storia della Jugoslavia nel corso del secondo conflitto mondiale.
Alpini di Salò nel Goriziano
Carlo Cucut, Penne nere sul confine orientale, Milano, Marvia, 2008
Il reggimento alpini “Tagliamento”, comandato dal colonnello Ermacora Zuliani, fu uno dei reparti della RSI sui cui maggiormente gravò il peso della lotta antipartigiana fra il 1943 ed il 1945 nella parte orientale del Friuli. Il lavoro di Carlo Cucut, già autore di una opera d’insieme sulle forze armate di Salò, porta alla luce le vicende di questa formazione, avvalendosi di documenti e testimonianze in gran parte inedite, come il diario storico del reparto e i ricordi di diversi reduci dell’unità. Completa lo studio una ricca appendice fotografica, composta da materiale anch’esso mai in precedenza pubblicato e di grande interesse iconografico.
Accanto a questi indubbi lati positivi, il lavoro presenta le consuete carenze presenti in tutte le agiografie dei reparti della RSI, mancanze che non sono legate a quanto viene presentato (come il dettaglio della composizione dei presidi del reggimento nel corso del 1944) ma in quello che non viene narrato: le rappresaglie, le fucilazioni (che pure ci furono) e le conseguenze che ebbe la guerriglia senza tregua del “Tagliamento” sui civili sloveni. C’è poi la rappresentazione di comodo della Venezia Giulia di allora, dipinta come l’estrema propaggine dell’Italia di Mussolini e antemurale della Jugoslavia titina, quando è cosa nota che il duce governava (e neppure troppo) sino ai dintorni di Treviso. La Gorizia-Görz-Gorica attorno a cui si svolge la storia del reggimento era invece uno dei capoluoghi dell’Adriatisches Küstenland, zona di operazioni con un governatore nazista, il gauleiter Friedrich Reiner ed un feroce capo della polizia, Odilo Globocnik, già protagonista indiscusso dello sterminio degli ebrei polacchi.
Quest’ultimo era l’autorità suprema a cui rispondeva Zuliani, così come tutti i comandanti delle altre formazioni collaborazioniste italiane (i reggimenti della milizia difesa territoriale ed i battaglioni della X Mas) e straniere (le compagnie dello “Slovensko domobranstvo”, i battaglioni cetnici e le unità cosacche). L’autore inoltre non aggiunge che le varie modifiche apportate al nome del reparto (pp. 50-52) non mutarono l’unica definizione tedesca, ossia “Friaulaner frewilligen regiment Tagliamento”, con l’accento calcato sul “friaulaner” a garanzia di una identità che non contraddicesse l’avvento del Reich sulle coste dell’Adriatico.
Cucut, infine, tratteggia in poche righe (avrebbe meritato più spazio) la stupefacente conclusione della storia del reggimento: gli uomini del “Tagliamento” il 27 aprile 1945 si tolgono i gladi dalle mostrine, li sostituiscono con coccarde tricolori, ed entrano, colonnello in testa, nella VIII brigata “Osoppo” contribuendo a difendere Cividale prima dai cosacchi e dai tedeschi in ritirata e poi dalle truppe dell’esercito di liberazione jugoslavo.
Una pagina che andrebbe meglio studiata e che parla a volumi di come a far semplici cose che semplici non sono si rischia di far torto alla storia.
Stay behind senza pregiudizi
Giacomo Pacini, Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (1945-1991), Civitavecchia, Prospettiva editrice, 2008.
La vicenda narrata da Giacomo Pacini inizia idealmente nello stesso periodo e nello stesso luogo in cui si conclude il lavoro analizzato in precedenza. L’autore, infatti, narra sine ira et studio la nascita, lo sviluppo e la ramificazione, specie nella Venezia Giulia (ma anche altrove nel nord Italia) delle organizzazioni paramilitari destinate a confluire nell’organizzazione “Stay Behind”. Basandosi su una corposa bibliografia ed una documentazione in gran parte inedita (relazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta, testimonianze di uomini politici e numerosi atti processuali), lo studioso descrive con mano sicura la complessa gestazione che portò alla nascita dei servizi segreti postbellici e soprattutto la difficile organizzazione delle strutture informative nella provincia di Trieste, territorio il cui ritorno all’Italia era tutt’altro che scontato all’inizio degli anni ’50.
Il confine fra guerra fredda e guerra “calda” in questa tormentata area ebbe a lungo confini incerti, tanto che le varie associazioni più o meno clandestine, come i circoli “sportivi” triestini o la organizzazione “O” (diretta e naturale filiazione della “Osoppo” del 1943-45) ebbero rapporti con le forze armate e quelle di polizia sotto la supervisione ed il diretto controllo e finanziamento del governo di Roma. Con il trascorrere del tempo alcune di queste formazioni furono infiltrate da elementi di estrema destra, i quali inquinarono fortemente l’attività delle stesse tramite appoggi eterodiretti: uomini dei servizi civili e militari, reti spionistiche straniere legate agli Stati uniti, elementi vicini alla massoneria deviata.
Di grande interesse anche il capitolo dedicato alle organizzazioni paramilitari legate alla Democrazia Cristiana, come il “Movimento di avanguardia cattolica italiana” (MACI), di cui ancora oggi poco o nulla è conosciuto, ma che ebbe una ramificazione ed uno sviluppo, almeno in Lombardia, di proporzioni sconcertanti. Il 18 aprile 1948 fu la data in cui raggiunse lo zenit operativo, che prevedeva in caso di insurrezione comunista anche l’uso delle armi, ma almeno fino alla fine degli anni ’50 il MACI non smobilitò mai per intero.
In conclusione bene fa l’autore a precisare un concetto che a noi è sempre parso limpido, ma che diversi studiosi fanno ancora fatica a digerire: durante la guerra fra l’occidente e l’oriente il nostro paese fu indossato come un guanto da entità politiche e militari di colore ideologico opposto che si scontrarono in modo tutt’altro che incruento. Trovare il discrimine fra “i buoni” e i “cattivi” in questo scenario è impresa improba. Pacini si ferma infatti sulla soglia dei giudizi morali, lasciandoli doverosamente alla coscienza del lettore; lo studioso però non si scorda di dire che molta della “leggenda nera” su Gladio e dintorni non ha avuto alcun riscontro giudiziario in oltre quindici anni di indagini serrate, volte a dimostrare i legami diretti fra questa struttura e il terrorismo neofascista. Forse perché lo scontro, in fondo, era fra una sia pure imperfetta e sbilenca democrazia, e una ideologia che di democrazia prevedeva solo una forma “popolare”, sperimentata tragicamente al di là della cortina di ferro.
Non si può quindi che essere grati all’Autore per aver svolto con coscienza un compito complesso e difficile, aprendo le porte ad una stagione di studi che potrebbe (finalmente) essere meno condizionata dai teoremi ideologici di quanto non lo sia stata sino ad ora.