Aridagliela ai preti...
Valerio Romitelli, L’odio per i partigiani, Napoli, Cronopio, 2007
In questo agile volumetto Valerio Romitelli, in un centinaio di pagine offre risposte (a parer suo) risolutive sulle ragioni per cui (sempre a parer suo) nella società civile italiana di oggidì esiste uno strisciante e malcelato pregiudizio nei confronti dei partigiani.
L’uomo della strada potrebbe ritenere che ciò sia causato dal fatto che i cosiddetti “gendarmi della memoria” hanno fornito un apparato celebrativo ridondante e assieme versioni edulcorate o fantasiose della guerra civile e del suo esito. In realtà leggendo Romitelli scopriamo ben altro: la prima responsabile dell’odio antipartigiano (ça va sans dire) è la Chiesa italiana per aver profuso per secoli idee bislacche come quelle che far la pace è meglio che scannarsi. In secondo luogo (e questo invero ci pare più interessante) la gente odia i partigiani perché rappresentarono una tipologia di aggregazione “non convenzionale”, come gruppi “spontanei di base” e quindi anti-familiari e anti-ideologici.
A chi invece ebbe il coraggio di rompere il tradizionale familismo veterocattolico italiano, va invece la stima del Romitelli, il quale vede nei “garibaldini” come nei “giellini” del 1944, gli antesignani degli attivisti dei centri sociali. Seguendo la logica dell’Autore, ossia che si dovrebbe avere riconoscenza per chi si raggruppò secondo logiche di gruppi non familiari, non gerarchici e “spontanei”, perché non avere gratitudine, per esempio, per gli uomini della brigata nera di Lucca, i quali si riunirono e si armarono spontaneamente, rompendo i vincoli familiari e trasmigrando al nord, per condurre la loro guerra personale, in nome del proprio schema di valori?
Al lettore – infelice – l’ardua sentenza.
Archeologia militare
In questo agile volumetto Valerio Romitelli, in un centinaio di pagine offre risposte (a parer suo) risolutive sulle ragioni per cui (sempre a parer suo) nella società civile italiana di oggidì esiste uno strisciante e malcelato pregiudizio nei confronti dei partigiani.
L’uomo della strada potrebbe ritenere che ciò sia causato dal fatto che i cosiddetti “gendarmi della memoria” hanno fornito un apparato celebrativo ridondante e assieme versioni edulcorate o fantasiose della guerra civile e del suo esito. In realtà leggendo Romitelli scopriamo ben altro: la prima responsabile dell’odio antipartigiano (ça va sans dire) è la Chiesa italiana per aver profuso per secoli idee bislacche come quelle che far la pace è meglio che scannarsi. In secondo luogo (e questo invero ci pare più interessante) la gente odia i partigiani perché rappresentarono una tipologia di aggregazione “non convenzionale”, come gruppi “spontanei di base” e quindi anti-familiari e anti-ideologici.
A chi invece ebbe il coraggio di rompere il tradizionale familismo veterocattolico italiano, va invece la stima del Romitelli, il quale vede nei “garibaldini” come nei “giellini” del 1944, gli antesignani degli attivisti dei centri sociali. Seguendo la logica dell’Autore, ossia che si dovrebbe avere riconoscenza per chi si raggruppò secondo logiche di gruppi non familiari, non gerarchici e “spontanei”, perché non avere gratitudine, per esempio, per gli uomini della brigata nera di Lucca, i quali si riunirono e si armarono spontaneamente, rompendo i vincoli familiari e trasmigrando al nord, per condurre la loro guerra personale, in nome del proprio schema di valori?
Al lettore – infelice – l’ardua sentenza.
Archeologia militare
Alberto Benuzzi, Gianfranco Relli, Luca Fortuzzi, La gotica ritrovata, Italian Front 1944-45 (voll. 1-2), Verona, Bonomo, 2005, 2006, 2007; http://www.lagoticaritrovata.it/ (2009).
La professione degli autori non è quella degli storici, ma qualsiasi studioso di cose militari dovrebbe avere una sincera gratitudine per i sopra citati “archeologi della seconda guerra mondiale”. Dal 2005 in avanti, infatti, sia in forma edita, sia in versione web, Benuzzi, Relli e Fortuzzi mettono all’attenzione dei ricercatori i loro ritrovamenti di materiale bellico rinvenuto sull’Appennino bolognese, nelle zone in cui avvennero nel 1944-45 alcuni fra i più duri scontri della guerra in Italia.
I reperti rinvenuti sono di notevole interesse, specie per quegli studiosi che anche in tempi recenti si sono impegnati in analisi finalmente approfondite e scientifiche sulle stragi naziste in Italia; verrebbe anzi da dire che – forse – anche lo storico dovrebbe far visita ai campi di battaglia. Come giudicare, infatti, i contenuti del “Der Melder”, il foglio da campo della famigerata 16° divisione SS, fortunosamente rinvenuto in un tunnel nei pressi di Sasso Marconi? Che tracce si possono cogliere dalla mezza dozzina di rarissimi “Bandenkampfabzeichen”, i distintivi tedeschi con cui venivano decorati i militari distintisi nella lotta antipartigiana, trovati, incredibilmente, tutti nello stesso luogo, quasi che i loro possessori se ne fossero voluti liberare prima della cattura? E cosa ci faceva, fra questi, l’altrettanto raro distintivo da berretto della polizia lituana?
Altra scoperta che suggerisce nuovi filoni di ricerca è la straordinaria ricchezza e varietà del materiale di propaganda nazista, che risulta davvero di forme e proporzioni inattese a poche settimane del collasso finale: decine di versioni diverse di volantini in inglese imperniati sul bombardamento di Dresda (e quindi databili non prima della fine di febbraio 1945, ma forse sono di marzo-aprile dello stesso anno), fogli volanti in cui si tenta di demoralizzare gli americani facendo presente che per molti di loro, finita la campagna d’Italia, ci sarà ancora da combattere contro i giapponesi. Documentazione simile fu prodotta anche in brasiliano e in polacco. Uno sforzo davvero immane per una nazione in ginocchio.
Onore al merito, quindi agli “archeologi” bolognesi, con la speranza che esista un punto di incontro fra il loro lavoro e quello degli studiosi accademici.
Figli di emigranti nella RSI
La professione degli autori non è quella degli storici, ma qualsiasi studioso di cose militari dovrebbe avere una sincera gratitudine per i sopra citati “archeologi della seconda guerra mondiale”. Dal 2005 in avanti, infatti, sia in forma edita, sia in versione web, Benuzzi, Relli e Fortuzzi mettono all’attenzione dei ricercatori i loro ritrovamenti di materiale bellico rinvenuto sull’Appennino bolognese, nelle zone in cui avvennero nel 1944-45 alcuni fra i più duri scontri della guerra in Italia.
I reperti rinvenuti sono di notevole interesse, specie per quegli studiosi che anche in tempi recenti si sono impegnati in analisi finalmente approfondite e scientifiche sulle stragi naziste in Italia; verrebbe anzi da dire che – forse – anche lo storico dovrebbe far visita ai campi di battaglia. Come giudicare, infatti, i contenuti del “Der Melder”, il foglio da campo della famigerata 16° divisione SS, fortunosamente rinvenuto in un tunnel nei pressi di Sasso Marconi? Che tracce si possono cogliere dalla mezza dozzina di rarissimi “Bandenkampfabzeichen”, i distintivi tedeschi con cui venivano decorati i militari distintisi nella lotta antipartigiana, trovati, incredibilmente, tutti nello stesso luogo, quasi che i loro possessori se ne fossero voluti liberare prima della cattura? E cosa ci faceva, fra questi, l’altrettanto raro distintivo da berretto della polizia lituana?
Altra scoperta che suggerisce nuovi filoni di ricerca è la straordinaria ricchezza e varietà del materiale di propaganda nazista, che risulta davvero di forme e proporzioni inattese a poche settimane del collasso finale: decine di versioni diverse di volantini in inglese imperniati sul bombardamento di Dresda (e quindi databili non prima della fine di febbraio 1945, ma forse sono di marzo-aprile dello stesso anno), fogli volanti in cui si tenta di demoralizzare gli americani facendo presente che per molti di loro, finita la campagna d’Italia, ci sarà ancora da combattere contro i giapponesi. Documentazione simile fu prodotta anche in brasiliano e in polacco. Uno sforzo davvero immane per una nazione in ginocchio.
Onore al merito, quindi agli “archeologi” bolognesi, con la speranza che esista un punto di incontro fra il loro lavoro e quello degli studiosi accademici.
Figli di emigranti nella RSI
Bruna Pompei, Piero Delbello (a cura di), I volontari di Francia, Trieste, Svevo, 2006.
Il volume sopra riportato raccoglie una larga messe delle fotografie fatte dal diciottenne marò della X Mas Carlo Panzarasa nel corso della sua esperienza bellica fra il 1943 ed il 1945. Si tratta della vicenda, decisamente singolare, dei cosiddetti “volontari di Francia”, un centinaio di giovani e giovanissimi figli di emigranti italiani che, come reazione all’armistizio, decisero di aderire oltralpe alla RSI. Questo gruppo, inquadrato inizialmente nella base italiana di Bordeaux come fanteria di marina, passò alla X Mas nel giugno del 1944, venendo trasferito in Italia e inserito del battaglione “Fulmine” delle truppe di Valerio Borghese.
Il reparto ebbe scontri durissimi con i partigiani in Piemonte (partecipò alla rioccupazione di Alba) e ancor più pesanti nel Goriziano, dove presso Tarnova sostenne una battaglia contro il IX corpus titino da cui uscì pressoché decimato. I “volontari di Francia” si arresero, con altre formazioni della Decima a Thiene, alla fine di aprile del 1945.
Il volume ha poco o pochissimo di scrittura: qualche ricordo, alcuni commenti di reduci. Protagonista assoluto è lo straordinario materiale di Panzarasa: decine di fotografie, tutte di eccellente qualità, che documentano la peculiare vicenda di questi “ragazzi di Salò”. Sono immagini eloquenti: si passa dal clima spensierato e comunque ben lontano dalla cupa ombra della guerra combattuta dei mesi di Bordeaux, in cui i 120 italofrancesi sono addestrati sotto la supervisione degli istruttori del battaglione “San Marco” (anch’essi tutti aderenti alla RSI), alle fotografie di un funerale: quello di sei volontari uccisi dai partigiani, la cui cerimonia, fra labari e camicie nere, si svolge a Venezia. Da questo momento il sorriso scompare dai volti dei decimini, che gli scatti di Panzarasa inquadrano durante la guerriglia antipartigiana nel Cuneese, a Torino e infine nella Venezia Giulia. Anche qui un funerale, quello dei caduti nel corso della battaglia di Tarnova, svoltosi a gennaio 1945 nel duomo di Conegliano.
Nella rassegna che ci pare comunque degna di nota anche per chi non si occupa di storia militare, mancano però tre scatti, gli unici ben conosciuti prima della pubblicazione del volume, in quanto furono segretamente duplicati da un fotografo a Ivrea immediatamente dopo la fine della guerra: le immagini cruente dell’impiccagione del partigiano Ferruccio Nazionale. Una forma di autocensura che purtroppo pesa sul giudizio da dare al volume.
Non tutti gli IMI erano uguali...
Il volume sopra riportato raccoglie una larga messe delle fotografie fatte dal diciottenne marò della X Mas Carlo Panzarasa nel corso della sua esperienza bellica fra il 1943 ed il 1945. Si tratta della vicenda, decisamente singolare, dei cosiddetti “volontari di Francia”, un centinaio di giovani e giovanissimi figli di emigranti italiani che, come reazione all’armistizio, decisero di aderire oltralpe alla RSI. Questo gruppo, inquadrato inizialmente nella base italiana di Bordeaux come fanteria di marina, passò alla X Mas nel giugno del 1944, venendo trasferito in Italia e inserito del battaglione “Fulmine” delle truppe di Valerio Borghese.
Il reparto ebbe scontri durissimi con i partigiani in Piemonte (partecipò alla rioccupazione di Alba) e ancor più pesanti nel Goriziano, dove presso Tarnova sostenne una battaglia contro il IX corpus titino da cui uscì pressoché decimato. I “volontari di Francia” si arresero, con altre formazioni della Decima a Thiene, alla fine di aprile del 1945.
Il volume ha poco o pochissimo di scrittura: qualche ricordo, alcuni commenti di reduci. Protagonista assoluto è lo straordinario materiale di Panzarasa: decine di fotografie, tutte di eccellente qualità, che documentano la peculiare vicenda di questi “ragazzi di Salò”. Sono immagini eloquenti: si passa dal clima spensierato e comunque ben lontano dalla cupa ombra della guerra combattuta dei mesi di Bordeaux, in cui i 120 italofrancesi sono addestrati sotto la supervisione degli istruttori del battaglione “San Marco” (anch’essi tutti aderenti alla RSI), alle fotografie di un funerale: quello di sei volontari uccisi dai partigiani, la cui cerimonia, fra labari e camicie nere, si svolge a Venezia. Da questo momento il sorriso scompare dai volti dei decimini, che gli scatti di Panzarasa inquadrano durante la guerriglia antipartigiana nel Cuneese, a Torino e infine nella Venezia Giulia. Anche qui un funerale, quello dei caduti nel corso della battaglia di Tarnova, svoltosi a gennaio 1945 nel duomo di Conegliano.
Nella rassegna che ci pare comunque degna di nota anche per chi non si occupa di storia militare, mancano però tre scatti, gli unici ben conosciuti prima della pubblicazione del volume, in quanto furono segretamente duplicati da un fotografo a Ivrea immediatamente dopo la fine della guerra: le immagini cruente dell’impiccagione del partigiano Ferruccio Nazionale. Una forma di autocensura che purtroppo pesa sul giudizio da dare al volume.
Non tutti gli IMI erano uguali...
Rossella Ropa, Prigionieri del Terzo Reich, Bologna, Clueb, 2008.
L’autrice ha svolto un interessante studio nelle carte del distretto militare di Bologna, inerente l’attività della cosiddetta “commissione interrogatrice”, volta a stabilire il comportamento di circa 9.000 soldati bolognesi al momento dell’armistizio e nei mesi successivi.
Si tratta di un campione abbastanza interessante e rappresentativo del complesso mondo degli internati militari italiani in Germania, che oscillava attorno alle 700.000 unità. I risultati ottenuti, ci paiono degni di interesse, in quanto confermano alcune indicazioni che provenivano, sia pure in modo sommario, dagli studi pionieristici di Gerhard Schreiber e Ricciotti Lazzero e da quelli successivi di Mario Avagliano e Marco Palmieri.
L’elemento che balza immediatamente all’occhio e che davvero dovrebbe portare a nuove analisi, è la divergenza di comportamento di fronte ai nazisti da parte della truppa e degli ufficiali. Il dignitoso e fermo comportamento della quasi totalità dei soldati è contraddetto dalla tendenza generalizzata alla collaborazione da parte degli ufficiali, particolarmente quelli più alti in grado; l’accondiscendenza ai nazisti appare talvolta imbarazzante: emblematico il caso del cosiddetto “campo Graziani”, il lager per ufficiali di Biala Podalska che contò adesioni praticamente totalitarie alla RSI.
Ulteriori elementi giungono a confermare un altro dato di fatto, ossia il comportamento collaborazionista di tutti i battaglioni CC. NN. nei Balcani, confermato dalle deposizioni reticenti, se non del tutto inattendibili, degli ex-militi convocati dalla commissione interrogatrice. Dal poco che si intuisce – e come avevamo scritto alcuni anni fa –le formazioni della MVSN passarono, gagliardetto in testa, dalla parte dei tedeschi fin dalle prime giornate successive all’armistizio.
Un plauso quindi all’autrice, che porta nuovi elementi di studio su questo interessante tema di ricerca.
I volenterosi collaboratori del "nuovo ordine"
Monica Fioravanzo, Mussolini e Hitler – La repubblica sociale sotto il III Reich, Roma, Donzelli, 2009
Uniamo alle precedenti recensioni anche il recentissimo volume della Fioravanzo, in quanto ha il merito non indifferente di riuscire a dire, in modo conciso e approfondito, fatti nuovi sui venti mesi di Salò: cosa non semplice vista la bulimia editoriale e mediatica degli ultimi anni su questo argomento. Peraltro è già titolo di merito il fatto che ci troviamo di fronte ad un’opera in cui non v’è traccia dei ponderosi (e polverosi) volumi neofascisti di Pisanò. Utilizzando invece fonti d’archivio edite e inedite (come quelle del ministero degli esteri tedesco), Monica Fioravanzo dà forma alla sudditanza – invero imbarazzante – della “Duce Italien” nei confronti dell’alleato-padrone nazista. Ed è proprio questo il nodo centrale dello studio, ossia l’alleanza asimmetrica Salò-Berlino, che vide gli italiani nella scomoda posizione di “volenterosi collaboratori” (non diversamente dai vichysti di Petain, aggiungiamo noi) nei confronti del masterplan hitleriano, il quale comunque avrebbe previsto per il nostro paese, nel caso di vittoria dell’asse, una sorta di protettorato a sovranità limitata, ferme restando le annessioni de facto di Alto Adige, Trentino, Veneto, Friuli e Venezia Giulia nel Reich.
La tesi della repubblica lacustre come “male minore”, proposta da vari studiosi, risulta velleitaria ed evanescente: minore rispetto a cosa? Leggendo le missive con cui Mussolini “come italiano e come fascista” protestava per i massacri perpetrati dalla Wehrmacht nel centro Italia, davvero si fa fatica a capirlo. Unica riserva su questo lavoro davvero ben costruito, è il giudizio sull’opera di Renzo de Felice, che a parer nostro, per la sua complessità e articolazione, ci pare non possa essere catalogata fra quelle che hanno proposto una versione “edulcorata” dell’esperienza Salotina. Ma si tratta davvero di cercare il pelo nell’uovo.
Uniamo alle precedenti recensioni anche il recentissimo volume della Fioravanzo, in quanto ha il merito non indifferente di riuscire a dire, in modo conciso e approfondito, fatti nuovi sui venti mesi di Salò: cosa non semplice vista la bulimia editoriale e mediatica degli ultimi anni su questo argomento. Peraltro è già titolo di merito il fatto che ci troviamo di fronte ad un’opera in cui non v’è traccia dei ponderosi (e polverosi) volumi neofascisti di Pisanò. Utilizzando invece fonti d’archivio edite e inedite (come quelle del ministero degli esteri tedesco), Monica Fioravanzo dà forma alla sudditanza – invero imbarazzante – della “Duce Italien” nei confronti dell’alleato-padrone nazista. Ed è proprio questo il nodo centrale dello studio, ossia l’alleanza asimmetrica Salò-Berlino, che vide gli italiani nella scomoda posizione di “volenterosi collaboratori” (non diversamente dai vichysti di Petain, aggiungiamo noi) nei confronti del masterplan hitleriano, il quale comunque avrebbe previsto per il nostro paese, nel caso di vittoria dell’asse, una sorta di protettorato a sovranità limitata, ferme restando le annessioni de facto di Alto Adige, Trentino, Veneto, Friuli e Venezia Giulia nel Reich.
La tesi della repubblica lacustre come “male minore”, proposta da vari studiosi, risulta velleitaria ed evanescente: minore rispetto a cosa? Leggendo le missive con cui Mussolini “come italiano e come fascista” protestava per i massacri perpetrati dalla Wehrmacht nel centro Italia, davvero si fa fatica a capirlo. Unica riserva su questo lavoro davvero ben costruito, è il giudizio sull’opera di Renzo de Felice, che a parer nostro, per la sua complessità e articolazione, ci pare non possa essere catalogata fra quelle che hanno proposto una versione “edulcorata” dell’esperienza Salotina. Ma si tratta davvero di cercare il pelo nell’uovo.