L’ultimo Moicano
Angelo Bendotti - Elisabetta Ruffini, Gli ultimi fuochi, Bergamo, Il filo di Arianna, 2008
La strage di Rovetta (BG), nel corso della quale furono uccise 43 camicie nere della legione “Tagliamento”, è diventata oggetto di studio storico dagli anni ’90 grazie alla curiosità di alcuni ricercatori di orientamento agiografico rispetto all’ultimo fascismo, come Lodovico Galli, Massimo Lucioli e Davide Sabatini, o Giuliano Fiorani. A essi si sono aggiunti diversi pubblicisti e giornalisti, con poca dimestichezza della storiografia scientifica, che hanno ulteriormente complicato un quadro già di per sé fosco e sgradevole. Angelo Bendotti, assieme a Elisabetta Ruffini, con ben altra competenza, ci offrono in questo volume una descrizione dell’episodio dettagliata e documentata.
La ricostruzione ci appare inappuntabile, specie nell’inquadramento dei fatti nella generale resa dei conti di fine guerra, e in modo particolare nella ricerca di una tardiva vendetta nei confronti della “Tagliamento” che aveva costellato la Val Camonica di lutti e rovine, uccidendo e torturando decine fra civili e partigiani. Esprimiamo qualche riserva sul fatto che la fucilazione venga raccontata in modo indiretto, tramite le parole dei partigiani raccolte nelle deposizioni processuali successive alla fine della guerra, e in essa ci si imbatta solo a p. 71 del volume; le pagine precedenti e molte delle successive sono dedicate alla “spiegazione”, alla “chiarificazione”, alla “definizione” di cosa era stata la guerra partigiana in quella parte della Bergamasca, e di quanto fosse stato ignobile il comportamento della formazione comandata da Merico Zuccari. La scena madre, ossia il mitragliamento a sangue freddo e senza accertamenti di responsabilità di decine di giovanissimi (alcuni minorenni) avvenuto ormai a guerra finita e la successiva sepoltura sommaria dei cadaveri ci giunge come una eco lontana, senza dettagli di quell’inutile supplizio. Riteniamo da tempo inutile questo eccesso di prudenza: non è possibile che per raccontare un massacro di fascisti si debba sempre partire “ab ovo”.
Poco da dire sul resto dello studio, dedicato al “dopo” ossia alle vicende processuali e storiografiche dell’episodio, che vengono affrontati in modo analitico e documentato. Molto invece ci sarebbe da aggiungere, in termini di giudizi morali, su uno dei protagonisti dei fatti di Rovetta, il comandante partigiano jugoslavo Pavlo Poduje “Moicano”. Onestamente, un uomo che a cinquant’anni dal cruento episodio afferma di provare rammarico “per aver lasciato vivi alcuni di quei ragazzi che erano sui sedici anni” poiché “i piccoli cobra hanno lo stesso morso dei grandi cobra” (p. 129) ci lascia sgomenti. Che differenza c’era allora fra “Moicano” e il suo irriducibile avversario Merico Zuccari, il quale minacciava di morte chiunque avesse dato anche solo un bicchier d’acqua ai partigiani?
Agiografia in salsa germanica
Franz Kurowski, Il commando di Hitler, Gorizia, Leg, 2009
Fra le carenze della storiografia militare sulla guerra in Italia, c’è l’inesplorato capitolo dei reparti “speciali” che i tedeschi utilizzarono specificamente per combattere i partigiani. Negli studi di Lutz Klinkhammer e soprattutto Carlo Gentile, ha acquistato in anni recenti un grande peso l’attività dei reggimenti Brandenburg, l’equivalente germanico delle truppe speciali alleate, come i “Rangers” americani o i “Commandos” britannici. Franz Kurowski, prolifico autore di opere agiografiche sulla Wehrmacht, pubblicò nel 1995 questo studio, ora tradotto (in modo purtroppo non commendevole) in italiano, che spiega quantomeno per sommi capi l’attività di questo reparto.
L’opera, dal tono divulgativo e costellata da aneddoti e divagazioni dal tema principale, tratteggia la preparazione meticolosa del braccio armato dell’Abwehr, i servizi di spionaggio e controspionaggio della Wehrmacht. I “Commandos” tedeschi furono decisivi nelle operazioni contro la Polonia, il Belgio, l’Olanda e la Francia; in altri scacchieri, come quello russo, africano e mediorientale, condussero operazioni non sempre coronate da successo, ma certamente organizzate e gestite in modo impeccabile. Dal 1943 i reparti Brandenburg furono ampliati sino allo status divisionale, anche se vennero utilizzati come grande unità organica solo verso il termine della guerra, e da quel momento l’attività antipartigiana fu la principale modalità di utilizzo della formazione.
Di questo periodo troviamo nel libro di Kurowski solo frammentarie informazioni, che riguardano perlopiù i Balcani, e sempre prive di quanto di sgradevole c’è sempre in questo tipo di guerriglia: rappresaglie, fucilazioni, incendi di villaggi (qualcosa, solo en passant, si rinviene nella descrizione di alcune operazioni condotte in Grecia). Grande assente del volume è l’attività del 3° reggimento Brandenburg, e soprattutto del suo 2° battaglione, che operò in Italia dall’ottobre 1943 al dicembre 1944, e che fu coinvolto in numerosi episodi sanguinosi contro partigiani e civili in Abruzzo, nelle Marche, in Romagna e Val d’Aosta, assieme all’unità italiana che ne seguì le sorti, il reparto M “IX settembre”, di cui peraltro si trova traccia a p. 368 del volume, come formazione organica alla divisione tedesca.
Purtroppo, al momento, non esistono altri studi in italiano sui Brandenburg. E quello di Kurowski ci appare comunque decisamente mediocre.
Memorie salotine
Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo, Venezia, Marsilio, 2009
L’autore ha affrontato in diversi saggi e articoli la parabola della RSI e la sua memoria postbellica. In questo agile volume Chiarini riassume per sommi capi il suo pensiero su entrambi gli argomenti, offrendo vari spunti di riflessione sul “prima”, il “durante” e il “dopo” della repubblica di Mussolini e dei suoi uomini, dai gregari sino ai collaboratori del duce.
Nel volume troviamo diverse note interpretative che condividiamo, soprattutto il fatto che il fascismo di Salò non fu una calata degli Hyksos, come vorrebbe una certa storiografia; gli “orfani del duce”, come constata lo studioso, non erano una sparuta pattuglia di fanatici, ma uomini di diverse generazioni e motivazioni a seconda dei vari “strati” anagrafici: gli ex squadristi, i militari (gli uomini della milizia soprattutto, come anche noi avevamo intuito), i giovani e giovanissimi educati nel regime. Tutti questi avrebbero probabilmente fatto rinascere un movimento di collaborazione con gli occupanti nazisti, in nome della causa comune, dell’onore (variamente inteso e declinato) e della lotta contro gli antifascisti, armati o meno. E per rendere credibile questa nuova nascita del movimento in camicia nera, in una Italia indifferente e sostanzialmente tesa già al “dopo”, l’essere crudeli e “terribilissimi” era una scelta praticamente obbligata, come già Claudio Pavone aveva compreso e spiegato.
La parte più interessante, e purtroppo breve, è dedicata al mondo dei reduci e degli altri naufraghi di quella esperienza; per questi fascisti in democrazia, la repubblica del Duce, come correttamente annota Chiarini, fu il mito positivo del MSI e dei suoi attivisti di ogni età fino alla morte di Giorgio Almirante. Non casualmente appare ancora oggi faticoso per un leader carismatico come Gianfranco Fini il tentativo di storicizzare (o meglio “esorcizzare”?) quella esperienza, comunque tragica e sanguinosa.
Marzabotto giorno per giorno
Luca Baldissara - Paolo Pezzino, Il massacro, Bologna, Il Mulino, 2009
Il ponderoso e documentato volume di Baldissara e Pezzino dovrebbe far riflettere sia chi si occupa di storia, sia la società civile, su un fatto non marginale: ci sono voluti sessantacinque anni per avere la prima ricostruzione analitica, “giorno per giorno, ora per ora”, di cosa avvenne su Monte Sole e dintorni alla fine del settembre 1944 fatta da storici di professione. Sino ad oggi abbiamo avuto sull’argomento pamphlets, racconti più o meno polemici, dibattiti giornalistici, romanzi, narrazioni (anche pregevoli) di studiosi dilettanti. Resta da chiedersi perché gli accademici italiani, fra i quali non sono mancati bravi ricercatori di cose militari, abbiano atteso ben più di mezzo secolo per avvicinarsi al più spaventoso eccidio di massa di civili avvenuto in Europa occidentale nel corso dell’occupazione tedesca.
La ricostruzione è dettagliata, riccamente documentata da carte e testimonianze, diverse delle quali inedite: ci troviamo insomma di fronte a quella che può essere considerata l’opera definitiva sull’argomento. Ci si permetta però in merito un lontano (e sempre attuale) commento del rimpianto Renzo de Felice: “prima di addentrarsi nella spiegazione di eventi storici, servirebbe prima di tutto narrarli correttamente e in modo dettagliato. Per motivi ideologici spesso gli studiosi italiani fanno il contrario: prima interpretano e poi ricostruiscono”. A dimostrazione di questo assunto, solo oggi, dopo decenni dai fatti, la ricerca di Pezzino e Baldissara ci offre fatti concreti, ossia la nuda cronaca della tragedia che portò alla morte di oltre settecento fra donne, vecchi e bambini, letteralmente macellati dai granatieri della 16° divisione SS.
Il fosco quadro di quei giorni, finalmente, prende forma: i partigiani della “Stella Rossa” guidati da Mario Musolesi che sono convinti di riuscire a tenere le posizioni sino all’arrivo degli Alleati, ormai a pochi chilometri di distanza, l’azione di annientamento pianificata in modo scientifico dalle SS della divisione di Max Simon, che mettono in pratica un tipo di guerra ai civili già attuata da molti dei suoi quadri quando erano parte della divisione “Totenkopf”, il totale annichilimento delle comunità locali fra Monte Sole e Monte Caprara. E poi il dopo: i processi mal gestiti e peggio condotti, con giudici che non riescono a mettere in relazione (incredibilmente) l’attività omicida di Walter Reder con quella del suo capo, il generale Simon.
Registriamo come limite al lavoro l’assenza delle vicende militari successive a quell’evento. La 16° SS, infatti, fino a febbraio 1945 fu schierata in Romagna sul fiume Senio, in zone di forte concentrazione partigiana, senza distinguersi per l’attitudine omicida che l’aveva caratterizzata sino dall’estate 1944. A parer nostro il differente comportamento del reparto dipese dall’arrivo del nuovo comandante, Otto Baum, che aveva un curriculum militare meno inquietante di Max Simon, ex comandante di corpo di guardia in numerosi campi di concentramento nazisti.
Si tratta comunque di peccati veniali. Ci troviamo insomma di fronte ad un opera definitiva sull’argomento.
Sangue in Toscana
Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili, Carocci, Roma, 2009
In premessa a questo complesso e articolato lavoro d’insieme di Gianluca Fulvetti, dobbiamo esprimere una considerazione su quanto seriamente la regione Toscana abbia coltivato e alimentato economicamente gli studi sul periodo dell’occupazione tedesca e della guerra di liberazione. Il risultato di questo sforzo è una – oramai lunga – serie di titoli pubblicati presso l’editore Carocci, che rappresentano un “unicum” per qualità e quantità di argomenti e temi trattati; stride, in questo panorama, il confronto con altre amministrazioni locali che pure hanno investito (purtroppo non sempre bene) per promuovere la ricerca sulla “guerra in casa”, con esiti decisamente inferiori, per non dire spesso mediocri.
Dello studio di Fulvetti si può solo dir bene, non fosse altro perché ci troviamo per la prima volta di fronte ad una analisi sistematica e cronologica, provincia per provincia, di cosa significò la “guerra ai civili” in Toscana fra il 1943 e il 1944. Ci convince la suddivisione temporale: una prima, cruenta e breve stagione di sangue all’atto dell’arrivo dei nazisti in Toscana, una seconda fase in cui i tedeschi valutano le forze da impegnare, lasciando la repressione prevalentemente alle male equipaggiate e peggio armate formazioni fasciste, sino a riprendere in mano il bandolo della matassa nella primavera 1944, con operazioni pianificate e condotte scientificamente da reparti d’elite come la divisione “Hermann Goering”; logica e tragica conclusione, la strategia dell’annientamento delle comunità locali nei luoghi sui quali, man mano, si arrestava il fronte attraverso la Toscana. Tutto questo fino alla feroce estate del 1944, durante la quale le SS della divisione “Reichsfuehrer” fecero terra bruciata in Versilia e Lunigiana.
Non si può, infine, sorvolare sul fatto che l’autore, nelle articolate conclusioni, compie una necessaria riflessione su quanto e come il modo di condurre la guerriglia dei partigiani abbia contribuito a una stagione di così brutale violenza. Su questo argomento, crediamo che non esistano risposte buone per tutte le stagioni, o teoremi pronti all’uso, ma domande aperte, che vanno affrontate senza pregiudizi ideologici. Questo fa Fulvetti al termine di un lavoro ponderoso e difficile, ma i cui risultati confermano la bravura del giovane studioso.
Angelo Bendotti - Elisabetta Ruffini, Gli ultimi fuochi, Bergamo, Il filo di Arianna, 2008
La strage di Rovetta (BG), nel corso della quale furono uccise 43 camicie nere della legione “Tagliamento”, è diventata oggetto di studio storico dagli anni ’90 grazie alla curiosità di alcuni ricercatori di orientamento agiografico rispetto all’ultimo fascismo, come Lodovico Galli, Massimo Lucioli e Davide Sabatini, o Giuliano Fiorani. A essi si sono aggiunti diversi pubblicisti e giornalisti, con poca dimestichezza della storiografia scientifica, che hanno ulteriormente complicato un quadro già di per sé fosco e sgradevole. Angelo Bendotti, assieme a Elisabetta Ruffini, con ben altra competenza, ci offrono in questo volume una descrizione dell’episodio dettagliata e documentata.
La ricostruzione ci appare inappuntabile, specie nell’inquadramento dei fatti nella generale resa dei conti di fine guerra, e in modo particolare nella ricerca di una tardiva vendetta nei confronti della “Tagliamento” che aveva costellato la Val Camonica di lutti e rovine, uccidendo e torturando decine fra civili e partigiani. Esprimiamo qualche riserva sul fatto che la fucilazione venga raccontata in modo indiretto, tramite le parole dei partigiani raccolte nelle deposizioni processuali successive alla fine della guerra, e in essa ci si imbatta solo a p. 71 del volume; le pagine precedenti e molte delle successive sono dedicate alla “spiegazione”, alla “chiarificazione”, alla “definizione” di cosa era stata la guerra partigiana in quella parte della Bergamasca, e di quanto fosse stato ignobile il comportamento della formazione comandata da Merico Zuccari. La scena madre, ossia il mitragliamento a sangue freddo e senza accertamenti di responsabilità di decine di giovanissimi (alcuni minorenni) avvenuto ormai a guerra finita e la successiva sepoltura sommaria dei cadaveri ci giunge come una eco lontana, senza dettagli di quell’inutile supplizio. Riteniamo da tempo inutile questo eccesso di prudenza: non è possibile che per raccontare un massacro di fascisti si debba sempre partire “ab ovo”.
Poco da dire sul resto dello studio, dedicato al “dopo” ossia alle vicende processuali e storiografiche dell’episodio, che vengono affrontati in modo analitico e documentato. Molto invece ci sarebbe da aggiungere, in termini di giudizi morali, su uno dei protagonisti dei fatti di Rovetta, il comandante partigiano jugoslavo Pavlo Poduje “Moicano”. Onestamente, un uomo che a cinquant’anni dal cruento episodio afferma di provare rammarico “per aver lasciato vivi alcuni di quei ragazzi che erano sui sedici anni” poiché “i piccoli cobra hanno lo stesso morso dei grandi cobra” (p. 129) ci lascia sgomenti. Che differenza c’era allora fra “Moicano” e il suo irriducibile avversario Merico Zuccari, il quale minacciava di morte chiunque avesse dato anche solo un bicchier d’acqua ai partigiani?
Agiografia in salsa germanica
Franz Kurowski, Il commando di Hitler, Gorizia, Leg, 2009
Fra le carenze della storiografia militare sulla guerra in Italia, c’è l’inesplorato capitolo dei reparti “speciali” che i tedeschi utilizzarono specificamente per combattere i partigiani. Negli studi di Lutz Klinkhammer e soprattutto Carlo Gentile, ha acquistato in anni recenti un grande peso l’attività dei reggimenti Brandenburg, l’equivalente germanico delle truppe speciali alleate, come i “Rangers” americani o i “Commandos” britannici. Franz Kurowski, prolifico autore di opere agiografiche sulla Wehrmacht, pubblicò nel 1995 questo studio, ora tradotto (in modo purtroppo non commendevole) in italiano, che spiega quantomeno per sommi capi l’attività di questo reparto.
L’opera, dal tono divulgativo e costellata da aneddoti e divagazioni dal tema principale, tratteggia la preparazione meticolosa del braccio armato dell’Abwehr, i servizi di spionaggio e controspionaggio della Wehrmacht. I “Commandos” tedeschi furono decisivi nelle operazioni contro la Polonia, il Belgio, l’Olanda e la Francia; in altri scacchieri, come quello russo, africano e mediorientale, condussero operazioni non sempre coronate da successo, ma certamente organizzate e gestite in modo impeccabile. Dal 1943 i reparti Brandenburg furono ampliati sino allo status divisionale, anche se vennero utilizzati come grande unità organica solo verso il termine della guerra, e da quel momento l’attività antipartigiana fu la principale modalità di utilizzo della formazione.
Di questo periodo troviamo nel libro di Kurowski solo frammentarie informazioni, che riguardano perlopiù i Balcani, e sempre prive di quanto di sgradevole c’è sempre in questo tipo di guerriglia: rappresaglie, fucilazioni, incendi di villaggi (qualcosa, solo en passant, si rinviene nella descrizione di alcune operazioni condotte in Grecia). Grande assente del volume è l’attività del 3° reggimento Brandenburg, e soprattutto del suo 2° battaglione, che operò in Italia dall’ottobre 1943 al dicembre 1944, e che fu coinvolto in numerosi episodi sanguinosi contro partigiani e civili in Abruzzo, nelle Marche, in Romagna e Val d’Aosta, assieme all’unità italiana che ne seguì le sorti, il reparto M “IX settembre”, di cui peraltro si trova traccia a p. 368 del volume, come formazione organica alla divisione tedesca.
Purtroppo, al momento, non esistono altri studi in italiano sui Brandenburg. E quello di Kurowski ci appare comunque decisamente mediocre.
Memorie salotine
Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo, Venezia, Marsilio, 2009
L’autore ha affrontato in diversi saggi e articoli la parabola della RSI e la sua memoria postbellica. In questo agile volume Chiarini riassume per sommi capi il suo pensiero su entrambi gli argomenti, offrendo vari spunti di riflessione sul “prima”, il “durante” e il “dopo” della repubblica di Mussolini e dei suoi uomini, dai gregari sino ai collaboratori del duce.
Nel volume troviamo diverse note interpretative che condividiamo, soprattutto il fatto che il fascismo di Salò non fu una calata degli Hyksos, come vorrebbe una certa storiografia; gli “orfani del duce”, come constata lo studioso, non erano una sparuta pattuglia di fanatici, ma uomini di diverse generazioni e motivazioni a seconda dei vari “strati” anagrafici: gli ex squadristi, i militari (gli uomini della milizia soprattutto, come anche noi avevamo intuito), i giovani e giovanissimi educati nel regime. Tutti questi avrebbero probabilmente fatto rinascere un movimento di collaborazione con gli occupanti nazisti, in nome della causa comune, dell’onore (variamente inteso e declinato) e della lotta contro gli antifascisti, armati o meno. E per rendere credibile questa nuova nascita del movimento in camicia nera, in una Italia indifferente e sostanzialmente tesa già al “dopo”, l’essere crudeli e “terribilissimi” era una scelta praticamente obbligata, come già Claudio Pavone aveva compreso e spiegato.
La parte più interessante, e purtroppo breve, è dedicata al mondo dei reduci e degli altri naufraghi di quella esperienza; per questi fascisti in democrazia, la repubblica del Duce, come correttamente annota Chiarini, fu il mito positivo del MSI e dei suoi attivisti di ogni età fino alla morte di Giorgio Almirante. Non casualmente appare ancora oggi faticoso per un leader carismatico come Gianfranco Fini il tentativo di storicizzare (o meglio “esorcizzare”?) quella esperienza, comunque tragica e sanguinosa.
Marzabotto giorno per giorno
Luca Baldissara - Paolo Pezzino, Il massacro, Bologna, Il Mulino, 2009
Il ponderoso e documentato volume di Baldissara e Pezzino dovrebbe far riflettere sia chi si occupa di storia, sia la società civile, su un fatto non marginale: ci sono voluti sessantacinque anni per avere la prima ricostruzione analitica, “giorno per giorno, ora per ora”, di cosa avvenne su Monte Sole e dintorni alla fine del settembre 1944 fatta da storici di professione. Sino ad oggi abbiamo avuto sull’argomento pamphlets, racconti più o meno polemici, dibattiti giornalistici, romanzi, narrazioni (anche pregevoli) di studiosi dilettanti. Resta da chiedersi perché gli accademici italiani, fra i quali non sono mancati bravi ricercatori di cose militari, abbiano atteso ben più di mezzo secolo per avvicinarsi al più spaventoso eccidio di massa di civili avvenuto in Europa occidentale nel corso dell’occupazione tedesca.
La ricostruzione è dettagliata, riccamente documentata da carte e testimonianze, diverse delle quali inedite: ci troviamo insomma di fronte a quella che può essere considerata l’opera definitiva sull’argomento. Ci si permetta però in merito un lontano (e sempre attuale) commento del rimpianto Renzo de Felice: “prima di addentrarsi nella spiegazione di eventi storici, servirebbe prima di tutto narrarli correttamente e in modo dettagliato. Per motivi ideologici spesso gli studiosi italiani fanno il contrario: prima interpretano e poi ricostruiscono”. A dimostrazione di questo assunto, solo oggi, dopo decenni dai fatti, la ricerca di Pezzino e Baldissara ci offre fatti concreti, ossia la nuda cronaca della tragedia che portò alla morte di oltre settecento fra donne, vecchi e bambini, letteralmente macellati dai granatieri della 16° divisione SS.
Il fosco quadro di quei giorni, finalmente, prende forma: i partigiani della “Stella Rossa” guidati da Mario Musolesi che sono convinti di riuscire a tenere le posizioni sino all’arrivo degli Alleati, ormai a pochi chilometri di distanza, l’azione di annientamento pianificata in modo scientifico dalle SS della divisione di Max Simon, che mettono in pratica un tipo di guerra ai civili già attuata da molti dei suoi quadri quando erano parte della divisione “Totenkopf”, il totale annichilimento delle comunità locali fra Monte Sole e Monte Caprara. E poi il dopo: i processi mal gestiti e peggio condotti, con giudici che non riescono a mettere in relazione (incredibilmente) l’attività omicida di Walter Reder con quella del suo capo, il generale Simon.
Registriamo come limite al lavoro l’assenza delle vicende militari successive a quell’evento. La 16° SS, infatti, fino a febbraio 1945 fu schierata in Romagna sul fiume Senio, in zone di forte concentrazione partigiana, senza distinguersi per l’attitudine omicida che l’aveva caratterizzata sino dall’estate 1944. A parer nostro il differente comportamento del reparto dipese dall’arrivo del nuovo comandante, Otto Baum, che aveva un curriculum militare meno inquietante di Max Simon, ex comandante di corpo di guardia in numerosi campi di concentramento nazisti.
Si tratta comunque di peccati veniali. Ci troviamo insomma di fronte ad un opera definitiva sull’argomento.
Sangue in Toscana
Gianluca Fulvetti, Uccidere i civili, Carocci, Roma, 2009
In premessa a questo complesso e articolato lavoro d’insieme di Gianluca Fulvetti, dobbiamo esprimere una considerazione su quanto seriamente la regione Toscana abbia coltivato e alimentato economicamente gli studi sul periodo dell’occupazione tedesca e della guerra di liberazione. Il risultato di questo sforzo è una – oramai lunga – serie di titoli pubblicati presso l’editore Carocci, che rappresentano un “unicum” per qualità e quantità di argomenti e temi trattati; stride, in questo panorama, il confronto con altre amministrazioni locali che pure hanno investito (purtroppo non sempre bene) per promuovere la ricerca sulla “guerra in casa”, con esiti decisamente inferiori, per non dire spesso mediocri.
Dello studio di Fulvetti si può solo dir bene, non fosse altro perché ci troviamo per la prima volta di fronte ad una analisi sistematica e cronologica, provincia per provincia, di cosa significò la “guerra ai civili” in Toscana fra il 1943 e il 1944. Ci convince la suddivisione temporale: una prima, cruenta e breve stagione di sangue all’atto dell’arrivo dei nazisti in Toscana, una seconda fase in cui i tedeschi valutano le forze da impegnare, lasciando la repressione prevalentemente alle male equipaggiate e peggio armate formazioni fasciste, sino a riprendere in mano il bandolo della matassa nella primavera 1944, con operazioni pianificate e condotte scientificamente da reparti d’elite come la divisione “Hermann Goering”; logica e tragica conclusione, la strategia dell’annientamento delle comunità locali nei luoghi sui quali, man mano, si arrestava il fronte attraverso la Toscana. Tutto questo fino alla feroce estate del 1944, durante la quale le SS della divisione “Reichsfuehrer” fecero terra bruciata in Versilia e Lunigiana.
Non si può, infine, sorvolare sul fatto che l’autore, nelle articolate conclusioni, compie una necessaria riflessione su quanto e come il modo di condurre la guerriglia dei partigiani abbia contribuito a una stagione di così brutale violenza. Su questo argomento, crediamo che non esistano risposte buone per tutte le stagioni, o teoremi pronti all’uso, ma domande aperte, che vanno affrontate senza pregiudizi ideologici. Questo fa Fulvetti al termine di un lavoro ponderoso e difficile, ma i cui risultati confermano la bravura del giovane studioso.